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“Non esiste niente che non abbia importanza”. Per Marina Cvetaeva, che perse tutto
Poesia
Isabella Serra
La Bibbia non è tanto il libro che celebra il Nome, ma un manuale che fa accedere ai nomi. Ogni nome è un astuccio che detiene un destino: quando la vita è una svolta, il nome cambia, si spezza, come una noce. Dio assegna i nomi e li ingoia. Sbagliare i nomi – come ripetere a contrario una formula magica – significa corrompere il creato; ignorare i nomi è vivere come spettri, senza palpebra. Il grande cabbalista Abraham Abulafia (1240-1291) ha sperimentato una mistica della combinazione delle lettere e delle parole ebraiche, capaci di schiudere mondi altrimenti inaccessibili alla mente comune. “Abulafia ha decisamente preso la strada dell’interiorità, e l’ha percorsa fino in fondo, come ben pochi dopo di lui nel mondo ebraico. Ma questa strada si trova al limite tra mistica e magia”, scrive Gershom Scholem nel suo studio sulle Grandi correnti della mistica ebraica. Paul Celan percorre, in qualche modo, l’arte di Abulafia, esasperandone i conflitti. Tutta la sua opera in versi, infatti, procede per sottrazioni e ecolalie; anche i maestri che sceglie di tradurre – Cioran, Ungaretti, Mandel’stam, ad esempio – sono minatori del bianco, artefici di scavi e di escoriazioni. “Il mondo, giunto a noi/ nell’ora vuota”, come scrive il poeta, e va inscritto nel silenzio: i versi sono cavi, calchi, residui di una pietra nell’acqua. Anche volando tra i titoli che Celan assegna ai suoi versi, premendo l’orecchio su quelle parole cardinali – sabbia, soglia, grata, respiro, filamenti, luce coatta, neve – si ode il tintinnio di un vocabolo d’altro mondo. Un allarme, esatto al fraintendere. D’altronde, Celan amava i Salmi, che raffinano il pianto in versi, formulano il grido in un canto di cui non si è lettori ma seguaci, al crisma del ritmo. “Su Paul Celan traduttore” Federico Dal Bo ha scritto uno studio affascinante e molto informato, Qabbalah e traduzione (Orthotes, 2019). L’ho interrogato. Avevo letto da poco quella poesia, “Tenendo nel pugno la frase al silicio”, in cui ogni parola, detta, contraddetta, contraffatta, si riduce infine in “quell’unico alito”. Facile fare di Celan un profeta, la sua poesia si presta a vagabondaggi ermeneutici; piuttosto, disciplina a inghiottire e a radicare in verbo il sospiro. (d.b.)
In Celan tutto è trasmutazione di linguaggio, come un’operazione alchemica. Sceglie di esprimersi in tedesco; il suo nome non è “Paul Celan”: qual è, dunque? Come si spiega questa specie di rovina della identità? E il suo, infine, lento recupero?
“Operazione alchemica” forse è il termine più adatto per definire la poesia di Celan, sia che si tratti dei suoi versi veri e propri sia che si tratti dei testi che traduceva da altre lingue in tedesco. Del resto, il termine alchimia – che deriva dall’arabo, forse su un calco del greco chemeia, “fondere insieme” – indica appunto la pratica di “saldare” insieme elementi diversi. In effetti, in Celan c’è una disposizione fondamentale a “fondere” la propria identità, già precaria e traumatizzata dall’esperienza della Shoah, con quella d’altri, cercando appunto un lento recupero di una individualità personale e poetica. Questo emerge chiaramente nei numerosi giochi linguistici che costruisce intorno al suo cognome secondo un vertiginoso richiamo tra le lingue: ebraico, yiddish e rumeno. Questo nuovo cognome era infatti un piccolo gioiello linguistico che nasceva dall’incrocio di diverse lingue: il cognome ebraico Asher, divenuto Antschel in yiddish, si trasformava ora in Ancel, secondo l’ortografia rumena, per diventare Celan con un facile anagramma, letto con un particolare accento francese. Come si può vedere, non si trattava semplicemente di permutare le lettere del nome bensì di “fondere insieme,” quasi seguendo una ricetta alchemica, tre diverse identità: quella ebraico-tedesca, quella rumena e quella francese. Il gioco linguistico apparentemente lezioso sul suo cognome tradiva già potenzialità qabbalistiche particolari, probabilmente mediate dalla sua lettura precoce di Walter Benjamin. Intendo in particolare il saggio di Benjamin sulla lingua e l’idea che la lingua pura consista soprattutto di “nomi propri” con cui Adamo nomina gli animali creati da Dio, secondo il racconto della Genesi. Il desiderio di coniare un nuovo cognome, ovvero un nuovo nome, chiaramente è il tentativo di recuperare una stabilità nell’identità di sé, senza però perdere alcuno degli elementi costitutivi bensì saldandoli tutti insieme. Considerando l’esito tragico della sua vita, non si può dire che questo tentativo sia ben riuscito. Si trattava probabilmente solo di una soluzione temporanea, precaria, come del resto precaria era la sua stessa teologia che fa capolino dalle sue poesie e dalle sue traduzioni senza mai manifestarsi pienamente…
Celan pare continuamente interpretare l’errante: in Francia, scrive in tedesco, traduce i russi. C’è una specie di continua fuga dai linguaggi, una ostinata diaspora nell’incompreso. È così?
In alcune delle sue lettere ad amici, Celan scherza un po’ sulla sua natura nomade, quasi un luogo comune dell’identità ebraica prima della fondazione dello Stato di Israele. Tuttavia, mi sembra che nell’opera di Celan traspaia anche una geografia più sottile. Non c’è semplicemente l’opposizione tra Europa dell’Est e l’Europa dell’Ovest bensì una correlazione quasi impercettibile tra le due. Se posso richiamarmi ad una famosa metafora che la poetessa ebrea Nelly Sachs suggerì a Celan nella loro lunga e tormentata corrispondenza, c’è un meridiano che collega Bucarest, chiamata la “Parigi dell’est”, alla Parigi vera e propria. Celan percorse questo meridiano già nel 1938, quando trascorse diversi mesi a Parigi, da studente di medicina, prima di tornare in Romania. In quel frangente, scrisse all’amico Gustav Chomed una lettera profondissima sul senso della scrittura poetica, della solitudine e dell’attrazione per la vita in Occidente. È un parametro poetico da cui non si discosterà mai, pur soffrendo duramente per la vita parigina e per la solitudine che una grande città tipicamente impone. Direi allora che più che una fuga c’è un nomadismo, ovvero un’erranza tra le lingue. Ciò tradisce la consapevolezza che il tedesco possa anche essere la sola lingua elettiva per scrivere poesia ma che questo da solo non basti. Anzi, è necessario attingere ad altre lingue. In questo senso, la traduzione è il mezzo per eccellenza per connettere una lingua all’altra. Si tratta di costruire un microcosmo poetico poliedrico ma tuttavia non meno alienante. Nonostante i suoi tentativi di assimilazione alla cultura europea – e uso il termine assimilazione con tutte le sfumature politiche possibili – Celan sentiva di restare sempre un ebreo rumeno di lingua tedesca che viveva in Francia ma scriveva in tedesco, traduceva da sette lingue e pretendeva di insegnare ai tedeschi come scrivere poesia. Anzi, Celan più volte sostiene che è proprio questa sua condizione nomade tra le lingue e le culture ad essere alla base della sua campagna diffamatoria intentata dalla vedova di un ebreo franco tedesco, Yvan Goll, di cui era il traduttore designato in tedesco. La campagna diffamatoria assunse ben presto toni spiccatamente antisemiti, specialmente tra la germanistica tedesca, ricalcando appunto l’idea che Celan fosse un nomade della lingua che cercava di “assimilare” le poesie altrui.
Mi affascina il capitolo che ha dedicato al rapporto tra Celan e la Qabbalah: come accade la prossimità del poeta con la mistica ebraica? In che modo lo Zohar penetra nella sua poesia?
La poetessa Nelly Sachs era particolarmente entusiasta dell’opera di Celan che considerava uno Zohar moderno vero e proprio. Tuttavia, Celan si schermisce, sembra quasi ritrarsi di fronte all’eventualità che la sua poesia sia effettivamente mistica o qabbalistica. C’è un solo richiamo alla Qabbalah nella corrispondenza tra i due. Attraverso un’attenta lettura del lascito di Celan, dei suoi libri e dei suoi appunti, ho potuto appurare che Celan non leggeva opere qabbalistiche, tra l’altro non ne aveva nemmeno la competenza linguistica. Preferiva invece leggere testi di storia della Qabbalah, ovvero prevalentemente i libri di Gershom Scholem che aveva letto e annotato attentamente soprattutto dagli anni Sessanta in poi. In effetti, non sembra che Celan si sia ispirato direttamente dalla lettura di testi mistici. Al contrario, sembra che Celan si sia servito degli scritti di Scholem per rileggere la sua stessa opera poetica e traduttiva. In diversi passi dei testi di Scholem, Celan ha commentato a margine citando dalle sue proprie poesie già edite da tempo. Insomma, l’autocitazione sembra essere stato un criterio per leggere la storia della Qabbalah e quindi per rileggere la sua propria opera poetica in questa luce. Tuttavia, è indubbio che per Celan la Qabbalah fosse un criterio di lettura retrospettivo delle sue proprie poesie. Ci si può spingere più in là in questa ipotesi. Si può sostenere che la mistica ebraica recepita attraverso la mediazione esemplare di Scholem costituisse per Celan una ricapitolazione della sua intera opera poetica. Come già ricordato sopra, non si trattava tanto di distinguere tra influenza diretta o indiretta bensì di stabilire una congruenza tra poesia e Qabbalah. Quindi non è sorprendente che Celan si sia concentrato su specifiche porzioni dell’opera storiografica di Scholem. Si trattava infatti di ripiegarsi sui testi già elaborati, quasi ad illuminarne o ne confermarne le potenzialità mistiche.
Il termine medio tra Celan e l’arte qabbalistica è appunto il grande Gershom Scholem. Che rapporti esistono tra il poeta e lo studioso? Scholem, poi, se non ho capito male, transita Celan verso Walter Benjamin…
Chiaramente l’opera di Gershom Scholem ha permesso a Celan di accedere ad una tradizione di pensiero mistica e messianica arricchendo la sua poetica persino di una vena ancora più pessimista. Sul piano personale, però, penso che i rapporti tra i due fossero più complessi e non particolarmente positivi. A quanto sembra, Celan e Scholem si mancarono per un soffio in Svizzera in occasione di una conferenza e poi si incontrarono tre volte negli anni Sessanta a Parigi e un’ultima volta a Gerusalemme, nell’unica visita che Celan fece in Israele. A quanto pare, non si trattò mai di incontri personali, ad esempio, come quello che intercorse tra Celan e Heidegger, seppur segnato da una tragica incomprensione tra i due. Al contrario, Celan e Scholem si incontrarono sempre insieme ad altri amici e conoscenti comuni, come il famoso critico letterario Jean Bollack. Ho l’impressione che non ci fosse una particolare affinità tra i due. Tra l’altro, sicuramente non aiutarono le difficili condizioni personali di Celan negli anni Sessanta che era stato brutalizzato da tre permanenze coatte in ospedale psichiatrico. È un dato di fatto che l’ultima conversazione di Celan con Scholem non riguardò affatto temi della mistica ebraica e a malapena toccò altri argomenti come Walter Benjamin e la sua teoria della traduzione, sebbene Celan stesse traducendo molto in quel periodo. Tuttavia, non si deve essere tentati di liquidare la questione a fronte di queste difficoltà personali o dalla natura occasionale dei loro incontri. Anzi, il conflitto, l’adombra lo stesso Jean Bollack in un suo articolo, probabilmente era assai più profondo e riguardava l’essenza della identità ebraico-tedesca prima e dopo la Shoah. È noto che Scholem ritenesse che il cosiddetto dialogo ebraico-tedesco fosse stato solo un mito fomentato dalla stessa classe intellettuale ebraica per sentirsi più accettati socialmente ma ai suoi occhi si trattava pur sempre di un “mito,” cioè di una proiezione creativa dell’immaginario, non priva di paradossi, come quello di permettere agli ebrei finalmente di identificarsi come tali proprio perché venivano stigmatizzati prima e perseguitati poi. Al contrario, Celan credeva che fosse possibile un dialogo ebraico-tedesco o almeno ci “sperava disperatamente,” come mostra la sua pervicace idea di scrivere poesia esclusivamente in tedesco ma anche tradurre esclusivamente in tedesco. Ecco, credo che la vera incomprensione tra Celan e Scholem partisse da qui, piuttosto che da qualche sottigliezza accademica sulla natura del linguaggio o della mistica ebraica.
Il viaggio in Israele di Celan: che valore ha per il poeta, cosa vede di ‘suo’, di proprio a Gerusalemme? C’è un testo particolare della Bibbia che ha agito nell’ispirazione poetica di Celan?
Senza dubbio i Salmi che sono la filigrana della sua raccolta poetica “La rosa di Nessuno” (Niemandsrose). Già dal suo titolo, questa raccolta si richiama palesemente alla dottrina mistica, non esclusivamente ebraica, dell’apofatismo, ovvero dell’idea per cui Dio è talmente trascendente rispetto al mondo che non se ne può dire nulla di positivo, al punto di non poterlo nemmeno chiamare per Nome, ammesso che abbia senso dire che Dio ha un “nome proprio”. In questa raccolta poetica, “nessuno” è anche un richiamo alla dottrina qabbalistica per cui il pronome personale di Dio, “Io” (ani), si può permutare in “Nulla” (Ain) per poi puntare all’“Infinito” (Ein sof). È una trama molto sottile che vive più di reticenze che richiami espliciti, come del resto è caratteristico di tutta l’opera poetica e traduttiva di Celan. Sia le sue poesie che le sue traduzioni vivono sempre del mediato, ricercano un terzo, talvolta persino un quarto, quando ci si confronta con l’altro o l’Altro. Come spiegare questo paradosso? È come se Celan cercasse sempre un’alterità ulteriore dell’Altro, un’ulteriore forma di differenziazione che si dipana linguisticamente in un’ulteriore distinzione tra le lingue. Non c’è, insomma, una poesia scritta esclusivamente in tedesco bensì un tedesco infiltrato e contaminato da molte altre lingue, un plurilinguismo che probabilmente è inevitabile in ogni forma di scrittura artistica ma che viene elevato qui a cifra mistica. In altre parole, come è impossibile scrivere in un “tedesco puro,” secondo ogni accezione estetica e politica dell’espressione, così è impossibile tradurre in tedesco solo da una sola lingua. Al contrario, come è necessario contaminare il tedesco con molteplici lingue, così è sempre necessario tradurre in modo indiretto, ricercando metodicamente la mediazione di altre lingue e altre traduzioni, talvolta quindi arrivando a tradurre traduzioni di traduzioni. L’esempio più eclatante è la traduzione in tedesco di Ungaretti che Celan compie metodicamente con la mediazione del francese, non certo per mancanza di competenza linguistica bensì a partire da un principio poetico e traduttivo fondamentale: la pluralità linguistica di fronte ad una sola lingua d’elezione. In questo senso, temo che Gadamer sbagliasse profondamente quando lesse alcune poesie di Celan secondo il ritmo quasi protestante del rapporto scandito dalla domanda “chi sono io e chi sei tu,” come recita il titolo del suo famoso libro.