06 Maggio 2024

“Hai dormito nella sconfinata nudità”. La poesia cosmica di Harry Martinson

Cinquant’anni fa viene assegnato uno dei Nobel per la letteratura più discussi di tutti i tempi – posto che un premio, per malaugurio connaturato, nasce sempre per fomentar cagnara. Nel 1974, l’Accademia di Svezia scelse di premiare, in sostanza, se stessa, conferendo il Nobel a Eyvind Johnson, romanziere che in Italia ha lasciato scarse tracce e Harry Martinson, poeta d’angelico genio, pressoché sconosciuto (sulla scia del Nobel, Einaudi pubblica la raccolta Le erbe nella Thule, a cura di Giacomo Oreglia, nel 1975, mai più ripresa). La stampa si ribellò, con violenza raddoppiata: perché non premiare Borges, Nabokov, Graham Greene, scrittori ben più celebrati? Il problema su cosa dev’essere un premio – registrare il già noto, onorare la ‘carriera’ o intuire il futuro genio, farsi scommessa? – si portò appresso un altro problema, legato alla ‘geopolitica’ della letteratura. Ci sono certe lingue – lo svedese, per dire – meno importanti di altre (inglese, francese, spagnolo etc.), e per questo genericamente marginalizzate.

Il giorno della cerimonia, più che del duo Johnson-Martinson, tutti si occuparono di Aleksandr Solženicyn, giunto finalmente a ritirare il suo Nobel, assegnatogli nel 1970. La motivazione con cui inghirlandarono Martinson – “per scritti che catturano la rugiada e riflettono il cosmo” – è tra le più liriche e vaghe di sempre.

Schiacciati dalle polemiche, i due scrittori nobilitati dal Nobel morirono presto. Johnson mollò gli ormeggi nel 1976, in agosto, aveva 76 anni. Martinson scoscese in un lento delirio, le polemiche lo squassarono; si uccise in un ospedale di Stoccolma nel febbraio del 1978, aprendosi lo stomaco con un paio di forbici. Era nato il 6 maggio del 1904. Nel necrologio – poco più di un trafiletto – il “New York Times” ribadì che Martinson era “il più sensibile e originale dei poeti svedesi della sua generazione” ma che “non era molto conosciuto oltre i confini della sua terra natale”. Ricordò, ovviamente, la torbida vicenda del Nobel: “l’Accademia svedese fu criticata per aver onorato lui e Johnson a spese di candidati più rinomati”. Scrissero che gli piaceva Rudyard Kipling – in verità, preferiva i russi, Esenin al primo grado.

Un po’ tutti furono ingiusti verso Harry Martinson, poeta dalla tempra selvaggia, dall’estro inesorabile, acerrimo nemico del ‘progresso’ inteso come letale alienazione dell’individuo. La sua opera più notevole, Aniara – tradotta da Libri Scheiwiller nel 2005, per la cura di Maria Cristina Lombardi; in calce all’articolo se ne offrono alcuni stralci in altra versione – è il primo esempio di science fiction in versi. Vi si racconta il viaggio – intergalattico e interiore – di una navicella, Aniara, appunto, che ospita alcuni terrestri, in fuga dalla distruzione del proprio pianeta; presto in rotta dal Sistema Solare, la nave vaga per le infinite distese del cosmo. Il poema, diviso in 103 canti, alterna inni lirici a porzioni narrative, la cronaca al libro sacro, la filosofia al dettaglio ‘filmico’. Martinson modula diversi registri, sbobina linguaggi, costruisce un mondo in questa possente “Odissea nello spazio” che mescola Le Argonautiche alla narrativa di genere. Edito nel 1956, il poema è uno dei libri miliari della letteratura svedese, trasposto in un’opera musicale e in diversi film. Tradotto in inglese, nel 1963, dal formidabile poeta scozzese Hugh MacDiarmid, Aniara è uno dei libri poetici più folli ed extracanonici del Novecento.

Per altro, Harry Martinson fu autore di una vita autenticamente estrema, al di là della prigionia dell’intelletto. Orfano di padre, mollato dalla madre a una famiglia di contadini, a sedici anni s’imbarca, molla la Svezia, viaggia in Brasile e in India. Ritornato in patria per problemi di salute, vive senza dimora, impegnandosi in svariati lavori. Poco più che ventenne è arrestato per vagabondaggio. Fin da subito, le sue poesie – ripide e rudi, espressioniste, che cantano la natura e la vita scanzonata con i toni dell’elegia, con un linguaggio eletto al neologismo – si presentano come una novità sconcertante. È con i romanzi e i saggi, però, che Martinson ottiene il successo pubblico: “Viaggi senza meta” (1932), “Le ortiche fioriscono” (1935), “Vagabondaggi” (1936), “La strada per Klockrike” (1948) – tutti intradotti in Italia – gli permettono, primo tra gli scrittori cosiddetti ‘proletari’, di ascendere all’Accademia di Svezia. Gli allori si rivelarono il suo patibolo.

Aveva la faccia aperta, da buono, scalfita da una giovinezza di sale, spinata. Avrebbe potuto fare l’attore. La poesia, in lui, aveva la levità del petroglifo, la perizia di un atto d’accusa. Visto il seguito e l’insignificanza dei seguaci, il suo è forse uno dei Nobel meglio affibbiati del secolo. Amava il mare, i viaggi nello sconfinato: in calce alle sue poesie, disegnava sempre un veliero a tre alberi, l’acribia del riflesso.

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Da Aniara

53

La lancia

Nell’undicesimo anno fummo trafitti
dalla più cupa e meschina delle visioni:
una lancia che vagava per l’Universo.
Viaggiavamo nella stessa direzione
ma non deviò, mantenendo il corso.
La sua velocità superava quella
di una nave, così si allontanò
prontamente, superandoci.

Sedemmo insieme per ore
parlando con entusiasmo
della lancia, della sua tratta
e della sua origine. Nessuno ne
sapeva nulla. Alcuni indovinarono
una ragione, ma non riscosse credito.
In un certo senso, era incredibile
non poteva diventare un oggetto di fede.
Stava semplicemente volando per l’Universo.
La lancia del Vuoto che traccia il suo percorso insensato.
Eppure, quella visione alterò
la mente di molti: impazzirono
in tre, uno si uccise. Un altro
fondò una setta arricchita da striduli
discepoli, pallidi, tediosamente ascetici
di cui si parlò a lungo in Aniara.

Dunque, la lancia colpì tutti, in pieno volto.

*

68

Ci ritirammo dalla tratta:
sperare in una conclusione
era un viaggio nel vuoto.

Per i vecchi fu come una trasfusione
percepire la nave incerta della rotta.
Come tutti quelli che sono piagati dal dolore
e si struggono per il nirvana.

Da quelli che si struggono per il nirvana
piagati dal dolore, giunse un grido:
la bellezza si sta avvoltolando
ha dato una scossa alla nostra via.

L’indicibile speranza tornò esplicita
e nessuna bestemmia adornò
le dottrine e le religioni del mondo
convocate in una sala dove
flottavano stemmi, stendardi, croci
lini di preghiera, detti istoriati nel loto.
Duro era l’ardire nel volo
ma la speranza, pur sbilanciata
dal terrore, inarcò la sua bandiera.  

*

74

Degli spazi fin troppo chiari trattiene l’orrore
e, senza pensare a nulla, tutto vede.
Gratuito, il morto spazio, vitreo.
Grato, il vuoto che imbambola
l’assurda trasparenza.

Grato, l’orrore lampeggia come una stella.
Amico, sai troppo per non aver pensato a nulla.

Hai dormito nella sconfinata nudità
dei mari cosmici – sogni ad occhi aperti
razziati e rasi al suolo
finché come un sole baluginò orrore.

*

86

Canto dell’erosione

Le legioni di atomi appostate ai confini di Ninive
infine, si ritirarono, lasciarono le sedi dei grandi.
La decomposizione è manifesta in ogni pietra,
testimoniata da una sacrestia di cavità e di forre.
Marciano leoni marcescenti e sacerdoti d’alto lignaggio.

O pietre cave e senza nerbo, non fateli sparire
guardate come il tempo ha corroso la bella criniera del leone
la virilità ostentata un tempo dalle donne Assire
la torre di Han, dissolta in una bava di piogge.

Le stagioni arrancano verso gli infiniti peccati dell’erosione:
nelle orge e nelle rose la corruzione è complice del rosa.
Con avvampate lingue hanno pungolato le degenerate erbe.
Il lupus ha invaso le caverne sostituendo il petroso lupo.

Come le pietre si erodono così l’uomo tuffa i denti nel diritto.
Ogni ipocrita conosce il clandestino puzzo della putrefazione.
Le cose permeate dall’intuizione le rivela la luce
come fosse di lava nella grande baia della rovina.

Ascolta i corni frantumati. Ecco la cetra scheggiata
che intona il canto della sfinge sulle distese di sabbia,
lastricate dalla lebbra, per confortare le nazioni la cui
decenza è appassita come la mascella degli osceni millenni.

Harry Martinson

Gruppo MAGOG