26 Novembre 2019

Il nostro nome è un ricamo sul niente, noi siamo altrove. Non sono gli altri che ci rendono poeti, ma la poesia. Per una collana imperdonabile di poesie senza poeti

La cosa di cui siamo certi è che la poesia non può essere sperperata, non più. La poesia ha un rango linguistico, ha un lignaggio e non può essere ghettizzata nello scaffale più stretto e nascosto delle librerie. Deve esplodere. Come ciò di cui tutti sentono il bisogno, senz’altro. L’idea di una collana ‘Imperdonabile’ di poesie libere dal nome del poeta, a far librare l’opera per ciò che è, non ‘stile’ ma ‘statura’, non ‘modo’, moda, ma vita, scelta, nasce da una necessità di pulizia, di candore, se si vuole. In questo caso, nasce dal dialogo con diversi poeti, dalle intuizioni di Francesca Serragnoli – se il ‘mondo della poesia’ è bulimico, confuso, screziato con sprezzo, bruciamo la poesia, diamo arsura al logo ‘poeta’ – e di Francesca Ricchi, di cui pubblichiamo una sorta di regola, di codice. Ma questa non è una idea velleitaria, nata sull’onda di una provocazione. La grande Imperdonabile, Cristina Campo, ha vissuto celandosi: reclusa nello pseudonimo (si chiama Vittoria Guerrini), in un labirinto di eteronimi, scrivendo pochissimo, in poesia, desiderando una ancor più radicale povertà, facendo del proprio appartamento romano cella e navicella. Con giustizia, la raccolta dei suoi scritti dispersi e ritrovati è edita da Adelphi come “Sotto falso nome” – in forma recondita potremmo dire che il nome dice di noi sempre il ‘falso’. Clery Celeste, poetessa che sta coltivando la riscoperta di Pietro Cimatti, mi invia un testo di quel prodigioso poeta, tratto da “L’uomo zero” (Astrolabio, 1992), che fa da Nord. “Solo il poeta sa che l’opera non è sua… Farsi totalmente vuoto, disponibile, ‘morto a se stesso’… è l’ispirato che ignora la sua ispirazione. È il poeta, ma la poesia non gli appartiene”. Il nome, sia chiaro, è fondamentale. Il nome prelude alla chiamata: rispondere alla chiamata significa ammettere di decapitare il nome, tramutandolo in altro. (d.b.)

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Mai come oggi il discorso sulla Poesia si costituisce intorno al malumore, alla frustrazione: in un pettegolezzo spalmato senza più pace. Questo magari è logico, perché la Poesia appartiene alla condizione umana, e la condizione umana non è mai stata facile, se non altro in termini emotivi. La Poesia registra uno straordinario dolore, malessere, collettivo, che un poeta non può non sentire intollerabile, o forse ‘imperdonabile’. Cosa sta accadendo? Perché qualcosa accade sempre, proprio quando ci sentiamo nell’immobilità più assoluta.

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È forse necessario cambiare punto di vista, da esterno a interno, perché la distanza zero, nell’unica prospettiva che permette, uccide, illudendoci di non avere scampo.

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Ci deve essere sempre uno stato di partenza, o meglio un lampo di luce, uno squarcio sull’Altro, che è quasi sempre un tramite di liberazione.

È davvero necessaria la condizione di frustrazione aggiunta che un sistema anti-creativo impone al poeta (o allo scrittore)?

La più subdola forza dell’insinuare si fa voce, muro e infine potere: meno che le urla o le proclamazioni, è l’esasperante ed efficacissima manipolazione del nostro modo di sentire, per sentirci qualcuno, che ci incatena. Ci sembra normale (è stato normalizzato) avere trasformato la nostra lucentezza, il desiderio creativo di infrangere i vetri della monolitica visione del reale, la spinta al nord, al salto, alla liberazione dalla nebbia, in tenebra del sentire, in bava alla bocca di esaltazione del Nome: impotente come un Dio sconfitto, enorme pieno di nulla, fragilissimo e isterico.

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Il nostro nome è un ricamo sul niente: noi siamo altrove, è solo il più superficiale format di riconoscimento, come può essere diventato Tutto? Abbiamo imparato, fin dall’appello, a distinguerci dagli altri, non in intensità, in condivisione, ma in guerra e annientamento. Ogni riuscita di un nome altrui è la morte del mio, ogni morte del nome tuo è un successo del mio. Peccato che in tutto ciò, manchiamo proprio Noi, laddove crediamo di sublimarci all’ennesima potenza.

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Io credo che oggi vogliamo scrivere tutti, indipendentemente da qualità e opportunità, per una ragione drammatica: essendo morti (o moribondi) sia Dio che la spiritualità, con la profondità, e l’altro ‘noi’ che solitario e inespresso, quasi vergognoso, combatte il lato positivista, abbiamo sviluppato la necessità di sentirci noi stessi Dio, nell’identico momento in cui lo rinneghiamo. Abbiamo relegato la spiritualità a bizza di eccentrici o bigotti moralisti: parliamo dell’imaginalis arrossendo di nascosto, come stessimo rubando la marmellata, e sopportiamo sorrisini ebeti, poi non ne parliamo più. Paghiamo un prezzo altissimo, perché la parte fondante di noi, è lì, non fuori.

Essere Dio, o meglio, Apparire Dio, è l’imperativo per sopravvivere (morti) oggi.

Vogliamo essere gli Idoli che gli altri idolatrano per sentirci finalmente quello che abbiamo perso, e crediamo (ci disperiamo) di ritrovarlo, proprio nell’opposto abbandono. Chi viene idolatrato muore, perché scopre che il vuoto divampa invece che riempirsi, chi non ci riesce muore, perché il vuoto divora invece che ristorarsi.

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Il riconoscimento di chi o il successo davanti a cosa, è la domanda senza risposta, che ci siamo educati ad eludere. Ci siamo svenduti per un calcio in culo e un buffetto sulla guancia da parte di chi non è meglio di noi, almeno in termini di consapevolezza.

È patetico autoincensarsi per il commento di un qualsiasi oscuro umano che parli bene del nostro prodotto, come lo è mettersi in vetrina con il nostro libro in mano, e un sorriso da dementi, nonché elencare librerie, evidenziare amici, strappare con i denti due righe, sottolineare che la mamma si è commossa, e quanto ci siamo esaltati nel toccarlo, odorarlo, e leggendo in copertina il nostro nome, mentre nessuno, spesso, capisce nemmeno di cosa tratti il libro. Un feticcio narcisista del Dio Nome, o deviato Io.

Arriviamo a pubblicare il commento privato del cugino del nonno del vicino di pianerottolo. Il tutto fingendo casualità e nascondendo ferocia.

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È abbruttimento, è indegno, è contemporaneo, è ridicolo e profondamente insulso. In poche parole è umano. Ma c’è anche un altro modo di essere Umani. Riscoprendo la dignità (e la forza della luce, energia) come mano tesa alla nostra depressione o ansia irricevibile di essere qualcuno nel mondo dei nessuno.

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Arrivati al successo (che non si sa nemmeno più cosa significhi, pur inseguendolo mentre il niente morde i polpacci) nella dimensione dell’immagine nominale, nessuno ha mai trovato la risposta. Perché ci ostiniamo ad accettare questa unica visione imposta? Le visioni sono infinite, ed esistono flussi e fiumi che questa diga violentissima devasta fino alla siccità dell’anima. C’è la possibilità di non essere sempre Uno contro gli Altri, per esistere. La Poesia ci riempie e ci rende riconoscibili a noi stessi, e agli altri, ma dopo e non come necessità per riempire un vuoto, un gap di popolarità, confusa con l’essere.

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Comunque sia, la scrittura è diventata un tramite bilioso, schizofrenico, e diabolicamente (non) efficace, per le persone (tutti noi) allo sbando in solitudine empirica, per tentare di farsi idolatrare dalla massa, senza distinzione. Da cui l’Ombelico come assoluto protagonista della letteratura e poesia contemporanea, e la sua furia. 

Per farci idolatrare ci tagliamo la nostra stessa testa e la infiliamo sul palo dell’apparenza, svendendo l’anima a un demonio, talmente ignobile e meschino, che perfino Satana se ne discosterebbe.

Per me è questa la differenza tra Poesia o Grande letteratura, e scherzo da circo: il protagonista.

Se è l’autore, è la morte, se è la scrittura, è Creazione.

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Da soli ci isoliamo e soffriamo perché gli altri poeti, l’altra Poesia, diventa il nemico. Il mercato ha reso il nome dell’autore un marchio, per cui si compra un prodotto griffato e non un contenuto. Noi tutti siamo avvelenati da questo sistema, e senza accorgercene subiamo più forte la spinta di appartenere a questa giostra mortale, per cui in tanti ci ritroviamo ad annaspare cercando di scrivere come, di parlare come, di Essere come, servirebbe per entrare in un Paradiso corrotto e ricattatorio, di cui ogni giorno intravediamo occultate macerie. Questo annichilisce la creatività e sgomenta l’Autore. I poeti non saranno nominati per ridare a loro, e alla Poesia, la dignità che meritano, proprio il contrario di come si ‘pensa’ oggi, che la dignità stia nel pubblicare con la ‘grande’ casa editrice o apparire in qualche luogo di visibilità pacchiana.

Rinunciando al Nome si toglie anche l’unico argomento ormai restato ai soliti, agonizzanti noti: ‘sei frustrato perché sei fuori dal giro’. Devono cambiare armi e terreno di battaglia se vengono privati dell’unica cosa che possiedono: il Nome.

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Nessuno vuole distruggere l’individualità, anzi, potrebbe così diventare molto più potente e forte, e Creativa. Con la razionalità si potrà controbattere mille volte questa idea, ma se la si sente, sarà impossibile.

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Non sono gli altri che ci rendono poeti, ma la Poesia, rivelandosi in questa densità tra spirito e reale, fatta di carne e potenza di sentire.

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Chi ama la Poesia, riscoprendosi, le può regalare la propria identità senza chiedere nulla in cambio. Nessuno chiederà mai a nessuno di scomparire o non pubblicare altrove ‘nominato’ o con compensi, è solo un’esperienza, una provocazione, una ricerca in direzione altra. Senza bussola.

Francesca Ricchi

Gruppo MAGOG