22 Giugno 2019

Sulla pratica del “poetry slam”: ecco perché il confronto con la poesia “tradizionale” è spietato

Non c’è affatto bisogno di andarsi a cercare col lanternino una personale soteriologia: essa viene da sé, nella poesia quanto nella critica. Ognuno per vivere deve scavarsi via via una dialettica del bene e del male, per non soccombere nel nichilismo. Ognuno traccia le proprie Colonne d’Ercole perché lo stile è definizione e repulsa: e quando si abbia un modello positivo da seguire e quando si abbia un modello negativo da scansare e quando – ed è il migliore dei casi – si getti tutto il resto alle ortiche.

Oggi la sacrosanta critica infastidisce, e così la si critica. Segno che la suddetta soteriologia funziona bene. Allora per vedere chi la spunta bisogna ricorrere alle dosi, alla farmacopola milligrammica della discussione perché ogni scienza implica che vi sia una verità. Anche la critica alla critica è una scienza, a suo modo.

Ora se lo scopo di una critica sensata è quello di aggiustare la traiettoria storica con un gesto ben distante da ciò che è “reazionario”, essa fa comunque bene a difendere la cosiddetta “tradizione” laddove veda nel presunto “nuovo” il detrimento.

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Per tagliar netto si parlava di poetry slam. Qui ciascuno, spero, abbia accarezzato col pensiero il rischio di una riduzione del poeta a performer, a una sorta di animale da palcoscenico, quando non è detto che espressione e atteggiamento siano di utilità al testo aldilà dell’impatto emozionale (ho il difetto e il pregio di parlare esclusivamente dalla poesia stampata e più tardi spiegherò il perché). Bisognerebbe interrogarsi sul senso della didascalia facciale dell’autore che ci mette la faccia, su come influisca sull’economia in genere. Ogni testo ha una faccia ideale cui nulla può essere aggiunto o levato. Ricordo la mia delusione nel vedere quella bonaria e pacioccona di Milo De Angelis, che non c’entrava assolutamente nulla con i suoi testi. Poco male, perché Milo De Angelis non è l’uomo De Angelis che declama i suoi versi, ma l’imparziale pagina davanti a me.

Nel caso del poetry slam la pretesa della novità è viziata sul principio dall’idea che la poesia non inficiata da tale atteggiamento costituisca agli effetti poesia tradizionale. (Chi lo dice? È il “si dice” heideggeriano, che vale più delle singole opinioni). Personalmente non credo possa considerarsi tradizionale ciò che fino a prova contraria non ha ancora compiuto il proprio ciclo. Né si può brandire la sua impopolarità o la sua presunta rigidità per votarlo alla prescrizione o peggio ad una ruminatio da bottega d’arte. Il fenomeno assume più che altro i caratteri di uno scisma destinato a divenire status quo senza i dovuti ragguagli. Laddove non sia invece una generazione da costola con tutte le incompletezze che comporta.

Primo fra tutti la visività del testo: alcune poesie hanno forma di clessidra, altre di pettine. C’è tutto un feticismo paraeidolico che deve friggere sul foglio. Amo pensare che ogni poesia rappresenti un calligramma. La mera sonorità la impoverirebbe perché tra gli altri i rosselliani spazi metrici devono essere scrutati assolutamente. Il senso di tanto fior di poesia non è districabile dalle proiezioni e dagli scavalcamenti.

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Emilio Cecchi lamentava ad esempio per la poesia pascoliana “l’incorporeità complessiva […] l’impossibilità […] di leggerla a voce alta come si può leggere e declamare un sonetto di Foscolo o una strofa dannunziana; e il bisogno, a non voler violentarla, di lasciarla quasi inconfessata nell’anima, sospesa e tutta vibrante come quelle alghe che tremolano volubili nell’acqua iridata dei fiumi. Voler pronunziarla, voler darle quella sorta di vita esteriore che è concessa ai canti di poeti anche assai minori, ma d’altra tempera, è ucciderla, e lo dimostrano i recitatori i quali sogliono inevitabilmente cadere sui canti più dozzinali del Pascoli, su quelli ai quali si può meglio simulare uno scheletro verbale, come La cavallina storna, certi componimenti in terzine, ed altri. Quando essa sale sulle labbra, si raffredda, si intorpidisce, sembra rattrappirsi e svanire, appunto come l’alga che, verde e palpitante nella umida profondità, diventa non più che un piccolo grumo di sostanza viscida e lugubre se la succidi e la vuoi recare all’aria e al sole”.

Tralasciando la geniale immagine dell’alga, bisogna ammettere che non c’è autore che si presti male al recitativo come il Pascoli. Eppure chiunque abbia compiuto una lettura micropulsionale di quest’ultimo, sa bene che ad onta delle innumerabili stecche e degli sgradevoli barbagli-balbettii, stiamo parlando di un poeta di statura europea, di uno i cui Poemi conviviali vanno a braccetto con Kavafis.

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Il vero reazionario, se si deve parlare di critica, è chi piazza dicotomie arbitrarie (arroccandosi su una collaudata e deteriore metodologia). La postulazione della novità non è in tal caso che una riproposizione dell’assunto poetico con mezzi certo emotivamente più potenti, ma incompleti e devianti. La poesia può e deve godersi anche senza l’ausilio di cantaridi e postille sonore. Deve essere ben chiaro. Tra i pochi privilegi di cui il poeta gode non gli si tolga almeno quello di poter fare a meno di comprare una chitarra acustica. Certo in principio era il verbo, ma il verbo deve incidersi nel quadrilatero uditivo-visivo-frontale-palatale. Privarlo di una sola delle sue gambe è depauperarlo. Il rimando dello slam, in ultima istanza, all’incisione potrebbe essere destinato a venir meno così com’è venuto meno il rimando della cartamoneta all’oro. La parola corrente è consumo e il consumo non può che essere intercettato dal commercio. Tocca ai fautori del poetry slam difendere lo stesso con buoni argomenti dialettici: spiegare in che consista questa “novità”, in che cosa sia superiore alla poesia “tradizionale”, se si tratti di un semplice fenomeno di amplificazione o un risvolto sociale di quest’ultima, o se presupponga addirittura di subentrare ad essa dimostrando in tal caso, a maggior ragione, in che cosa sia superiore per superarla. Perché ciò che non è superiore, almeno nell’economia dell’etica, non ha il diritto di superare nulla.

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Che poi sia un buon mezzo di divulgazione ho le mie debite riserve. Lo slam contro la degenerazione mediatica, è un ottimo argomento, ma troppi presunti “mezzi”, dai testi dei cantautori a quelli dei trapper rischiano di acquisire dignità di “fine”. Così ho visto fior di menti critiche notomizzare Salmo o Vinicio Capossela e tralasciare poeti veri, e veri a ragion veduta perché di gran lunga più urgenti. L’arte è sempre aristocratica e ciò non certo per predestinazione ma perché frutto di fatica e dedizione millimetrica: nessun bercio con la scusa dei decibel avrà mai il diritto di seppellirla. Vi sono e vi saranno fra gli slam poeti veri, ma non si deve confondere il mezzo col risultato finale.

L’escatologia del poetry slam è biforcuta. Se esso finirà sulla carta sotto forma di brochure ricordo, allora il confronto con la poesia “tradizionale” sarà spietato, o meglio non ci sarà bisogno di confronto perchè sarà esso stesso “poesia tradizionale”; se al contrario si dissolverà nell’etere che gli ha dato luminosità non avrà né tradizione né avvenire; vi è infine una terza ipotesi derivante più o meno dalla prima: che cioè sopravviva non su supporto cartaceo ma su dvd… in tal caso potrà inaugurarsi un genere altro, ed è quello che auspico senza mezzi termini.

Antonello Cristiano

Gruppo MAGOG