17 Aprile 2018

“Le persone troppo virtuose mi fanno paura. E Sylvia Plath è la mia sorella maggiore”: Matteo Fais dialoga con Maria Antonietta, la cantautrice ispirata dai poeti

Ci sono molti cantautori, probabilmente tanti quanti sono gli scrittori e i poeti. Selezionare diviene una questione di legittima difesa. Per fortuna, internet e Facebook – con buona pace dei detrattori dello strumento informatico – forniscono loro almeno la remota possibilità di farsi notare. Un buon numero di contatti, perlopiù fantasma, in tal senso, può tornare utile. Se non altro può accadere, tra le centinaia di post deficienti e petalosi, di trovare segnalato qualcosa di diverso. Da qualche tempo, per esempio, sta circolando il link Spotify del nuovo album di Maria Antonietta (al secolo Letizia Cesarini), Deluderti. Si tratta di un disco che potrebbe certamente interessare chiunque non condivida una visione della canzone come semplice strumento di intrattenimento e motivo per balli dalla discutibile gradevolezza estetica. La cantautrice che l’ha composto è, peraltro, una ragazza con una preparazione letteraria di tutto rispetto. Era quindi inevitabile, per noi di Pangea, andare a bussare alla sua porta con un’intervista atipica per una musicista, ma che potrebbe tranquillamente essere rivolta a un poeta o a uno scrittore.

Cominciamo dal primo verso con cui si apre l’album, “Io non ho intenzione di deluderti”. Ascoltandolo pensavo che, quasi tutte le volte in cui ho conosciuto i miei miti letterari, sono rimasto talmente deluso da sperare di poter tornare indietro nel tempo e rimuovere quell’incontro dalla storia della mia vita. Cerca di capirmi ma, quando penso a un grande scrittore, immagino sempre che sia prima di tutto un grande, invece… Ti andrebbe di dirmi qualcosa che possa veramente deludere i lettori e i tuoi fan?

(Ride) Ciò che dici rispetto ai miti e alle mitologie che ci creiamo nella vita, tra autori, poeti, scrittori e musicisti, è molto vero. Forse è per questo che, tendenzialmente, riesco a sviluppare questa forma di adorazione solo nei confronti degli artisti morti. Sarà per difendermi dal pericolo di una potenziale delusione. O, magari, è perché ho l’abitudine a vivere così, in differita. Questo è il mio grande limite. Per quanto riguarda, invece, il rapporto con le persone che ascoltano la mia musica, ho la presunzione di non riuscire a fare, o dire, nulla che possa deluderli. Qualsiasi tipo di relazione, se reale e vera (non importa che sia fisica, concreta, ma casomai che sia quotidiana, anche se a distanza), va avanti e fiorisce malgrado accadano fatti o si dicano parole che possono dispiacere. In un rapporto, quale quello di cui parlo, la delusione non è niente di distruttivo. Anzi, non è nemmeno una delusione, ma giusto un momento di frizione, di tensione, che però io percepisco come positivo. Forse mi illudo, ma sono convinta di aver costruito nel tempo un legame vero con le persone che mi seguono. E, quindi, sono anche persuasa di non riuscire davvero a deluderli.

Eppure, in una tua intervista, parlando della canzone Quanto eri bello, dici che nessuno sembrava aver compreso a suo tempo la portata drammatica del testo. Ti viene mai il sospetto che il pubblico, tutto sommato, non capisca un cazzo?

(Ride) Non nego che la domanda sia pertinente. Quando fai qualcosa di creativo, il rischio del fraintendimento, come della mistificazione, è da mettere in conto, per quanta sofferenza possa causare. Il meccanismo che si mette in moto è quello per cui, non riuscendo a gestire la complessità, la si semplifica travisando. E ciò avviene non solo con le opere, ma anche con i nostri simili. Io, poi, sono una persona molto ironica e autoironica, ma probabilmente, talvolta, questa ironia non passa o viene mal compresa. Purtroppo, questa è la sfida della scrittura. In generale però, sono molto fiduciosa e nutro un’estrema speranza nel pubblico. Anzi, penso che spesso venga sottovalutato e, con questa scusa, gli si dia in pasto il peggio, nella convinzione che non sia pronto a recepire e comprendere qualcosa di più. La colpa di tutto ciò però non è sua, ma bensì dall’industria culturale.

Come componi una canzone? Vorrei conoscere il processo di gestazione.

Il punto di partenza sicuramente è il testo, in particolare per quel che riguarda l’ultimo disco. Spesso in principio c’è un verso, una parola, un’immagine trovata in una poesia che leggo. Naturalmente, il discorso è molto personale e mi riguarda profondamente, diciamo che ingloba un’esperienza della mia vita, che è ciò da cui tendenzialmente muovo. Le parole altrui mi danno la scintilla. Solo successivamente si presenta la necessità della costruzione musicale, dell’arrangiamento e della produzione. L’inizio, però, come dicevo, è letterario. La dimensione testuale è sempre stata prioritaria, dato che, fin da piccola, ho scritto poesie, affascinata dalla parola e dal ritmo della lingua.

Maria AntoniettaNelle tue interviste citi spesso delle poetesse. Quanto è importante avere una preparazione letteraria per poter comporre i testi di una canzone?

Credo che, in generale, una cultura letteraria non possa che dare profondità a quello che si fa, a qualsiasi ricerca, sia essa musicale, pittorica, scultorea, o teatrale. E la profondità che se ne ricava sta nel fatto che leggere libri, in fondo, non significa altro che potersi permettere il lusso di vivere molte vite alternative alla propria, consentendo così di ampliare la prospettiva – aspetto fondamentale per svolgere un’attività creativa, senza divenire troppo autoreferenziali.

A proposito, mi piacerebbe sapere quali sono i tuoi poeti preferiti e, nello specifico, cosa ami di ognuno di loro.

Certamente Sylvia Plath mi ha conquistata. Trovo che in tutto quello che scrive ci sia una spigolosità, un’onestà veramente spietata. Lei è una di quelle che non fa sconti a nessuno e prima di tutto a sé stessa. Questo tipo di approccio è sempre stato particolarmente ispirante per me. Ho amato molto anche i diari e tutta quella parte della sua produzione non strettamente poetica, come La campana di vetro. Mi sono sempre sentita molto vicina a lei, anche umanamente, fino a percepirla in qualche modo come una sorella maggiore. Poi, apprezzo tantissimo Emily Dickinson. Trovo che il suo discorso su Dio e la Natura sia molto radicale, come la sua solitudine assunta come scelta e non come ripiego. È interessante, inoltre, il modo in cui ha portato avanti la propria personale ricerca, al di là di qualsiasi riscontro che potesse venire dal mondo esterno. Pensa come potrebbe essere percepito di questi tempi un simile atteggiamento, oggi che quello che pensiamo e costruiamo sembra avere un valore solo se viene conosciuto. Adoro queste figure così estreme. Poi, per carità, non è che legga solo poesia al femminile. Non credo neppure in una differenza sostanziale tra scrittura maschile e femminile. Semplicemente, mi piace costruirmi una specie di genealogia di antenate con le quali poter dialogare a distanza.

Qual è la differenza tra un poeta e un cantautore? E, soprattutto, se è certo che un poeta difficilmente è un cantautore, un cantautore è anche un poeta? Perdona la formulazione marzulliana della domanda.

(Ride) Onestamente, se si tratta di un buon cantautore, per me costui è anche un poeta. Non ho mai percepito un’eccessiva distanza tra i due mondi. Il punto di partenza è il medesimo: la ricerca all’interno della lingua di un ritmo, di una musicalità. Quindi, in realtà, è la musica il filo conduttore di tutto. Se sei un bravo cantautore sei anche un bravo poeta e, se un poeta sapesse suonare un qualche strumento, sarebbe anche un bravo cantautore.

Nel pezzo intitolato Con gli occhiali da sole, tu dici “io sono quella che scrive canzoni, perché credevo rendesse in qualche modo migliori”. Tu ci credi davvero che fare letteratura, scrivere canzoni, diciamo fare arte in generale, richieda una superiorità morale, etica? In due parole, un artista deve essere un esempio?

Non necessariamente. Quella frase simboleggia una tensione, quella per cui probabilmente ho iniziato a scrivere, ovvero il fatto che mi sentissi molto timida, inadatta, come spesso mi sento ancora. Cimentarsi in una simile attività riesce non di rado ad avere un valore terapeutico e a renderti in qualche modo migliore. Poi, questo “essere migliore”, non saprei bene come definirlo. Non credo concerna la dimensione morale. Ritengo, piuttosto, che sia da intendersi come un sinonimo di “vasto”. Ecco, lo scrivere accresce la tua vastità, che può essere di molti tipi, e che certamente io concepisco come un valore.

Devo dire la verità, forse ho volutamente frainteso il tuo testo per proporti la domanda e tu hai risposto molto bene riportandomi al punto. Però, mi interesserebbe realmente comprendere se per te un artista debba essere anche un esempio. Sai, molte volte, leggendo raccolte poetiche, mi rendo conto che c’è gente che confonde l’essere poeti con l’esprimere semplicemente dei buoni sentimenti. Vorrei sapere se, a tuo avviso, vi sia poi la necessità di costituire un esempio morale, per essere degli artisti?

Prima di tutto, direi che la coincidenza fra bontà e moralità non è così scontata. Il nesso è discutibile. Ci sono persone che non sono simpatiche, gentili, concilianti, o dotate di grandi sentimenti, ma hanno una dimensione morale molto salda. Perciò ti dico, non credo che per essere grandi artisti si debba necessariamente essere anche buoni, affatto. Anzi, ritengo ci si debba sporcare il più possibile con tutta una serie di cose e situazioni per niente piacevoli, né sentimentalmente alte. Nutro una certa diffidenza verso le persone troppo virtuose, penso sempre che nascondano qualcosa di pericoloso. Più che altro, credo che un artista dovrebbe condurre la sua ricerca con onestà intellettuale e che ciò non debba riguardare necessariamente quello che accade nella sua vita. Spesso, i grandi autori sono delle persone più che discutibili, e per fortuna! Siccome, poi, conoscendoli si rischierebbe di non trovarli simpatici, finendo così per non riuscire a empatizzare con la loro opera, il mio consiglio è di non incontrarli mai di persona.

Letizia, tu faresti quello che fai per il resto della tua vita, anche se non ti dovesse fruttare un euro che uno? Immagina di dover andare in giro per locali sfigati, senza ricevere alcuna retribuzione, anzi dovendo pregare per suonare in pubblico. Molti scrittori hanno fatto qualcosa di simile e anche di peggio, seppur in un contesto differente. Sono andati avanti malgrado tutto e tutti. Tu lo faresti? Io credo che in questa risposta stia il senso della differenza tra un artista dotato della vocazione e uno da classifica. Come la vedi?

Credimi, ho sempre condotto, negli anni passati e tuttora, una vita molto sobria. Non ti nasconderò che quello che faccio ha alla sua base anche un sostrato di egoismo, dato dall’emozione che genera scrivere un qualcosa di significativo. È una sensazione impagabile, che non ha nulla a che fare con i soldi, con la gente che viene a vederti e con le possibilità che ovviamente nessuno disdegna, perché poter fare ciò che fai avendo delle risorse ti permette di farlo al massimo. Però, il motore primo è quella sensazione, quando scrivi, poi cancelli e riprovi, e alla fine riesci. È stupendo e non ha prezzo. Non può essere quantificato in nulla di materiale.

Di recente, Philippe Vilain, un noto autore francese, mi ha detto questo durante un’intervista: “Quasi tutti vogliono scrivere o hanno bisogno di esprimersi, attraverso la scrittura, in un determinato momento della propria esistenza, ma la differenza tra uno scrittore comune e uno autentico, che dedica la maggior parte del suo tempo alla scrittura e allo studio della letteratura, è che il primo ha semplicemente bisogno di scrivere, mentre il secondo, l’autentico, ne ha la necessità”. Condividi questa affermazione? Tu la senti questa necessità per la musica?

Sì, assolutamente. Certo, anche io penso che vi sia un bisogno umano di esprimere sé stessi e che più o meno tutti possono averlo. Anzi, direi che si tratta di un indice di buona salute e umanità. La necessità, però, è quella cosa per la quale, molto spesso, anche a me è capitato di pormi delle domande e di dirmi che avrei potuto prendere un’altra strada, però poi tutte le volte mi sono dovuta scontrare con essa. Mi ritrovavo lì e mi dicevo che non sarei riuscita a fare a meno di scrivere e, se non potevo fare altrimenti, dovevo insistere, senza pormi troppe domande. Alla fine, diventa un modus vivendi, una forza di fronte a cui capitolare, se non esiste un’altra possibilità. Mi rendo conto che sarebbe più razionale fare qualcos’altro, anche più opportuno e sensato. Ma è un qualcosa che si sente nel profondo del corpo, qualcosa di fisico che, prima si accetta, prima si comincia ad apprezzarne la necessità.

Credi di aver dato un contributo fondamentale alla musica italiana con le tue canzoni? Vorrei una risposta onesta, che se ne fotta di questa disgustosa mania della modestia. E, se non sei convinta di aver apportato alcun contributo significativo, vorrei capire perché, allora, ti sei gettata nell’arena.

Onestamente credo di aver dato un contributo. Se non lo pensassi, non farei quello che faccio, perché sarebbe totalmente inutile e autoreferenziale. Non so però se userei l’aggettivo “fondamentale”. Già il semplice riconoscere di dare un contributo mi sembra abbastanza presuntuoso. In ultimo, attribuire un valore al proprio operato spetta agli altri, a chi eventualmente ne beneficia. Resta, però, da parte mia, la convinzione di quello che sto portando avanti, per quanto la fiducia in me stessa non sia sempre strabordante.

In cosa credi risieda la cifra fondamentale della tua scrittura come cantautrice? Nel senso, un determinato scrittore potrebbe pensare di aver innovato sul piano formale, quell’altro di aver portato all’attenzione del pubblico un certo tipo di contenuti di cui non si era mai discusso prima. Ecco, io vorrei chiederti quale pensi sia la tua peculiarità.

Credo che, in un panorama quale quello del cantautorato femminile italiano, nel momento in cui io ho realizzato il primo disco, nel 2012, in cui c’erano tante altre donne, il linguaggio che ho scelto e che continuo a cercare di sviluppare fosse – e seguiti a essere – caratterizzato da una peculiare onestà. Illustra, da quella particolare prospettiva spazio-temporale, il punto di vista di una femmina giovane che ha dei desideri, dei pensieri, un certo modo di relazionarsi con il reale. Trovo che spesso, purtroppo, le donne che scrivono lo facciano autocensurandosi ed edulcorando quelli che sono i propri contenuti, assecondando più o meno coscientemente un cliché, uno stereotipo. Invece, io ho cercato di essere molto diretta, per certi versi spigolosa, e credo che il mio disco sia arrivato in un momento in cui si sentiva la necessità, da parte di una femmina, di questa crudezza.

Tu, giustamente, parli di un punto di vista femminile. Vorrei capire se, secondo te, nella prospettiva e nella fattispecie della scrittura della donna, esista un qualcosa di irriducibile, che l’uomo non riuscirà mai a dire con una chitarra in mano. Per quel che mi riguarda, sono convinto che la scrittura femminile sia altra da quella maschile e i due piani risultino inconciliabili. Quando qualcuno mi dice che uno scrittore può tranquillamente parlare per la donna, io rispondo sempre che, nei libri che ho letto, lì dove una scrittrice cercava di raccontare il punto di vista maschile, falliva miseramente, attribuendo all’uomo pensieri che non gli appartengono.

Come ti dicevo, non credo in una differenza ontologica tra la scrittura di un’autrice e un autore. È innegabile, però, che entrambi parlano e partono da una prospettiva molto specifica. Come diceva qualcuno, “il pensiero è un frutto del corpo”. Noi continuiamo a ritenere che sia qualcosa di astratto rispetto alla materia, che possa procedere autonomamente. Invece, si parte sempre da uno sguardo particolare. Inoltre, questa prospettiva e questo sguardo si orientano anche in virtù di una tradizione, nella quale siamo per forza di cose inseriti e da cui sarebbe una follia cercare di svincolarsi. Quindi, per questo aspetto, ti do ragione. Però non arriverei a postulare l’esistenza di una scrittura diversa. Mi sembra un po’ svilente nei confronti delle donne, come degli uomini. In realtà, penso che gli esseri umani siano incredibilmente complessi e possano arrivare a esplorare tutto con la stessa profondità, ma in una forma diversa.

Per spiegarmi meglio: io non riuscirei mai a descrivere, che ti posso dire, la gravidanza, non foss’altro perché è un qualcosa di talmente estraneo a me, al mio corpo, per tornare a quanto affermavi un secondo fa. Non la so pensare, concepire. Se dovessi provarci, sono certo che inventerei un personaggio femminile filtrandolo attraverso il testosterone e il modo in cui questo lo concepisce. Ma venendo a questioni più leggere: ho letto delle tue influenze musicali e vedo che citi le Babies in Toyland, le Hole, le Bikini Kill. Però, devo ammettere che non sono proprio quelle che io avrei menzionato, dopo aver ascoltato il tuo disco.

Questi gruppi femminili sono stati il punto di partenza, quando ho scoperto la musica, perché si esprimono senza censure. Successivamente, i miei ascolti sono molto cambiati, con autori estremamente diversi tra loro e ciò è confluito in quello che ho scritto, seppur in forma sotterranea. Sono passata attraverso i migliori gruppi degli anni ’50 e ’60: The Shirelles, The Shangri-Las, The Ronettes, The Gladiators, The Abyssinians, e il genere del Reggae Roots. Nel corso degli anni, alcune band, che in principio erano i miei ascolti fondamentali, sono diventate più che altro un punto di riferimento affettivo, un ricordo e niente di più.
E tra gli italiani?

Stimo molto i Bluvertigo e Morgan. Ma non ho mai avuto troppa empatia con gli autori italiani. Tra di loro, non ho alcun grande eroe o eroina.

Matteo Fais

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