22 Marzo 2022

“Amo stare da solo. Nel cesso di una stazione ho capito Thomas Mann”. Un saggio di Peter Handke

Che strano mondo quello delle enciclopedie digitali. La voce Wikipedia in lingua inglese relativa a Peter Handke dedica paragrafi a registrare le Reactions to the Nobel Prize, per un numero di righe superiore di quasi il doppio a quello dedicato alla Career dell’autore, invero assai gloriosa. Già: amiamo, con istantaneo livore, la polemica, desideriamo che qualcuno si esponga per dire che noi, come sempre, salvi, siamo dalla parte giusta, ammazzateli tutti. Quanto al resto, l’analoga nota enciclopedica nella nostra lingua è risibile, quasi offensiva per un Nobel per la letteratura (Handke lo ha ottenuto, per inciso, nel 2019). Eppure, per fortuna nostra, Handke è molto – e ben – tradotto in Italia, spesso da Guanda; fino a qualche tempo – considerando che ha transitato un po’ per tutti i ‘generi’ – era un autore di culto. Il legame con Wim Wenders ha dato origine a un film pluripremiato come Il cielo sopra Berlino. Le controversie che riguardano Handke, come si sa, sono connesse al suo legame con la Serbia, sancito da alcuni reportage che andrebbero riletti, per completezza, a trent’anni dalla guerra in Bosnia-Erzegovina. Eppure, non è possibile. L’editore Einaudi, che nel 1996, con esaltata rapidità, aveva tradotto il fatidico Un viaggio d’inverno ovvero Giustizia per la Serbia, adesso ha in catalogo soltanto il poemetto, più cauto, Canto alla durata, adorno di fascia pacchiana, “Premio Nobel per la Letteratura 2019”. Meglio non sporcarsi le mani con pamphlet provocatori (nei mercati alternativi, dell’usato, Un viaggio d’inverno costa anche 200 euro; in origine costava 16mila lire…), specie in questi tempi, manichei. Eppure, Handke, come scrive, scriveva “per la seconda, la comune infanzia”, dichiarava “l’arte come la deviazione essenziale” e “là sulla Drina”, il fiume eternato da Ivo Andrić, “sentii la necessità di far danzare un sasso sull’acqua, lanciandolo verso la sponda bosniaca”. All’epoca, Einaudi pubblicò una Nota editoriale per spiegare ai lettori il senso di quella traduzione. “Rendere pubblico qualcosa che non conviene, qualcosa che è ‘meglio’ non lo sia, è ciò che accomuna a volte autore ed editore, quando meno pensano se stessi come macchine di consenso”. Pensiero rotondo; oggi poco praticato. La letteratura non chiede consenso, a volte stimola al combattimento.

Ad ogni modo, il mondo inglese pare editorialmente rassegnarsi alla grandezza di Handke. Con Quiet Places, Farrar, Straus and Giroux, ha appena pubblicato una “collezione di saggi” di Handke, la più ampia nel mondo anglofono. Sono raccolti, nello specifico, alcune raccolte diversamente tradotte in Italia – Saggio sul juke-box; Saggio sul luogo tranquillo; Saggio sul raccoglitore di funghi –, ritoccate da Handke per il pubblico di laggiù. Qui si è tentata la traduzione da uno di quei testi. L’editore anglofono rimarca l’ovvio – Handke è “uno dei più grandi scrittori viventi del nostro tempo” – ma la polemica sorge spontanea. Un lungo articolo scritto da Ruth Franklin per il “New Yorker”, Literature’s Most Controversial Nobel Laureate (ma è davvero così?, ma esiste davvero uno scrittore, in quanto tale, che non sia, per poetica e vigore della personalità, controverso?, ma esiste una letteratura priva di controversia abbinata allo scrittore da comodino?), rimarca, in sostanza, che “Handke non ha mostrato alcun rimorso per i propri errori di prospettiva”, che “alcune realtà – le fosse comuni di Srebrenica, ad esempio – non possono essere trattate ‘dialetticamente’”. Insomma, Handke dovrebbe fare ammenda, forse bruciare in pubblico i propri urticanti pamphlet, che narrano – lo dichiarava Einaudi – “di fiumi, di un viaggio, di neve sporca”.

La cosa più interessante, piuttosto, riguarda la postura ‘poetica’ (e dunque, la sagacia politica): “il postmodernismo americano, praticato da scrittori come John Barth, Thomas Pynchon, Robert Coover, era di natura politica: la sfiducia nell’onniscienza narrativa è collegata alla sfiducia nel governo degli Stati Uniti”; il postmodernismo di Handke sconcerta i critici d’America perché “è incentrato, sempre, sul linguaggio più che sulla politica”. Come se il linguaggio non fosse, in sé, una politica… Ah, la vecchia, marcescente Europa: Handke proviene da scrittori poliedrici, complessi, a volte involuti, come Thomas Mann, Robert Musil, Hermann Broch, Elias Canetti, che del romanzo hanno fatto materia pensante, irritante. Per fortuna, almeno in letteratura, esistono ancora identità, idiosincrasie, visioni contrapposte, senza il veleno di un fatuo irenismo.

***

Negli anni trascorsi al collegio cattolico, il cesso era un possibile rifugio, ma lì non mi rifugiavo quasi mai. Ero incline, piuttosto, ma non saprei darmene una ragione, a gettarmi nel confessionale durante la messa. Senza avere peccati da rivelare all’invisibile “Padre Confessore”, snocciolati dal generico catalogo delle colpe reperite nel catechismo, mi sentivo obbligato ad allontanarmi dai miei compagni, ad alienarmi dalla cerimonia, verso un luogo fuori mano: il confessionale era in effetti davvero fuori portata, molto in là, conficcato in un angolo della navata. Quando tornavo dai miei compagni, mi sentivo libero, più felice, ma non perché avessi alleggerito la mia coscienza nell’oscurità del confessionale… già… ma… a proposito, cosa significava per me ‘coscienza’ a quell’epoca?

Quei due posti – il cesso e il confessionale – non sono simili, anzi, paiono del tutto diversi, eppure rispondono alla stessa esigenza che sentivo, fin da bambino: alzarmi nel bel mezzo della funzione, sgattaiolare dai miei compagni, restare solo. Non ne avevo un bisogno urgente; la necessità era dettata dalla noia. La noia può tramutarsi in un’esigenza micidiale; non avevo mai provato prima la noia come forma di sofferenza.

Ci sono stati momenti in cui ho amato la scuola (“l’amore per l’apprendimento” ancora mi riguarda), ma non di rado ho passato periodi in cui non desideravo altro che ritirarmi in infermeria, lasciando l’aula, lo studio, i compagni, non per forza afflitto da una malattia grave, bastava un po’ di febbre, sufficientemente alta, il permesso della convalescenza: non pensare a nulla tranne ai motivi geometrici sul soffitto, stretto da lenzuola eccezionalmente bianche e morbide. Nelle rare occasioni in cui ho avuto la febbre, non arrivava a tanto da consegnarmi in infermeria. Una volta, però, mi è stato concesso il ricovero, ero l’unico paziente, non chiedetemi perché, accudito con premura da una suora: ero sdraiato, l’ampia finestra dava su un’area piena di boschi, di pascoli, di mucche, allo stesso tempo familiare e nuova, senza edifici scolastici o barriere tra la mia stanza da malato e il paesaggio.

Se solo potessi tornare in quella stanza! Una mattina, senza alcun aiuto, ho dovuto alzarmi, vestirmi, tornare alla vita, alla compagnia di persone sane e vigorose. Lontano dalla noia delle lenzuola bianche come la neve, dei bovini che masticano e sonnecchiano fuori dalla finestra, dalle creste uniformi degli abeti. Durante la convalescenza, è probabile che sentissi la mancanza di qualche amico. Ma ora, lasciata l’infermeria, non avevo alcuna voglia di ricongiungermi agli umani. Avrei dovuto presentarmi immediatamente in classe, invece, mi intrufolai nel dedalo di corridoi e gallerie che circondavano il cortile del collegio, m’infilai in un uno dei bagni, deserti. L’intervallo tra una lezione e l’altra era piuttosto lungo, dunque, per un po’, tornai libero e indisturbato. Rispetto alla calda stanza nell’infermeria, questo rifugio era gelido, decorato dal rumore costante dell’acqua, dappertutto. Ero freddo. Ovunque. Il gelo, i brividi, il costante tremore mi andavano benissimo. Sarei rimasto nel bagno finché la febbre non mi avrebbe sopraffatto. Nessuno veniva a cercarmi. Dovevo evitare di sbattere i denti. Ti prego, dio del freddo, rinnova in me la febbre… Ma la febbre rifiutò di tornare in quella mattina gelida – e io fui obbligato a ritornare in classe. […]

Un bel giorno d’estate, nei primi anni Sessanta, mi ritrovai solo, nel mio paese, terminata la scuola, separato dagli amici, freneticamente inattivo. Fu allora che partii. Da solo, con un borsone, nella foga dell’epoca. Non sono andato lontano, mi sono diretto a ovest, verso la Carinzia. Ricordo dove ho passato la terza notte. A Spittal, sulla Drava, a poca distanza da Radenthein. Ho passato la notte nel bagno della stazione ferroviaria. Ero senza soldi, Spittal era sguarnita di ostelli. A quei tempi le stazioni non chiudevano di notte, quindi potevo starci senza troppa preoccupazione. Per un po’ fu caldo: dopo tutto, era estate. In quei giorni, però, il caldo declinava rapidamente, verso sera; a volte si parlava, all’aria aperta, tra la luce obliqua e viola, anche se non c’era quel sentore di caprifoglio che aleggia nei romanzi del sud di William Faulkner. A Spittal sulla Drava ben prima di mezzanotte l’aria divenne gelida. Dapprima, girovagai per gli orti dei ferrovieri, scesi lungo un prato, presso il fiume, fuori dalla gittata luminescente dei semafori della stazione. Feci passare il tempo dando fiato al sangue, per così dire; osservai i treni a lunga percorrenza diretti ad Atene, a Belgrado, a Sofia, a Bucarest, Copenaghen, Ostenda. Infine, mi conquistò la stanchezza. Diventò travolgente. Mi rinchiusi in uno dei cessi della stazione. La porta si apriva inserendo uno scellino: entrai, richiusi, mi sentii protetto. Mi sdraiai sul pavimento piastrellato, usando il borsone come cuscino. Il cesso era stretto, appoggiai la testa alla parete, feci del corpo una specie di semicerchio. Il cesso mi impugnava. L’illuminazione era bianca, nebulosa, indefettibile, durò tutta la notte. Ho provato a leggere I Buddenbrook, il romanzo di Thomas Mann, che possedevo da tempo e che non mi attirava: quella notte, si rivelò inaspettatamente affascinante. Ricordo la scena in cui Thomas Buddenbrook, condannato, con la morte che gli morde i calcagni, riflette sul significato della vita.

Peter Handke

Gruppo MAGOG