«Un bel giorno mi toccherà un colpo, uno di quelli che annientano una persona, e allora tutto finirà: finirà questo intrico, questo struggimento, quest’ignoranza, tutto, tutto, gratitudine e ingratitudine, menzogna e miraggi, questo creder di sapere e invece non saper mai niente. Però desidero vivere, non importa come».
Queste parole – che a rileggerle anche cento volte continueranno a procurare sempre una vertigine di bellezza, di commozione, di ammirazione – si trovano in Jakob von Gunten. Un diario, il grandioso romanzo di Robert Walser che racconta la permanenza di un giovane di nobili origini all’Istituto Benjamenta, una scuola per domestici. E forse è questo che, in fondo, volevano dire quegli occhi aperti e stupiti, che ancora oggi possiamo vedere nelle impressionanti fotografie scattate allo scrittore svizzero trovato morto, caduto riverso sul pendio nevoso, durante una delle sue abituali passeggiate, in un pomeriggio di Natale del 1956, in libera uscita dalla clinica psichiatrica di Herisau, dove Walser era rinchiuso da ventitré anni: che la vita, per quanto incomprensibile, per quanto dolorosa, vale sempre la pena di essere vissuta. O forse quei suoi occhi, quel corpo, quelle impronte sulla neve sono solo labili tracce che non possono dirci nulla del segreto che Walser ha custodito sempre dentro di sé, al centro del suo essere, «come un grumo compatto, impenetrabile, quasi interamente svuotato di contenuto». Quel che è certo, però, è che nonostante la sua più grande ambizione, da vivo, sia stata quella di sparire, di galleggiare senza essere visto sulla superficie del mondo, da quel momento esatto in cui cadde sulla soffice neve d’inverno, il destino ha riservato anche a lui, a Robert Walser, come allo scrivano Bartleby del racconto di Melville, il privilegio di dormire «con i re e con i saggi della terra».
Era nato il 15 aprile 1878 a Bienne, comune svizzero del Cantone di Berna, ai piedi dei contrafforti del Massiccio del Giura. Aveva trascorso fino a un certo punto una vita da scrittore «deriso e fallito», come si definiva lui stesso: un irregolare dalla natura anarchica, estraneo alle conventicole letterarie e a qualsiasi tipo di compromesso, sempre a corto di denaro, spesso ubriaco, e col terrore del successo, che rifuggiva come la peste. Aveva pubblicato una manciata di libri: I fratelli Tanner, L’assistente, Jakob von Gunten. Un diario, e varie prose brevi – dialoghi, storielle, ritratti di artisti o poeti, pezzi indefinibili – che con la loro ironica svagatezza e la loro gaia disperazione rappresentano uno dei vertici della letteratura tedesca del Novecento. Poi, però, arrivarono i manicomi. Dapprima il ricovero nella clinica Waldau a Berna, nel 1929, per volere della sorella Lisa, che non riusciva più a gestire il fratello. Qui Walser resta per quattro anni, con la diagnosi (non sapremo mai fino a che punto esatta) di schizofrenia: lo scrittore era tormentato dagli incubi, aveva manie di persecuzione e pensieri suicidi, e affermava di sentire voci che lo schernivano. Da Waldau ci fu poi il trasferimento, con reclusione forzata, nella clinica di Herisau, dove Walser resterà fino alla fine dei suoi giorni, senza scrivere più un rigo, fino cioè a quella passeggiata nella neve di quel pomeriggio di Natale del 1956, quando cadde di schianto sulla schiena, sprofondando nel manto immacolato senza più rialzarsi.
Lo scrittore Walser ha avuto lettori e studiosi d’eccezione, come Franz Kafka ed Herman Hesse, Robert Musil, Walter Benjamin e Elias Canetti; e ancora oggi i suoi libri ci rapiscono e incantano per la loro levità e inafferrabilità: svagati e abissali allo stesso tempo. Ma chi è stato l’uomo Walser in quei 23 anni in cui si è chiuso nel suo silenzioso isolamento, perseguendo l’ostinato progetto di diventare uno zero, di «scomparire il più discretamente possibile»?
Ha provato a raccontarlo, per prima, il suo unico amico (e curatore delle opere) Carl Seelig in Passeggiate con Robert Walser e dopo di lui W. G. Sebald, nel suo Il passeggiatore solitario, due libri che in maniera diversa (il primo con la testimonianza diretta, il secondo con una magistrale empatia) attuano un pedinamento assiduo per tentare di penetrare nel mistero dello scrittore svizzero. Adesso esce un piccolo e prezioso libro – a metà tra il reportage e il pellegrinaggio, ma anche tra il memoir e il taccuino di appunti – che si intitola Verso il bianco. Diario di viaggio sulle orme di Robert Walser: lo ha scritto Paolo Miorandi, uno psicoterapeuta di Rovereto, e lo pubblica Exòrma editore. Di questi tempi, una vera chicca. Miorandi si mette letteralmente e metaforicamente sulle orme di Walser: nel senso che parte per Herisau, visita la clinica che ospitò l’illustre paziente, ripercorre il tragitto compiuto nell’ultima passeggiata, respira l’aria che ha respirato lo scrittore, osserva i luoghi e le strade che ha attraversato, e allo stesso tempo si interroga su quel bianco della neve tra un’orma e l’altra nelle fotografie della morte, e soprattutto su quello spazio bianco lasciato da Walser sulla pagina, progressivamente. Dapprima mascherato nei cosiddetti microgrammi, una scrittura nascosta da una grafia illeggibile, talmente piccola che per anni, prima di essere decifrata, era stata confusa con dei semplici scarabocchi, con cui Walser riempiva migliaia di fogli volanti, buste di carta, pagine di taccuino, piccole tessere rettangolari, in una continua divagazione che assomigliava alle sue camminate senza meta: poesie, racconti, note, appunti scritti per nessuno da qualcuno che non voleva essere più nessuno. Poi lo spazio bianco prese il sopravvento anche sui microgrammi, con la rinuncia definitiva alla scrittura.
Anche in questo libro, seguendo Sebald, Miorandi innesca un meccanismo empatico, avvia un processo di denudamento, fin dall’incipit: «Negli anni in cui il male di vivere si era fatto più intenso e la sottile scorza che ricopre la nuda vita si era crepata, forse nulla mi ha dato più conforto dei libri di Robert Walser. Li ho letti come un credente legge le vite dei santi, per rinnovare la preghiera di una bellezza al termine dell’angoscia». Ecco, dunque, subito profilarsi un legame di sotterranea simbiosi tra l’autore e lo scrittore (in effetti, sì, Robert Walser è stato anche un santo, un santo laico, puro e vergine come nessuno), nel segno di un «male oscuro», identificato anche nel silenzio, nell’assenza delle parole, dal momento che proprio le parole, la loro indecifrabilità e la loro necessità, sono uno dei temi portanti del libro. Come ci ricorda lo stesso Miorandi, per Canetti «la scrittura di Walser è percorsa da un’angoscia che resta sul fondo, che si ritira nella parte meno illuminata della scena nascondendosi alla vista». È un gioco a rimpiattino, dunque, e d’altra parte una delle immagini più ricorrenti in queste pagine, associate a Walser, è quella del funambolo: arte della leggerezza affacciata sul vuoto, del danzatore sul filo che sfida e nasconde la voragine, il nulla. La scrittura di Walser, ha fatto notare ancora Benjamin, non traccia piste, ma cancella impronte. Per questo raccontare il suo mistero vuol dire accettare l’assenza, la mancanza di prove e mettersi in gioco direttamente. Mioraldi lo riesce a fare, improvvisandosi un po’ funambolo anche lui, e quasi sempre si mette in perfetta sintonia con l’oggetto della sua indagine, appuntando sogni, ricordi d’infanzia o di giovinezza, divagazioni (il confronto con il padre), durante il suo soggiorno a Herisau, cittadina dell’Appenzell, dove oggi esiste un Robert Walser Pfad, il primo sentiero letterario svizzero, inaugurato nel 1986.
Quando Seelig chiese a Walser la ragione del suo silenzio, della sua rinuncia alla scrittura, lui rispose che non si trovava in manicomio per scrivere, ma per fare il matto. Risposta degna di un Amleto invecchiato in manicomio a mondare lenticchie, fagioli e castagne o a incollare sacchi di carta e a sistemarli con estrema attenzione formando pile più alte possibili, o ad aiutare le infermiere nelle pulizie del reparto. Se Walser ha recitato la parte del matto, l’ha recitata benissimo: un paziente tranquillo, che nelle ore libere, oltre a passeggiare, leggeva vecchi libri o riviste illustrate, o se ne stava in piedi, immobile, a non fare nulla. Trattava tutti con cerimoniosa cortesia, ma se gli si parlava di letteratura cambiava atteggiamento: diventava scostante e riottoso, si lanciava in giudizi drastici e offensivi, s’inalberava per niente. Per questo era classificato tra i pazienti asociali, con tendenza autistiche, ma innocui. Rievocato dalla scrittura di Miorandi, ci pare di rivederlo, questo vecchio Amleto, forse un po’ istrione, forse totalmente folle sul serio, tra i padiglioni e le camerate della clinica, o sui sentieri innevati, mentre fa le sue amatissime passeggiate, camminando a un ritmo indiavolato, sempre armato di ombrello. E con lui, sono rievocati in questo libro altri personaggi: Thomas Bernhard, ad esempio, o Peter Bichsel, anche lui scrittore svizzero, o l’artista concettuale Roman Olpalka, autore di un unico quadro suddiviso in tanti dettagli dipinto per quasi mezzo secolo, bianco su bianco, con una progressione numerica dall’1 all’infinito, fino alla morte (e il bianco è il colore che domina qui, fin dal titolo, nel segno della sottrazione). Miorandi disegna così una cartografia del disagio, ma anche della fedeltà (a uno stile, a un mondo interiore, a un’etica artistica), e lo fa con lo spirito del lettore appassionato e del pellegrino («questo viaggio sarà il mio atto di penitenza e ringraziamento», scrive), nella consapevolezza che l’arte è davvero tale solo se ha la forza di intervenire direttamente a sconvolgere la nostra vita, dannandola o salvandola non importa.
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Durante la sua vita solitaria e poverissima di eventi, Robert Walser è stato, saltuariamente, commesso di libreria, impiegato di banca e in una fabbrica di macchine da cucire, segretario di un avvocato, aiuto contabile in una società di assicurazione, assistente di un ingegnere. Come guadagnava qualcosa, si licenziava e si dedicava a scrivere, per poi cercare di nuovo uno dei suoi modesti lavori da dipendente. Forse non sapremo mai chi e cosa sia stato davvero Robert Walser, il quale una volta scrisse un elogio della cenere, che amava perché rappresenta in sé l’umiltà, l’insignificanza, l’assenza di valore. Walser si sentiva a suo agio soltanto immaginandosi come «qualcosa di piccolo e subordinato», qualcosa che, come un granello di cenere, fosse pervaso dalla convinzione di non valere nulla. Il suo desiderio di dissolvimento era talmente forte che per molto tempo la sua ambizione più grande è stata quella di fare il domestico. Per realizzare il suo sogno, a ventisette anni frequentò per un mese una scuola per domestici, proprio come il protagonista di Jakob von Gunten, dopodiché fu assunto al servizio di un signore nel castello Dambrau, nell’Alta Slesia, in cima a una collina. Qui Walser lavorò per due mesi: spazzava i saloni, lucidava i cucchiai d’argento, batteva i tappeti e serviva in marsina col nome di «Monsieur Robert». Ma poi, nonostante l’impegno profuso, Walser lasciò il servizio perché con la sua «goffaggine svizzera» non si sentiva nemmeno all’altezza di fare il servitore. La subordinazione aveva per lui qualcosa di bonario, di rassicurante, perciò lo scrittore sosteneva di essere una specie di caporale e di voler restare per sempre tale. Ambiva a essere una nullità perché disprezzava la forza e il prestigio, e riusciva a respirare solo nelle regioni inferiori. Ma era un genio, e con la chiaroveggenza dei geni riuscì a prevedere tutto, i nostri tempi dissennati dove tutti vogliono primeggiare e perfino il modo esatto in cui sarebbe morto.
«Un riposo splendido questo giacere e irrigidirsi sotto i rami degli abeti, nella neve. È il meglio che tu potessi fare. Gli uomini sono sempre propensi a nuocere ai tipi bizzarri del tuo genere, e a deridere le loro sofferenze». Così aveva scritto quando Simon, il protagonista dei Fratelli Tanner – un personaggio che secondo Kafka era stato creato per la pura «gioia del lettore» – vede il poeta Sebastian morto nella neve. E in un altro libro, pensando al suo elogio funebre, infine, disse di augurarsi solo bugie: «purché siano bugie deliziose», aggiunse. Come non amare uno scrittore così? Sono sempre più convinto che bisognerebbe tornare a leggere Walser per un’ecologia della mente, soprattutto oggi, mentre l’inquinamento imperversa nel mainstream editoriale. Questo libro di Miorandi ci invita a farlo, e a noi non resta che ringraziarlo per averlo scritto.
Fabrizio Coscia