
“Quando avrete visto la luce della disperazione”. Sarah Kane, o dell’apocalisse
Letterature
Fabrizio Coscia
Forse una delle tendenze spontanee della mente umana è quella di ridurre i problemi complessi a spiegazioni semplici e definitive. Ci vuole un enorme lavoro su noi stessi e verso la realtà per studiare qualcosa senza cedere alla tentazione della risposta pronta, della soluzione che sacrifica le sfumature e le ambiguità insite in una cosa o in un fenomeno. Tra questi problemi che si tende a semplificare, potremmo far rientrare la violenza dell’uomo sulla donna e della donna sull’uomo. Essa è infatti normalmente spiegata con il ricorso ad alcune facili spiegazioni razionali: fattori sociali ed economici, mancanza di educazione, scarsa empatia, attacchi di follia, l’egoismo, o le passioni come l’ira e l’invidia. Nella rielaborazione di Elena Serra di Scene di violenza coniugale di Gérard Watkins, prodotto con i comuni sforzi del Teatro Stabile di Torino, del Teatro di Dioniso e di PAV-Fabulamundi, il tema della violenza maschile e femminile è invece affrontato in modo da metterne in risalto il mistero del suo accadere.
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La vicenda ha per protagonisti due coppie di diversa estrazione sociale, etnica, biografica e culturale. Abbiamo da un lato la puericultrice Annie Bardel e il fotografo Pascal Frontin, dall’altro la studentessa Rachida Hammad e il meccanico/spacciatore Liam Merinol. Dopo aver mostrato il loro casuale incontro e il successivo corteggiamento, Watkins immagina che le due coppie decidano di andare a convivere in due appartamenti diversi, ma siti nello stesso palazzo, anzi addirittura che si incrocino senza volerlo, il giorno in cui vanno a visitare lo spazio insieme alla loro futura affittuaria. Poco alla volta, però, i nidi d’amore di Annie/Pascal e Rachida/Liam si trasformano in luoghi di incubo. Gli uomini arrivano a picchiare le loro donne, che alla fine fuggiranno esasperate dai loro familiari e tenteranno, con l’aiuto di psicologi e altri operatori sociali, di superare il trauma della violenza subìta, per cominciare a costruirsi una nuova vita.
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Si potrebbe apparentemente pensare che questa vicenda di Watkins si situi su un piano realistico, così come che la violenza nasca e si esaurisca a causa della stretta convivenza. In realtà, il drammaturgo ambienta Scene di violenza coniugale in uno spazio astratto. La sua principale indicazione registica consiste, infatti, nel collocare tutti i personaggi nello medesimo spazio scenico, dunque nel mostrarli sempre insieme anche prima che arrivino a incontrarsi fisicamente per visitare i loro futuri appartamenti. Lo spettatore assiste così alla messa in atto di un “principio di irrealtà”. Lo spazio e il tempo mostrano in simultanea i dialoghi tra le due coppie che, secondo le regole del realismo, dovrebbero invece accadere in due luoghi e momenti distinti. Il principio è fondamentale per allontanare soprattutto lo spettatore dal caso di cronaca, che pure è sullo sfondo di Scene di violenza coniugale – sia Watkins che Serra hanno del resto attinto a casi giudiziari e altre fonti analoghe per costruire la loro performance. Le situazioni create dal drammaturgo e dalla regista sono piuttosto artifici teatrali, che intendono riflettere su casi singoli per studiare la violenza in universale.
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Watkins suggerisce, inoltre, che la violenza che pure raggiunge il suo apice nello spazio domestico covava già prima in forme più subdole e discrete. I dialoghi tra le due coppie nelle fasi di incontro e corteggiamento mostrano spesso, infatti, che esse si trovano immerse in un contesto violento, o che si comportano violentemente a parole e nei fatti. Valgano due esempi. Pascal e Annie si conoscono in una stazione dei treni in cui si vede un bagaglio abbandonato, che genera nei due il timore di un attacco terroristico e che la coppia prova a scongiurare prima chiamando la polizia, che riattaccherà con violenta indifferenza il telefono, poi tentando di bloccare i passeggeri in uscita da un treno che, increduli, li spingono via con forza. Liam invece confessa a Rachita, mentre immagina la sua felicità futura nella loro vita in comune, di essere disposto a «spaccare i denti» di chiunque dovesse arrivare un giorno a minacciare il loro idillio.
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La scelta di collocare i personaggi nello stesso spazio-tempo e dentro uno sfondo di generalizzata violenza mostra pertanto che, per Watkins, le differenze che intercorrono tra le due coppie sono del tutto trascurabili. A prescindere che siano ricchi o poveri, umili o borghesi, in formazione o in carriera, intelligenti o ingenui, sostenuti dalla famiglia o reietti della società, i quattro personaggi sono accomunati dall’abitare uno spazio metafisico dove la violenza pervade ogni gesto e ogni rapporto umano.
La regia di Serra non fa che estendere questo sfondo violento oltre il piano della rappresentazione. Essa lo porta, infatti, fino allo spazio normalmente neutro del pubblico. Serra ambienta lo spettacolo non in un teatro, bensì nel perimetro della sala di un vero palazzo, che si immagina sia il piano in cui si trovano gli appartamenti di Pascal/Annie e di Liam/Rachita, separati in modo del tutto simbolico da pochi oggetti di scena. La scelta registica indica così che dalla violenza non è nemmeno esente il pubblico che assiste allo spettacolo e, obbedendo alla convenzione teatrale, non interviene per fermare gli uomini che picchiano le donne che dicono di amare.
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Alla luce di questo fosco e complesso scenario, ci si potrebbe chiedere che cosa anima i comportamenti violenti di Pascal e Liam, se si è constatato che la ragione non è l’estrazione socio-economica, né l’istruzione, né il carattere e simili fattori. Tenterò un’analisi a partire dalla fine di Scene di violenza coniugale, notando anche un’originale modifica registica di Serra sul testo originale di Watkins. Si diceva che l’opera si conclude con la fuga delle donne dai loro uomini e il loro rifugio nel supporto di familiari, psicologi e altri operatori. Va adesso aggiunto che, dal punto di vista scenico, questo cambio comporta anche una modifica sul piano della rappresentazione. Se prima gli spettatori vedevano le due coppie interagire tra loro, ora essi osservano un abbandono a un loro flusso di coscienza, durante il quale raccontano che cosa hanno provato e pensato sia del loro partner, sia delle ragioni della loro aggressività o della loro acquiescenza alla violenza coniugale. L’originale di Watkins chiude il testo con il monologo “fluttuante” di Annie, che narra di aver simulato la propria morte e un’insperata resurrezione. Ella racconta di aver scavato una fossa, di essersi sdraiata sulla terra, per infine alzarsi e fare ritorno alla casa di famiglia. La versione di Serra cambia invece l’ordine dei flussi di coscienza dei personaggi, mettendo in un’ultima posizione il monologo di Pascal che, nell’originale di Watkins, figurava per primo. Il personaggio si mette qui a nudo e, nel giudicare il suo operato, ammette «freddamente – clinicamente – e sinceramente» che non c’era alcuna ragione del suo operato. Pascal suggerisce al pubblico che occorre «forse anche di sondare il piacere», ossia pensare che egli picchiava Annie per qualcosa di prossimo al nulla, per il puro godimento di farlo: «qui ci sono persone – e ne sono certo – che non hanno alcuna ragione – di fare – quello che fanno – e lo fanno solo per il piacere».
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Ci troviamo così di fronte alla messa in scena dello stesso spettacolo, con un cambiamento considerevole di significato e di accento. Watkins vira la vicenda verso un esito positivo. Nonostante le terribili violenze ricevute dal suo compagno, Annie trova il modo creativo per scongiurare la tragedia passata e per guardare a se stessa con rinnovato amore («mi sono soltanto detta – grazie perché ci sei»). Serra sposta, di contro, Scene di violenza coniugale verso l’enigma vivente, più che sulla dimensione della cura. Se infatti viene messo in rilievo nel finale che tutto quello che si è assistito era per Pascal un puro gioco, o un modo di trovare benessere nel mondo con la sopraffazione e la negazione dell’altro, allora non c’è salvezza e riscatto. La rivelazione finale è che, nella natura umana, esiste l’ineliminabile tendenza a usare violenza per ricavare piacere. E questo tradisce, a conti fatti, un autentico mistero sul comportamento di Pascal, o per estensione su tutta l’umanità. Spiegare la violenza invocando come causa il piacere significa, infatti, che la violenza ha luogo senza causa (sine causa), o meglio per motivazioni futili e illogiche, di per sé del tutto insondabili.
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Questa atroce conclusione getta un’ombra sinistra sul resto della vicenda, persino in personaggi che sembrerebbero essere animati da intenti diversi, o slegati dal godimento della pratica violenta. Stando al suo monologo finale, ad esempio, Liam pare trovare la motivazione della violenza ai danni di Rachita in una carenza d’amore. L’uomo picchia la sua compagna, infatti, perché ha paura di perdere l’affetto che riceve da lei e non aveva mai avuto dai suoi familiari. E quando Rachita rimane incinta, Liam riversa la sua frustrazione e invidia contro il bambino in grembo, considerandolo come una minaccia per la sua solidità psichica. Le sue motivazioni – benché non meno aberranti – parrebbero allora almeno più comprensibili del piacere che è invocato da Pascal a “spiegazione” delle sue azioni. In realtà, si potrebbe sempre ricondurre a questa perversa dimensione edonistica del personaggio anche il comportamento di Liam. La violenza su Rachita quale paradossale rimedio alla carenza d’amore implica, del resto, una fuga dal dolore della solitudine e dell’angoscia, dunque (per converso) una ricerca del piacere. L’Epicureismo pervertito di Pascal vale insomma come regola generale, che non possiamo escludere si applichi potenzialmente anche alle due donne. Annie e Rachita sono state vittime più che carnefici solo per caso. Qualora avessero avuto compagni di vita e di letto diversi da Pascal/Liam, forse sarebbero state loro a esercitare la violenza per il perverso piacere di vedere un uomo soffrire e patire.
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Vorrei evitare con questo ultimo commento un possibile fraintendimento. Si potrebbe obiettare, dopo tutto, che la donna sia per natura un essere angelico e incapace di fare del male, giovandosi magari delle statistiche che mostrano che sono soprattutto gli uomini a usare violenza sul partner. La malvagità risulta allora essere uno specifico maschile e mai femminile. Ora, non voglio affatto negare che i dati statistici ci mostrino uno scenario concreto e indiscutibile: quello in cui sono i maschi a esercitare comportamenti violenti ai danni di mogli o compagne. Ciò che invece metto in discussione, a partire dalla riflessione di Watkins/Serra, è il presupposto ideologico che la tendenza al male sia un portato di genere. Se così fosse, tutti gli uomini sarebbero violenti o malvagi e tutte le donne sarebbero buone/amorevoli, il che è contraddetto dalla semplice esperienza. Bastano pochi casi di non-violenza maschile (si pensi banalmente a Ghandi) e di violenza femminile (che si possono ricostruire a partire da cronache o giornali) per trasformare in un dato storico-culturale quello che di norma si ritiene essere un portato biologico. Gli uomini sono più violenti delle donne in virtù di processi storici e sociali che hanno dato ai primi più potere rispetto alle seconde, quindi più possibilità di praticare il piacere della violenza. Considerato il torbido piacere della violenza che Pascal attribuisce alla natura umana nel suo complesso, bisogna insomma concludere con la ragione che gli atti violenti sono possibili per chiunque, o siano l’espressione di un abisso nero che, purtroppo, si annida in ciascuno di noi.
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Ammesso che l’interpretazione di Scene di violenza coniugale di Watkins e Serra sia plausibile, è forse lecito ricavare due conclusioni su questo mistero della violenza. Da un lato, la vicenda consente di ricavare una conseguenza generale di carattere antropologico. Se prendessimo in blocco tutte le azioni e le asciugassimo per individuare i loro moventi fondamentali, fin quasi a grattare le pareti molli del cervello, non troveremmo alla loro base che due affezioni primitive: o il piacere, o il dolore. La ricerca del godimento e la fuga dalla sofferenza si rivelano essere così, per così dire, due “puri neutri”. I piaceri e i dolori possono animare sia i grandi propositi umanitari, sociali e intellettuali, sia le violenze che nemmeno un dio che per assurdo si interessasse alle vicende umane potrebbe guardare senza orrore.
La seconda conseguenza riguarda l’uso responsabile e morale di queste due affezioni primarie. Se la violenza deriva dalla ricerca del piacere, allora sarà lavorando su quest’ultima, ossia cercando di individuare fini e modalità migliori della sopraffazione per massimizzare il godimento, che forse donne e uomini potranno un giorno arrivare a smettere di prevaricarsi l’un l’altro. Sul piano operativo, questo significa imparare a godere della giustizia, della bellezza, della cura amorevole per l’altro, invece che a praticare queste virtù controvoglia e per dovere. La rivoluzione morale e sociale deve partire da una trasformazione di se stessi, altrimenti si continuerà a confondere il piacere della violenza con il troppo amore, la reazione aggressiva contro chi minaccia la nostra felicità con la fuga dalla carenza affettiva.
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La speranza ricade, forse, su quel manipolo di spettatori che, posto rasente alle mura del palazzo in cui sono ambientate le Scene di violenza coniugale, partecipa sì della pratica violenta, ma non è ancora completamente corrotto – come Pascal e Liam – in ogni sua fibra. Ma per fare ciò, occorrerà per un po’ uscire dal teatro che rappresenta la violenza e trovare nella vita forme di ricerca di godimento nella non-violenza.
Enrico Piergiacomi
[Ringrazio Elena Serra per aver letto il testo in anteprima e averne discusso a lungo, con profitto per entrambi]
*In copertina: una fotografia da “Scene di violenza coniugale”, photo Luigi De Palma (l’immagine è tratta da qui)