25 Marzo 2023

“Il mondo cercò d’afferrarmi, ma non mi prese”. Vagabondaggio dentro Arsenij Tarkovskij

Al di là del talento poetico, inconsueto, amo la figura di Arsenij Tarkovskij perché ha qualcosa di ritirato in sé, di incompiuto e di imparziale. Presenta un vuoto in cui nessun biografo può fare ingresso. Una cava. È avvolto da velami, Tarkovskij. La sua esistenza sembra svolgersi in una casa accanto alla Storia, una casa con il giardino che non dà sulla via principale. Un giardino in cui festeggiare i propri cinquant’anni, senza che nessuno lo sappia.

Nato in Ucraina nel 1907, a Elizavetgrad – che poi fu Zinov’evsk, poi Kirovo, poi Kirovograd e che ora si chiama Kropyvnyc’kyj: il delirio-eccidio toponomastico cela, meglio di troppi dibattiti, la lotta in atto, da tempo, in quel lasso di mondo –, Tarkovskij ha respirato, per così dire, il lignaggio dei poeti russi dell’era ‘d’argento’. Li ha visti – non vi ha preso parte. È stato l’ultimo, estremo amante-abbaglio di Marina Cvetaeva: a lui, lei, magnificata, scrive l’ultima poesia, nella primavera del 1941; a lei, lui dedicherà molte poesie. Un piccolo ciclo è dedicato al suicidio della Cvetaeva; una poesia, intitolata Elabuga, come il sobborgo dove sceglie di morire la poetessa, suona con questi distici:

“Ti si dovrebbe usare, Elabuga, per spaventare i bambini odiati,
mercanti e briganti dovrebbero giacere nelle tue tombe.

Di quale cigno hai udito il canto prima dell’alba?
Hai udito l’ultima voce di Marina.

Ora, maledetta – com’è che non piangi? –
dovrai brillare come oro: nascondi Marina!”

Lui era giovane, bello, propenso al senso di colpa, lei assatanata, afflitta: si persero quando, incrociando Marina Cvetaeva con la moglie, Tonja, “molto gelosa… Tarkovskij non la salutò” (Serena Vitale). Tonja – o meglio: Antonina Aleksandrovna Bochonova-Trenina – era la seconda moglie di Tarkovskij. Si separarono nel 1946, quando il poeta si unisce a Tat’jana Aleksandrovna Ozerskaja.

Più solare, per così dire, sarà il legame tra Tarkovskij e Anna Achmatova. L’aveva incrociata negli anni Trenta, si frequentarono dal ’46. Arruolatosi volontario per partecipare alla Seconda guerra, in seguito a un’esplosione il poeta aveva perso la gamba. La sua poesia si inscrive in quel viso di terrea bellezza, elementare, ruvida, tra il pope e il boxeur.

In una poesia dedicata ad Anna Achmatova, Il manoscritto – usando, forse inconsciamente, una frase-lascito consegnatagli dalla Cvetaeva: “Ogni manoscritto è indifeso. E io sono tutta un manoscritto” – Tarkovskij si rivela, ultimo tra i grandi: “Sono colui che è vissuto nel proprio tempo/ senza essere sé. Sono il minore della famiglia/ degli uomini e degli uccelli”. La Achmatova cercherà di far pubblicare il suo pupillo. Invano: non erano tempi – quelli come oggi – in cui si dà retta ai poeti, bensì ai poetanti di corte. Arsenij Tarkovskij, tra i poeti più potenti del secondo Novecento, si appresta a pubblicare la sua raccolta d’esordio nel 1946 quando, in seguito a un giudizio della censura sovietica – “Tarkovskij appartiene a quel Pantheon Nero della poesia russa a cui appartengono anche Achmatova, Gumilëv, Mandel’štam e l’emigrante Chodasevič e perciò quanto più talento vi è in questi versi tanto più essi sono nocivi e pericolosi” – la stampa viene annullata e le matrici distrutte. Tarkovskij campa traducendo, l’Unione degli Scrittori gli offre un ricovero, purché non pubblichi, il poeta conosce Boris Pasternak.

Esordisce nel 1962, Arsenij Tarkovskij, a 55 anni, con “Prima della neve”, nell’anno in cui il figlio Andrej – avuto dalla prima moglie, Marija Ivanovna – vince il Leone d’oro con L’infanzia di Ivan (insieme a Cronaca familiare di Zurlini).

Leggendo le memorie di Andrej – i diari raccolti in Martirologio, 2014 – si scopre qualcosa del carattere del padre. Così il regista a proposito della morte della nonna:

“Ricordo che ero con mio padre vicino alla chiesa e aspettavamo di portare via il feretro con la nonna… e mio padre disse: ‘Il bene è passivo. Invece il male è attivo’”.

Andrej crede di essere marchiato da una sorta di insensibilità genetica, trapassatogli nelle vene dal padre:

 “Rimango di sasso e non sono capace di esprimere i miei sentimenti. Il mio amore è, come dire, inattivo. Forse vorrei solo che mi lasciassero in pace, che persino mi dimenticassero”.

Sul corpo morto di Anna Achmatova, nel 1966, fu Arsenij Tarkovskij a pronunciare il discorso funebre. C’era anche Iosif Brodskij, tra gli accorsi, gli accoliti, i discepoli della defunta. Brodskij non ha mai fatto mistero di non sopportare Tarkovskij. Venivano da mondi diversi – nato in Ucraina, in esilio, da genitori populisti Tarkovskij; nato nell’allora Leningrado, da famiglia ebraica marginalizzata, Brodskij – scelsero mondi contrapposti: quando Brodskij atterrò in Occidente, nel 1972, dopo il processo e la prigione, Tarkovskij cominciava a pubblicare con regolarità e ad essere riconosciuto, in Unione Sovietica, tra i poeti eminenti del suo tempo. Come Brodskij – che negli Stati Uniti diventò la voce lirica di una dissidenza antisovietica, imbracciata con la superbia del sublime – anche il figlio di Arsenij, Andrej, preferì l’esilio, dieci anni dopo, nel 1982.

Brodskij andò a ritirare il Nobel per la letteratura nel 1987, quando Tarkovskij compiva ottant’anni: le feste che i maggiordomi di Stato gli medagliarono, non riuscirono a lenire di un’oncia il dolore per la morte del figlio, morto il 29 dicembre del 1986, esattamente sessant’anni dopo Rilke, amico amato da Marina Cvetaeva.

Il tempo, a volte, opera per scavi, calanchi, trincee: benché contemporanei, del proprio vicino, del proprio prossimo, non si sente che l’eco, qualche nitrito sull’erba, gioviali barriti endecasillabi. Brodskij non poteva capire Tarkovskij – e viceversa. L’uno era cresciuto traducendo Auden, leggendo Robert Frost, sotto la fascinazione di Samuel Beckett; l’altro perpetuava l’icona della poesia russa: entrambi, però, riconoscevano in Hryhorij Skovoroda (1722-1794) “il primo grande poeta slavo” (così Brodskij). Pensatore intransigente nato da famiglia cosacca in Ucraina, nella regione di Poltava, Skovoroda, dotato di un’erudizione micidiale – nel suo pantheon di maestri figurano in luogo eminente Dionigi l’Areopagita, Massimo il Confessore, Filone alessandrino, Seneca, Orazio, Cicerone –, professava la presenza di Dio nel tutto, descrisse un percorso estatico-ascetico che consentisse l’unione dell’uomo con Dio, in scacco al mondo. Skovoroda non era un accademico, fa parte della schiera dei rari pensatori che fanno del proprio pensiero una scelta di vita, non derogabile opzione, verbo che si fa legge cioè osso: vegetariano, dedito a lunghi periodi di solitudine, per 25 anni, fino alla morte, praticò l’insegnamento itinerante, l’arte del vagabondaggio. L’epitaffio in cui intinge la propria morte – capitata in cammino, e con la grazia della consapevolezza – celebra la leggenda di Skovoroda:

“Il mondo cercò d’afferrarmi, ma non mi prese”.

Autore di testi lirici e involuti, che esprimono tensione sentimentale verso le cose del mondo e intuito sapienziale, disorganico, in Italia Skovoroda è quasi ignoto – uno studio di Maria Grazia Bartolini, “Introspice mare pectoris tui”, dedicato alle “ascendenze neoplatoniche” in Skovoroda è uscito nel 2010 per la Firenze University Press; il Narciso è edito nel 2018 da Apice –; nel 2016 nei mondi anglofoni è stampata una raccolta, The Garden of Divine Songs, che raduna i testi poetici di Skovoroda.

A Skovoroda, paladino dell’autoperfezionamento, dell’audace battaglia tra le forze spirituali e le forme materiali, Arsenij Tarkovskij dedica una delle poesie più belle:

“L’altero asceta viveva strettamente legato
all’antico libro dei libri, poiché esso è
il prezzario autentico dell’amore della verità
e l’anima del creato.

L’arbitrio trova sostegno nella natura:
la steppa si stende come velluto sotto i piedi,
spolvera il sale di Siva
š
il pane raffermo sulla via dei carrettieri,

gli uccelli pregano fedeli,
rilucono debolmente i fiumiciattoli ciarlieri,
gli animaletti casalinghi
stanno sulle tane ritti come candeline.

Ma al di là delle tentazioni terrene,
delle lettere del suo alfabeto,
riluce un cielo più azzurro dello zaffiro
spalancato alle ali dell’intelletto”.

In una poesia analoga – cito sempre dalla traduzione di Gario Zappi, in: Arsenij Tarkovskij, Stelle tardive, Giometti & Antonello, 2017 – il poeta scrive: “vivevo imitando senza volerlo/ Skovoroda”. In qualche modo, Tarkovskij assume la poetica di Skovoroda: la rende più semplice, con il costume e i capelli all’aria, ancora indecisa se stare su due gambe o svolgersi a terra, come le vipere.

“La poesia è dovunque, dov’è il poeta c’è la vita… Non vi sono poeti che non abbiano amato la vita, per quanto la abbiano vituperata”.

I poeti russi e i romanzieri americani hanno l’ossessione dell’infanzia. Che sia Truman Capote, Salinger o James Agee; Pasternak, Tolstoj o Tarkovskij: ossessionati dal primo ricordo, nitido come la prima colpa, dalla prima parola; come se l’infanzia fosse incisa su un vetro, con un chiodo arrugginito, fosse stata recisa, a brandelli, qualcuno possa spaccarla con una pietra.

Qui sotto si traducono alcune cose di Skovoroda, parabole; qui sopra si è detto di Tarkovskij. Perché? Perché bisogna pur sopravvivere, in un’era di luci nere, frizionando ciò che è bello.

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Skovoroda: parabole

Un eremita viveva in completa solitudine. Ogni giorno, al sorgere del sole, faceva ingresso in un vasto giardino. Nel giardino viveva un uccello bellissimo e silenzioso. L’eremita fissò incuriosito i tratti mirabili di quell’uccello, decise di inseguirlo, gli piaceva farlo e passò così il suo tempo, senza accorgersene.

L’uccello si posava di proposito al suo fianco, lo incoraggiava a inseguirlo: per migliaia di volte sembrò che l’eremita potesse catturarlo, ma ogni volta l’uccello gli sfuggiva di mano.

“Non rattristarti se non riesci a prendermi, amico mio: continuerai a inseguirmi per tutta la vita, perché così ti piace, anche se non mi prenderai mai”.

Un giorno, un amico fece visita all’eremita. Dopo essersi salutati, cominciarono a dialogare. “Dimmi”, chiese l’ospite, “come fai a passare il tempo in questo deserto sonnolento? Io morirei di noia…”. “Coltivo due giochi”, rispose l’eremita, “l’uccello e il principio. Inseguo di continuo l’uccello, non riesco mai a catturarlo. Ho mille stratagemmi stretti in nodi di seta: ne cerco il principio, ma non posso scioglierli”. “I tuoi giochi mi sembrano infantili”, replicò l’ospite. “Ma se sono innocenti e hanno il pregio di divertirti, ti dirò addio”. Così, l’ospite abbandonò l’amico ai suoi principi, ai suoi giochi.

*

Guarda come la natura benedetta governa le cose, impara da essa. Chiedi al tuo rapido segugio quando è davvero felice. “Quando inseguo la preda”, ti dirà. E quando è più desiderabile la preda? “Quando la inseguo”, replica il cacciatore.

Guarda il gatto accucciato di fronte a te. Quando è dell’umore migliore? Quando vaga per tutta la notte o si acquatta in una tana. Anche se cattura un topo, il gatto non lo mangia.

Rinchiudi l’ape pur con abbondante scorta di miele: non morirò forse di struggimento durante la stagione in cui può volare per i prati fioriti? Non c’è nulla di più misero e triste che sguazzare nell’abbondanza soffrendo perché non si ha un lavoro congeniale al proprio talento. Niente è più insopportabile di una mente annientata dall’ignavia, priva di un lavoro che la esalti. Nulla, al contrario, è più bello che vivere secondo natura. Il lavoro del corpo, il dolore del corpo e perfino la morte sono dolci quando l’anima, che signoreggia sul corpo, si diletta in un lavoro che le è congeniale. In questo modo occorre vivere.

*

Non ci appartengono le cose che ci abbandonano. Benché restino con noi fino al giorno dell’abbandono, sappiamo che sono amici infedeli. Un uomo muore a trent’anni, un altro a trecento. Se morire è una disgrazia, entrambi meritano pietà. Per un prigioniero destinato a morire tra trenta giorni non è di conforto sapere che i suoi compagni moriranno fra tre ore. Cosa mi importa della salute se termina nella malattia? Perché dovrebbe interessarmi una giovinezza che partorisce vecchiaia? Non chiamare dolcezza ciò che svolterà in sofferenza. Non considerare permanente ciò che ha un termine e un fine. Non chiamare felicità ciò la gente rigetta. Giudica ogni cosa dal suo frutto, dalla sua fine. Non amo la vita marcata dalla morte, la vita che si fa morte.

Gruppo MAGOG