28 Gennaio 2025

L’I.A. a teatro, ovvero: la follia digitale e l’Intelligenza Artistica dei Quotidiana.com 

Entro in questo nuovo capitolo della Trilogia sul Vedersi vivere dei Quotidianacom dopo un viaggio esplorativo di oltre quindici anni lungo le produzioni della compagnia riminese, compagna di tante ricognizioni teatrali.

In un presente sovradigitalizzato, che vanta tra le sue piaghe irrinunciabili lo smartphone, rimbalzando schiere di nomofobici tra le pareti di casa nello scrolling compulsivo, dedicare un’ora al teatro è un gesto rivoluzionario, anzi reazionario. In reazione alla gamizzazione del sociale e dell’esistenziale, al presente iperconnesso e sconnesso dall’intima natura umana. In reazione al labirinto psichedelico dei social, ai seguaci sconosciuti che ci parlano e si trasmettono come umani essendo invece bot, simulatori di attività umane con sembianze umane e disumana perseveranza. Oggi il reazionario è un rivoluzionario quasi-anarchico (non fotogenico). Il paradosso è involuto ma s’impone.

Sono entrato nella penombra della cripta bolognese delle Moline – angusta scena di tanti eccelsi lavori – per una replica che si annuncia al cospetto di un piccolo cane in ceramica, stagliato nel fascio luminoso a centro palco, cono verticale, raggio cosmico che condurrà il pubblico fino all’infosfera iperurania. 

L’attesa è mossa da ombre attorno al proscenio, una colonna di fumo sale dal piano di legno che ospita il piccolo Carlino, affiancato da due sedie solenni nel loro classicismo. In fondo alla scena altre due sedie vuote danno all’insieme una vaga aria liturgica pur secolarizzata. Intorno respira il buio, vibrano le presenze di quattro figure che presto affiorano dal raggio rosso che annuncia l’inizio. È il verbo, certamente all’origine dell’azione di questa eloquente compagnia. Subito è generato il sentimento di surrealtà e leggerezza assieme, di cui Roberto Scappin e Paola Vannoni sono artefici esperti e interpreti naturali di sé stessi.

Questo nuovo capitolo si intitola Algoritmo d’autore, fonde l’anima del classico pirandelliano per antonomasia con un testo contemporaneo che procede lungo la direttrice del surrealismo tragicomico, da una compagnia che ha nel nome la materia prima da cui attinge la propria scrittura. I personaggi in scena sono quattro (più due virtuali, vedremo, per arrivare ai sei icastici), ma – escluso il cane Ritmo – le anime che aleggiano sopra la scena e oltre, nell’apogeo dell’ubiqua websfera, sono infinite e presto sapremo che proprio i due personaggi principali – i monosillabici Al e Go – sapranno evocare anime di voci letterarie e filosofiche del passato, tra le note di Magic Moments e dei Doors.

La forza dell’incipit è nel dichiarare il paradosso dell’irrappresentabilità e riuscire poi a recitarlo; il dramma della finzione che si fa funzione logaritmica, insolubile qui come lo fu per Pirandello nell’opera dei famosi sei personaggi. La finzione è dichiarata come unica realtà presente e poi scartata, perché “gli attori non ce l’hanno un dramma” viene enunciato fin dalle prime battute. Qui il sipario si potrebbe chiudere, invece si chiude solo – e temporaneamente – la quarta parete e si apre la quinta in alto, lanciando un articolato intreccio drammaturgico oltre lo spazio fisico del teatro, seguendo un infinito campionario di database che si moltiplicano nell’elaborazione logaritmica. L’abbaio improvviso del cane Ritmo punteggia la stesura, riconduce a una quotidianità straziata da versi canini da ogni dove; per fortuna qui un obolo ceduto al dorso-salvadanaio della bestiola ristabilisce una temporanea pace. Coraggio dei Quotidiana anche in questo caso, a farsi beffe del simulacro canino, considerando la sacralità ormai conferita al pet.

Dopo alcuni scambi sommessi, viene invocata con nonchalance l’IA e lei entra vocalmente, con timbrica suadente, è una voce femminile; si avvia il sistema drammaturgico che questa volta spiazza i fan storici della compagnia abituati a seguirne i dialoghi taglienti e comici solo nell’intimo delle due sagome sul palco e pochi orpelli, per lo più vegetali. L’IA diventa la protagonista da questo momento, l’autrice; si presenta come un sistema di elaborazione dati di nome Nicole, si entra nell’ibridazione teatrale, nel gioco delle parti e dei copioni multipli fino all’umanizzazione della stessa AI, in ultimo sessualmente differenziata in un uomo e una donna, i Romano e Cristina che stagnano immobili a fondo scena.

Se il cane rassicura sempre, specie se di piccola taglia come questo Carlino di bianco smalto, l’oracolo generativo Nicole produce l’effetto duplice di paura ed entusiasmo, e di questo dualismo i Quotidiana rinviano un’ideale sintesi di smarrita ironia, che li porta a dialoghi degenerativi e via via bizzarri con la macchina-autrice, la quale non deluderà il pubblico risultando spesso cordiale e paziente nella ricerca del dramma e dei suoi attori. Attori che restano sul baratro dell’impasse recitativo con una maestria ancora una volta giocata sulla sottrazione del virtuosismo, sulla dimissione volontaria, lo sconcerto dichiarato, le posture di una strenua resistenza al dogma digitale. Sarà Nicole poco dopo a battezzare Al e Go come due algoritmi al suo servizio e questo segna il punto di torsione drammaturgica. I due navigati attori, autori di svariate tragicommedie autorevoli e premiate, si concedono per la prima volta – anche concretamente, essendo il loro processo creativo basato sulla presa diretta di dialoghi estemporanei – a un dispositivo di IA, il quale si umanizza, prende voce, elabora domande e risposte, in senso letterale crea. Siamo nel reale che depista la realtà teatrale? L’evento IA interrompe l’avvento teatrale portando in scena un bot parlante che interagisce con due esseri umani, in un’alternanza sofisticata di scoramenti, epifanie stilistiche e mini-sketch e orpelli colorati alla Quotidiana. Probabilmente è questo l’inizio di una débâcle inconclusa, è l’inizio di una lunghissima disfatta, di infinita durata.

Del tutto a loro agio in tuta colorata e scarpe da trekking, i due palesati algoritmi riescono attraverso un gioco di specchi, di occhiali modello 3D e pose icastiche, a esprimere – anche in termini filosofici cavalcando i frasari di Camus e Cioran – non soltanto un dramma teatrale quanto il vero dramma consustanziale al teatro, il dramma dell’attore solo davanti a se stesso, della finzione che gli grava addosso e lo annienta come individuo, lo pretende inautentico, abile al suo oblio. Il messaggio che io faccio reazionario è che la macchina è sì generativa di contenuti, di copioni e anche di personaggi, ma è incapace di creare un sentimento d’assenza, la frattura dell’io immanente all’uomo, la mancanza che lo completa; non riesce cioè a creare l’assurdo tanto essenziale a Camus (voce alta tra le voci alte del lavoro), il vuoto come bisogno intimo dell’artista, senza il quale lo stesso artista non sarebbe tale; Nicole, e poi il suo omologo maschile Giovanni (sicuramente più performativo ma grottesco fino al ridicolo), non possono che replicare modelli seriali, accorpare milioni di dati prestabiliti per dedurne una media, condurre inesorabilmente all’artificialità e al “rassicurante pregiudiziale”, alla matematica algoritmica della “risposta al problema”. Quando il problema è invece riuscire a starci dentro e problematizzarlo poeticamente, renderlo un’opportunità creativa inedita, una passione biancaspaventosamente fertile. Le due figure si rivelano per le entità che sono, due algoritmi che unitamente al cagnetto compongono coi loro nomi il lemma più inflazionato del momento, ma non risolvono il dilemma, restano nell’oppressione dell’irrappresentabile e lì costruiscono lo spettacolo: lo spettacolo della follia digitaleche inneggia più volte al manicomio, per l’effetto psicotropo incontenibile che produce l’ossessione del vuoto riferito al senso. L’effetto comico (manicomico), sottile e meta-filosofico, sortisce da qui, dal paradosso che ridicolizza l’ontologia professionale dell’attore sotto i suoi stessi riflettori. Il vuoto, concetto caro ai Quotidiana.com viene suggestionato, evocato e forse invocato in questo lavoro in piena (in)coscienza. In questa rarefazione di senso e di etica professionale – egregiamente simulata dai due attori reali – Al e Go da iniziali personaggi di se stessi si sono fatti creature algoritmiche, ovvero due attori abitati dall’IA e da questa condotti a recitare; due umani digitali, due re-attori alle proposte drammaturgiche di Nicole prima e Giovanni poi; loro si affidano all’IA cercando di dar corso all’opera, ma nonostante intervengano voci autorevoli dal passato e gli stessi protagonisti del dramma pirandelliano appaiano nelle voci originali di grandi interpreti (vedi il Romolo Valli del Padre), alla fine l’opera – che nei Quotidiana ha sempre attinto al surreale-quotidiano – deborda nel reale-virtuale, dal momento che in scena si consuma una commedia sentimentale tra bot e algoritmi e nel contempo una dramedy esistenziale tra le coscienze dei due attori e l’incoscienza generativa dell’AI. Un magnifico irrappresentabile spettacolo, a riprova delle abilità contorsionistiche e mentali dei veri autori alle prese con IA e quanto resta del teatro contemporaneo di ricerca.

L’effetto comico è come si diceva raggiunto, domina sul dramma, per quanto in questa prova ci si immerga in una comicità più delicata, chiaroscurale, contrastata probabilmente da intime urgenze espressive dei veri autori davanti all’imponenza e alla supponenza dei nuovi strumenti assurti a generatori creativi.

Ma il teatro prevede il dubbio, la frattura, l’errore: resterà umano, mai meno che umano, nonostante le Nicole e i Giovanni, questo uno degli assunti taciti del lavoro, tra le righe, tra un’inclinazione dello sguardo e un’esitazione labiale. Il teatro accade solo in senso umano, l’immissione di IA lo corrompe forse, ma non lo salva dalla sua aspirazione all’oblio, all’errare dello spirito e del corpo, alla sospensione di senso e dunque all’inevitabile sempre fallibile ricerca di assoluto.

Questo intimamente complesso lavoro di Scappin e Vannoni, porta in scena non solo l’intelligenza artificiale che prende slanci e voci diverse, ma anche la titubanza collettiva di fronte all’avanzata degli Al e dei GO procreati da migliaia di schiavi del web (i cosiddetti pickers) intenti a inserire milioni di dati nelle piattaforme.

Altro tema è lo smarrimento dell’arte e della mente, portandoci i Quotidiana, senza enfasi, pianamente, dentro una drammaturgia manicomiale e psicotropa dove, come nell’opera pirandelliana, la pazzia si integra con la tecnica teatrale, inneggiando al manicomio, al suicidio sotto diverse luci e declinazioni.

Cristallizzati a fondo scena, mesmerizzati, incapaci di vita, ritroviamo Cristina e Romano, le due figure sedute immobili come androidi spenti al margine del palco. Si attiveranno solo quando i due sistemi generativi li incarneranno dando corso a un finale lirico e nel contempo ilare.

Nel parossismo stroboscopico di un ballo disarticolato di Al e Go, nell’alternanza schizofrenica tra il classicismo e il virtuale vociferante, mentre il cane Ritmo abbaia e incassa monetine e nasi clowneschi vanno e vengono sui volti esterrefatti dei due algoritmi umani, lo spettatore è confortato nella sua intima nascosta, personale pazzia. Anche questo è un elemento drammaturgico che segna il passo del lavoro, come tentativo ben riuscito di rappresentare la follia collettiva, così integrata nelle cellule dei nostri giorni da passare inosservata, quasi rassicurante. Quante persone vediamo urlare per strada e fermarsi solo per poi riprendere una volta girato l’angolo della nostra attenzione, l’angolo dietro cui l’indifferenza o l’abitudine ormai ci trovano familiari al generale impazzimento, in una progressiva deriva della socialità fuori dai social e nell’irrefrenabile sviluppo di una psichiatria “per tutti”, a buon mercato, favorita da una medicina di base disinibita verso lo psicofarmaco.

Quando al finale i due algoritmi personificati chiedono a Nicole e Giovanni di apparire, le due sagome ibernate in fondo alla scena si animano, parlano sommesse, presto smarrite nella quotidianità urbana, confuse tra acquisti di zucchine al supermercato e spericolate valutazioni esistenziali: “Stiamo minando le basi della civiltà occidentale, il teatro”. Si scherniscono poi teneramente lanciandosi l’appellativo pirandelliano: “Fantoccia”, “Fantoccio”, poi è il silenzio, fino a quando liberatorio giunge il canto della donna: “E’ sera/se si spengono ormai le vetrine/un poco alla volta/se la gente cammina poi svolta ad ogni angolo in fretta/allora vuol dire vuol dire che è sera (…)”.

Sul brano che rievoca nostalgie alla Nicola Di Bari, si spengono le luci ma nel buio la macchina continua a processare, a osservarci, a guidarci verso la nuova era evolutiva. Fuori dal teatro non avremo scampo, un comune destino di passività sorvegliata ci attende.

Sono riuscito a fare qualche imprudente domanda a Roberto Scappin colto nella foresteria del teatro. 

Ti trovi in assonanza con una progressiva voglia di assenza a scena aperta? 

R.S: Certo, non vorrei più essere io la forma disarticolata, critica e sempre vigile dettata dal corpo, che si spegne e riaccende in continuazione. Il significato condanna il significante al sacrificio, quando vorrebbe sempre cogliere l’occasione dell’oblio e della dimenticanza.”

Quando ti senti più rappresentato a te stesso come attore?

R.S: Quando intimamente si rinuncia al “dovere” insensato dell’esibizione, al “dovere” variopinto del virtuosismo, al “dovere” protervo della tecnica; quando si percepisce che non c’è nulla che valga la pena di rincorrere e replicare al solo scopo di gratificare illusoriamente il pubblico, testimone di chissà quale “evento”. Da tempo credo sia ora di farla finita con il giudizio del pubblico, che disprezza o ammira, farla finita con la sua passiva indifferenza, con il suo desiderio di scrutare, di assistere, di commentare. Non dovrebbe mai essere la “presenza” carnale (fisica?) a innestare e suggerire allo spettatore il discorso. Il pubblico deve scomparire, come da tempo è ormai scomparsa la rappresentazione, sempre rappresa intorno al contorno, intorno all’afflizione disperata e isterica del tempo passato. Fantocci, li chiamava Pirandello, si riferiva agli attori che come marionette sfaccendavano sulla scena. “Fantocci” possiamo ancora chiamarli oggi, nella speranza che un giorno, finalmente, il pubblico torni a urlare: “Manicomio! Manicomio!”, definendo così lo spartiacque definitivo tra tragedia e commedia, il discrimine tra reale e irreale, tra verità e finzione, tra umano e post-umano.

Lo spettacolo è infinito.

Michele Montanari

*In copertina e nel testo: tutte le fotografie sono di Margherita Caprilli

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