28 Giugno 2019

Il libro del giorno: Hart Crane, “Il ponte”. Elogio del poema misterioso e catastrofico, terminato 90 anni fa, che ossessionò il Rimbaud d’America fino al volo nel Golfo del Messico, diventando il pasto di legioni di lettori-gourmet

Non ciò che ‘conta’ ma ciò che sfugge è l’invincibile cui tende il poeta – perciò, cos’hai di guadagnato dalle fosforescenze grammaticali? Tu vuoi l’infiorescenza della vita – la percussione dei regimi dell’al di là, e vincere la cospicua ritrosia dei morti –, e per dire l’omerico del ponte di Brooklyn, “sonno ondeggiante”, “curva inviolata”, “arpa e altare, fuso dalla furia”, dilati il verso a mistura amazzonica, un rivolo di rampicanti, una rivolta di ritmi. Qui l’arsura biblica – il poema è introdotto da un distico di Giobbe – si fonde al clangore del futuro:

Oh insonne come il fiume sottostante,
tu che scavalchi con un arco il mare
e la zolla sognante delle praterie, slànciati
verso le nostre bassezze, e qualche volta scendi,
e con la tua curvatura presta un mito a Dio.

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Hart Crane, “Il ponte”, Garzanti 1984, per la cura di Roberto Sanesi

Nato il 21 luglio di 120 anni fa, a 30 anni Hart Crane compie l’opera assoluta, The Bridge, muore giovane, per essere scagliato nel mito. Le labbra ampie, gli occhi da leviatano, la pelle pulita e l’eleganza naturale di un ragazzo di buona famiglia ma dall’infanzia elettrificata dal dolore, dicono la disposizione all’assoluto – fino al crollo – di Crane. Harold Bloom, in pagine canonizzate, avvicina l’ardore di Crane a quello di William Blake e il suo lavorio cristallino nella lingua inglese a quello di Yeats e di Wallace Stevens. Quando Garzanti faceva poesia – collana ‘i Garzanti Poesia’ – in una collana dal cui grigiore s’elevava, come un tratto di fuoco bianco, il viso del poeta, fu pubblico, nel novembre del 1984, Il ponte, una antologia di testi di Crane per la cura di Roberto Sanesi. Una precedente edizione uscì, sempre per la cura di Sanesi, nel 1967, via Guanda. Nella folta bibliografia compilata in calce, spicca il nome di Allen Tate, il grande intellettuale e poeta – di cui in Italia si sa nulla –, amico di Crane. Oggi l’opera di Hart Crane è custodita da piccoli, tenaci editori: Mauro Pagliai, che nel 2013 pubblica Il ponte. La torre spezzata, per mano di Giacomo Trapani, e le Edizioni Grenelle che hanno stampato White buildings (2016) e Key West e altre poesie (2017). Vista l’importanza radicale dell’opera, Crane meriterebbe un ‘Meridiano’ Mondadori, con selezione di lettere e testi critici, ma, si sa, in Italia, notoriamente, si pubblicato troppi poeti e si ama poco la poesia.

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Così la prima pagina, riassuntiva, di Sanesi: “110 Columbia Heights: dalla finestra di questa casa Hart Crane guarda il Ponte di Brooklyn. Il ferreo snello passo da una riva all’altra, nel volo dei gabbiani, nell’urlo delle navi nella nebbia, è una sintesi perfetta d’organico e d’inorganico, di concreto e spirituale: Vergine e Dinamo riconciliati, unione dei contrari. Il simbolo di un nuovo mito della grandezza contraddittoria dell’America. Nella tradizione di Whitman… ma con l’apporto eroico e nello stesso tempo angoscioso di un’età diversa. È la primavera del 1923. Hart Crane comincia a scrivere il suo poema… Sette anni di lavoro furioso attorno a un simbolo sfuggente. The Bridge è finito nel 1929. Un’opera, con tutti i suoi squilibri, fra le più rappresentative della poesia americana del Novecento. Ma Crane pensa di aver fallito lo scopo. Quello che si trova fra le mani è un risultato diverso da quello progettato, non lo sa giudicare. Con la coscienza che, comunque, tutto debba essere tentato e ancora legato all’idea di un’America senza confini, terra e mare, storia e leggenda, onnipresente, feconda e distruttrice, cerca altre radici, più lontane. Parte per il Messico, e ancora è sopraffatto – morbosamente – dall’ampiezza del disegno. Riprende la via del ritorno. Il 26 aprile 1932, dalla tolda della nave ‘Orizaba’, si getta in pieno Golfo del Messico. Il suo corpo scompare per sempre. Era nato a Garretsville, Ohio, il 21 luglio 1899”.

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Troppo forte il tentativo di farne un Rimbaud d’America. Ma l’opera, in cambio, chiede sempre la vita, a morsi – per questo il poeta deve lanciare lei fuori dalla finestra per non esserne ulcerato –, ed è moribonda la cerca verso l’oro esotico – e il crollo, da poeta cuneiforme, incuneato in ordite ossessioni. L’etica marina detta da Crane, l’agiografia di Melville che gli rode l’estro angelico – la poesia melvilliana sotto ricalcata è preveggenza di morte per acqua –, se lo divora, il poeta: l’unico battesimo è l’immersione senza ritorno, sguardo ritorto in ostia. A noi il compito di essere squali – veri, con dente affetto da teologia. (d.b.)

***

Sulla tomba di Melville

Spesso sotto le onde da questi scogli vide
dadi di ossa d’annegati abbandonare
messaggi. E mentre egli guardava, i loro numeri
battevano alla costa polverosa e s’oscuravano.

E i relitti passavano senza neppure un suono
di campane, ed il calice funebre rendeva
un capitolo sparso, un geroglifico livido,
il miracolo attorto in spire di conchiglie.

Poi nella quiete circolare di un’ampia voluta,
esorcizzato il flagello e conciliata
la sua perfidia, occhi di ghiaccio levavano altari,
e silenziose risposte scorrevano fra gli astri.

Né quadrante né bussola e sestante
Potranno mai suscitare altre mare…
Alta nei precipizi dell’azzurro
la monodìa non sveglia il marinaio.
L’oceano accoglie solo quest’ombra favolosa.

Hart Crane

*da: Hart Crane, “Il ponte”, Garzanti 1984, trad. it. di Roberto Sanesi

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