Errori cristallizzano il caso. Sigismondo Pandolfo è l’erede più alto della dinastia dei Malatesta, signorotti provenienti dalle interiora romagnole – Verucchio – già noti a Dante (che li conficca agli inferi), che dopo il dominio su Rimini allungarono le zampe nelle Marche, arrivarono fino a Bergamo e a Brescia. La dinastia diede molti condottieri – Sigismondo Pandolfo è il più rapace e capace – e qualche alto prelato, il più noto è il riminese Pandolfo Malatesta (1390-1441), che fu arcivescovo di Patrasso. Sigismondo Pandolfo Malatesta, SPM, è l’emblema dell’italiano rinascimentale: agile di spada, buono di penna, ha avuto il genio – del tutto romano, cioè classico – di spendere i suoi denari per un degno monumento a futura memoria, il Tempio Malatestiano, coinvolgendo gente come Piero della Francesca, Leon Battista Alberti, Matteo de’ Pasti. Cominciò a indossare l’elmo a dieci anni, SPM, e mentre decapitava i nemici – nemici sono quelli che, assoldato, gli dicevano di sterminare – studiava i bagliori del neoplatonismo. Forse incrociato al Concilio di Firenze, s’appassiono al temperamento filosofico di Gemisto Pletone, tanto che quando andò a combattere i Turchi in Morea, nel 1464, scardinò il sepolcro del filosofo – per non lasciarlo in balia degli infedeli – e lo conficcò sul lato destro del suo Tempio. Così, SPM si appropriò non solo del corpus filosofico di Gemisto Pletone, ma proprio del suo corpo fisico. Secondo la storia, il Malatesta, in disdetta, odiato da tutti quelli che un tempo l’avevano portato in trionfo, muore il 9 ottobre 1468, 550 anni fa, mentre tentava di risorgere – per l’ennesima – come gran Lancillotto alla corte del Papa. Come si sa, la figura di SPM torna prepotente nell’immaginario letterario del Novecento, il secolo di uomini duri, di tiranni istoriati nell’acciaio – con una livida suggestione: il fascino del perduto, l’esaltazione di chi si getta nel gorgo sapendo che l’unico miracolo è la morte, la psichedelica sagacia del visionario moribondo. Ezra Pound, che fece qualche gita di studio a Rimini negli anni Venti, ne fa l’eroe dei ‘Cantos Malatestiani’, simbolo del condottiero nudo&puro; Henry de Montherlant lo onora in un testo teatrale di austera grandezza, Malatesta, pubblicato nel 1948, settant’anni fa. Secondo lo studioso Piero Sanavio – che fu al St. Elizabeths, tra i rari a dialogare con Pound – “Il Malatesta di Pound non è dissimile da quello di Montherlant nella pièce dallo stesso titolo, uno dei ‘titani che fecero la storia’”. L’errore, che è il vizio del caos, sta nella ‘quarta’ dell’edizione Gallimard del Malatesta, poi ricalcata in ulteriori edizioni: “Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini, fu un principe della guerra, un poeta, un erudito, un mecenate, un assassino, un folle casanova che tuttavia idolatrava la moglie, Isotta – incarnazione vivente dell’amore coniugale – abbastanza frivolo da costruire una chiesa dove non ci sono che simboli pagani, sufficientemente austero da vivere con un cranio sulla scrivania, tanto eretico da essere condannato al rogo dal Santo Uffizio, evidentemente religioso da morire cristiano, nel 1467, a cinquant’anni”. Dida efficace, non fosse per quel difetto cronologico – SPM non muore nel 1467 ma l’anno dopo. Ad ogni modo, Rimini ricorda il suo signore maximo riproponendo il Malatesta di Montherlant nelle aule del castello che fu di Sigismondo: il testo, una meraviglia linguistica, ha avuto traduzioni nobili (quella di Camillo Sbarbaro), ma è stato, per l’occasione, rivisto, riletto, shakerato, ritradotto dal qui scrivente. Chi vuole capire il rapporto ‘di sangue’ che lega il geniale Montherlant al grande Malatesta, deve leggere qui. Qui sotto, invece, il brano terminale della pièce. Montherlant ha avuto un brillio teatrale: Malatesta non muore per un male contratto in una ennesima battaglia; muore avvelenato. E ad avvelenarlo non è uno dei suoi avversari storici, atavici, o recenti. A ucciderlo, roso dall’invidia, è l’intellettuale di corte, il lacchè, lo scrivano stipendiato, incapace di sopportare le angherie del potente. Magnetico il significato: la Storia è dedotta dall’invidia e dal rancore, sono i personaggi di seconda fila, i vili, spesso, a corrompere i grandi sogni. Ad ogni modo, dubitate di chi è ‘colto’, coltiva la morte. (d.b.)
***
MALATESTA: Bevo in onore ai libri che elevano l’anima
e le fanno credere che davanti alla morte sarà ciò che è stata in vita.
(Beve e mesce a PORCELLIO che, di soppiatto, lancia il contenuto fuori dalla finestra).
I testi, certo, e questo… (Va a cercare delle medaglie).
Il Tempio di Rimini è preda di invidia
A Roma hanno distrutto le iscrizioni del mio trionfo
Mi accadrà forse come i Malatesta di Pesaro:
cacciati dal popolo – palazzi demoliti – tombe sbrindellate
e stemmi annientati ovunque –
le mie medaglie sono ovunque – verranno sotterrate –
guarda questa, di Pisanello – e questa, di Montefiori – leggi
c’è scritto Jam illustrat omnia – come le parole di Filelfo, ricordi?
“Su ogni oggetto che tocca Malatesta
imprime il sigillo dell’intelligenza”.
E Pio II, ricordi?, mi odiava, certo, ma ha scritto:
“In tutto ciò che fa, Malatesta eccelle”.
Conosci tutto quello che è stato scritto su di me?
Come fai a scrivere la mia Vita se non raccogli
le lodi che mi sono state tributate?
Una falange di nullità mi ha spogliato di tutto:
mi ha rubato le città le province i sudditi e l’oro
l’oro – quella cosa così bella e pura come le guance di un bimbo –
ma loro restano delle nullità – in me resiste l’immortale
la mia anima – l’immortale – che è inaccessibile come la
più alta delle montagne e loro non potranno mai calpestarla.
Che hai? Perché tremi?
PORCELLIO Tremo?
MALATESTA Sì, ti trema la mano.
PORCELLIO: Forse è il freddo – la finestra è aperta.
E poi… siete pieno di pensieri così tenebrosi…
mi stanno contagiando.
MALATESTA: Niente pensieri tristi – tu sei qui e con te la mia Vita.
Chi ci difende muore – oppure fugge.
Ma tu sarai il mio fedele amico, vero Porcellio?
Non è così? Perché da te e dal tuo libro io dipendo
da quelle parole che mi garantiranno l’immortalità.
Finiscilo presto – ho paura che questo unico esemplare sparisca
Solo tu puoi salvarmi – eppure, non sono sicuro di te…
tu mi sfuggi – come mi fugge la vita – tu che sei la mia vita, ora…
‘E il silenzio calerà sulle imprese che ho compiuto
come la notte che addormenta le foreste’…
chi l’ha detta? io? l’ho letta? dove?
‘e il silenzio calerà sulle imprese…’
un male mi afferra – ora – ho freddo…
PORCELLIO: Sarà l’aria cattiva caduta dalla finestra.
MALATESTA: No – l’anima dice al corpo che muore – soffro, soffro
(Tenta di alzarsi e ricade sul seggiolone).
le gambe non reggono – aiutami – non riesco ad alzarmi.
Cosa aspetti? Vieni.
PORCELLIO Non riuscite più ad alzarvi?
MALATESTA: Gambe morte, Porcellio… Vieni? Forza! Cosa fai?
PORCELLIO Non riuscite più ad alzarvi?
MALATESTA No!, no! Non riesco più!
PORCELLIO va a prendere le armi di MALATESTA e le posa sul tavolo dalla propria parte, lontano da MALATESTA. Poi va a prendere la Vita e, con gli occhi su SIGISMONDO, ne straccia una pagina, l’accende al candeliere e ne getta le ceneri in un bacile di metallo. E così seguita a fare pagina per pagina.
MALATESTA: Porcellio! Che cosa fai, bastardo! Bastardo! Figlio di un cane! Maledetto bastardo! Ora ho capito: vino – veleno – infame bastardo
il pugnale, la spada, dove sono?
(Tenta di tirarsi su e ricade).
il dolore mi ruba la ragione
il sudore è ovunque
la bocca non esiste…
Si contorce. Urla. Si morde le dita. S’apre, stracciandolo, il giubbetto sul petto.
PORCELLIO: Signore, la prego, si calmi
la Storia la sta fissando…
MALATESTA: Isotta – Isotta – amore mio
muoio e non ero che al principio
muoio e non ho fatto che le fondamenta
muoio all’alba Isotta – Isotta amore mio
PORCELLIO: Magnificenza, un giorno ha scritto a Sforza che
‘una bella morte una vita intera onora’
così ho letto nella Vita…
MALATESTA: Tutto ciò che ho di mortale mi abbandona
Immortalità aiutami! Mani di uomini illustri – miei idoli
datemi un segno – fra poco sarò tra voi. Pompeo. Cesare!
(Apparizione del fantasma di Pompeo, in toga, a capo scoperto. PORCELLIO, atterrito, si rimpiatta in un angolo della scena).
Pompeo, amato dal suo nemico…
(Fantasma di Giulio Cesare, chiuso nell’armatura, il capo cinto d’alloro).
e tu Cesare, che a Rimini hai esaltato l’esercito…
(Fantasmi dei Gracchi, che in tunica, a capo scoperto, si tengono per mano).
e voi, Gracchi, traditi come me…
(Fantasma di Scipione l’Africano, chiuso in un’armatura abbagliante, con enorme casco sormontato da un’alto pennacchio).
e tu Scipione, da cui discendo, salvatore di Roma
gloria condannata ed esiliati dal niente
apritemi le braccia
ditemi che sarà con voi
che il mio nome rintocca nell’infinito
ditemi che continuerò a vivere
ma niente – non un segno – tutto scompare
così scompaio io.
Crolla.
PORCELLIO, dopo un po’, sbuca dall’ombra dove s’è appiattato e riprende ad ardere una ad una le pagine della Vita Magnifici et Clarissimi Sigismundi de Malatestis.