22 Gennaio 2024

La Grazia avviene, la poesia si presenta nell’impensabile. Lettera a Paolo Valesio

Caro Paolo Valesio,

il tuo libro (parlo de “Il Testimone e l’Idiota”, La Nave di Teseo, 2022) scardina la forma dal suo stallo, e dissemina, moltiplica, intreccia paradossi, citazioni, significati, vita quotidiana e vita immaginaria, attesa, solitudine, ossessione, sentimenti, affetti, memorie, persino rivelazioni che accadono, innesti di prosa e poesia, accenti imprevisti, sorprese linguistiche, vertigini dell’anima, compassioni, apparizioni…

Ma cosa accade poi quando
la vita causa uno scardinamento?
Per la tua esasperante abitudine
di ricadere in silenzio dopo una frase o due,
i muri della stanza presentano soltanto
glabri volti impassibili.

Così lo spazio poetico è pieno, appare addirittura saturo, raggiunto da un apice di luminosa bellezza, a volte riflesso metallico, attutito da bronzea ombra che prova a risplendere, assorbe la parola fino a riconcepirla, fino a restituirla al suo stato. Parola evocativa, ricercata, gusto della parola che si somma a ricercatezza, e poi eleganza, dietro un zig-zag continuo, un andirivieni incessante, ovunque sia il ritratto del pensiero umano, così prossimo a cadere, precipitare nel suo sentire, in funzione di dire lo stremo di speranza che esiste ancora, ci abita; bisogno del vero, attività non estranea al nominare. Dappertutto occhieggiano cose, si manifestano eventi, sensazioni limite, che non si spengono, anzi, vogliono permanere, quasi in gestualità informali della scrittura, del dire. Il miracolo è la forma dell’antico che ritorna, fa valere il suo canto, sebbene spezzato, convulso, estremo, ansioso, modernissimo, teso a un avvenire. È un libro incalzante, che ci pone senza difese, in quanto smascheramento continuo.

Ma il braccio di Gesù rimane nudo, e quegli anelli debbono esser stati
illusione dell’aria: granulata e rutilante
cortina di perline tintinnabulante
di tanti “clang” silenziosi
che si travedono come
gioielli-essudazioni del calore.

La realtà ferisce, eppure grandeggia di senso negli scorci improvvisi che si aprono a dismisura. Aleggia, comunque, un desiderio di pietà su tutto, che alla fine conduce, produce modello di pensiero profondo, stile del bene, ben fatto. Pietà che fiorisce e allo stesso tempo riconsidera sotto nuova luce l’umano. Dà nuova luce, non si sottrae a tentare di dare nuova luce. Ma incombe sempre qualcosa, e occorre conoscerlo, anche quello fa parte del sapere.

A un tratto, è come se fosse impossibile rappresentare più il mondo, il reale, pur non rinunciandovi. O meglio, il mondo sì, ma non la realtà che a esso è legata, giacché manca una certa sostanza che unisce, sostanza vera per unire, tenere insieme. Il teatro è teatro mentale, perché siamo divisi, noi con gli altri, noi con noi stessi. Niente è più evidente, tutto è nel soggetto, chiuso in sé, a cui è stato rovesciato addosso un secchio colmo fino all’impossibile, materia che appare in forma di magma vischioso, respingente, al limite dell’ambiguo e del disumano. Da lì la pietà, da lì nasce la pietà, che è necessità di nuovo umana, per far sì che non scenda il patetico sulle cose, un velo patetico che impedisce di capire, di sentire; al massimo sopraggiunge, o può sopraggiungere, l’ironia, ma quanto disagio, che asprezza, e che vuoto! Cito da pagina 191: FIAMMINGA / (in un messaggio) / “Tu non hai mai / voluto bene a nessuno – / sei incapace di amare”. // IDIOTA / (era in piedi, ma poi scivola lungo la parete e si siede sul pavimento mentre scrive la risposta) / “Fammici un po’ pensare / per il prossimo anno o due”.

Tutto sembra inutile, eppure tutto è sfida all’inutilità, all’assurdo di vedersi vivere, perché la crisi è visibile, ma non ci interroghiamo più. La crisi dell’intellettuale non ha più senso, è opinione privata, incomunicabile, non serve a nessuno. Dunque scrivere è una prova di resistenza, o è un po’ come quando si è stanchi e per l’eccitazione, ancora viva, non ci è consentito di riposare, non riusciamo. Ecco la letteratura, compensa le nostre mancanze, le trasforma in punti di sutura; la poesia sembra diventare questo, ma allo stesso tempo è un vizio positivo, dell’anima e del corpo, che aiuta, felice di narrare, capace di rompere il muro. Su tutto c’è una parola perenne (la chiamerei così, mi piace chiamarla così, in quanto appare già nata prima del verso scritto, e perciò mai stremata). Un vero poema della sorpresa, dell’esperienza, dell’evento, non intimista; poema drammatico, moderno, urbano, bellissimo, nel segno de La terra desolata, L’età dell’ansia, la grande poesia del Paterson, i Cantos.

Si riconosce il tema della Grazia, “che è quello di un non-abile alla vita” (cit. p. 44), e perché parlando della Madonna si “evoca un’amante / che non era stata calcolata / una sopraggiunta / dopo la fine delle stagioni amorose. / Può una preghiera allora / essere furtiva?” (cit. p. 46). E tutto questo accade a New Haven, nella poesia intitolata “In qualcuno degli anni di New Haven”. È consolante che non si spenga la Grazia, la poesia intesa come dono, rigenerazione, ricominciamento, gratuità. La Grazia che possa raggiungerci dappertutto, in ogni attimo. Come a dire che siamo fatti di questo, per questo. Viene da pensare alla Straniera di Eliot.

Importanti i due testi critici che aprono e chiudono il libro, di Alberto Bertoni e Anna Maria Tamburini, di quest’ultima riporto un brano molto significativo: “Valesio offre peraltro una testimonianza paradigmatica di come si possa fare poesia ai giorni nostri – di come tutto possa e debba farsi poesia aderendo alla vita nella sua nudità, alla parola nella sua nudità, senza scadimenti di alcun genere” (P. 271). I due testi approfondiscono una lingua poetica che è già di per sé profonda, nata in profondità, al suo dire già rivelativa di un’esperienza tracciata negli anni, che è un divenire in corsa, nel mentre, mentre si scrive, di passaggio, fiorisce registrando luoghi e persone, incontri, stazionamenti. La Grazia avviene, la poesia si presenta nell’impensabile, anzi, soprattutto lì! “È più grande del nostro cuore”, si dice a pagina 55, citando San Giovanni.

Il profilo è quello di una tensione in atto, vera forza poetica e dinamica del libro. Nonostante nell’oggi (o da sempre) si senta dire che tutto cambia, il Mistero permane come radice nostra, come impronta di un infinito poetare, frutto di visione spalancata sugli altri, sul mondo.

Vincenzo Gambardella

Gruppo MAGOG