Visti gli spaghetti western del momento, con sparatorie verso il femminismo molto frequenti (però in semi-clandestinità) e risposte al fuoco altrettanto continue sui media, i bersagli non appaiono reali ma spaventapasseri, quindi «la presa della parola» si trasforma in costrutto depressivo e il parere «super partes» diventa un miraggio. I rischi di una metafisica dei costumi pappagalla e servita «a caldo», sorda ai rigogliosi frutti – pratici/teorici – anche delle scienze sociali e della psicoanalisi, dilagano ogni considerazione nel fango della pusillanimità di accuse e difese. Sopravvive un minuscolo territorio ancora vergine, ai lati del rimbrotto, quello della ricostruzione «a freddo», forse meno consolante in generale, ma così distaccata da riuscire a immaginare sia lo spaventoso mélange di forze antiche, miserabili e irrazionali che agitano le intenzioni, che la loro parziale discendenza da figure santificate per partito preso, apparentemente amorevoli (e, a dispetto delle credenze accusatorie attuali, assolutamente non «con cravatta veterotestamentaria»), nel quadro di violenze simboliche casalinghe, grazie pure agli aiuti dei «maestri del sospetto», fra cui Bourdieu.
Nessun conto qui va pareggiato, perché non possibile: al male fatto da Caio il male eventuale di Sempronio non rende la pariglia e non sminuisce, così ciascuno «fa lo schifo» a modo suo e senza ridimensionare quello altrui. «Cosa succede?!», si grida alla macchinetta del caffè, al mercato e sul treno. La cronaca italiana efferata che riguarda donne uccise da uomini, tradotta negli opinionismi correnti fra ottusità e grossolanità e restituita tramite schede ipertrofiche, perdenti rispetto alla Realtà polimorfa e scivolosa, non permette digestioni e metabolismi dei «fatti», né pare offra vie di uscita utili a mettere le cose in sesto. Fra un relativistico «le ammazzatine passionali sono sempre esistite!» e un rusticano «siamo pur sempre nel Mediterraneo, Signora mia!», il panorama tedia e inganna. Mentre la socio-criminologia arrovella le meningi, nel dubbio che si tratti di tic contemporaneo o «tradizione» sovrastorica, nessuno si decide fra Immanenza e Trascendenza e intanto il cimitero degli ammazzati allarga i suoi confini. L’accanimento di esporre la violenza maschile come esclusivo meritevole di giudizio culturale e morale, lascia scoperto un fianco brutto che sembra voler accomodare e comprendere quando è la donna a uccidere i suoi figli, i suoi nonni o vicini di casa o neonati o chiunque altro, con svariati alibi pedagogici e didattici. Ebbene, cattiveria e violenza sono vera specialità di «casa Nonna Papera» (per la ricetta segreta citofonare Professoressa Austen o Ivy Compton Burnett, Signor Eschilo, Dottor Freud, Monsieur Shakespeare, Sir Ibsen…), insospettabile integrata, lavoratrice o in carriera, così brava a far pranzetti e ricevere ospiti, radicalizzata idealmente proprio dentro la sua casetta, fra amiche e dalla parrucchiera e meno per strada o al calcetto o al pub generico, e perciò meno leggibile da presidi scolastici, media e da polizie e questure. Trattasi di curiosa «attenuante di genere»? Oppure il Male compiuto da grembiuli sporchi di risotto alla pescatora e sugo all’amatriciana è di natura più blanda, o addirittura si potrebbe parlare di messianici «a fin di bene» o «non lo fo per piacer mio!»? Qualcuno domanda se per «difendere le donne!» gioverebbero, insieme ad altre giuste educazioni e attenzioni, meno autoassoluzioni e più manovre autocritiche sul ruolo primario in certi subdoli e prolungati giochi al massacro con Edipo, destinato un bel giorno a rendere la pariglia con la prima o seconda che passa, visto che Gertrude e la Signora Bennet, per definizione, non si possono uccidere. Ma se gli uomini tacciono e ingoiano rospi per quieto vivere, dovremmo dire «poveri loro» o «se la sono cercata!» leur aussi nel farsi dire «ecco qua!», e «imbecilli», tanto quanto quelle che, a detta del Bar Sport Ruttaiolo, escono con la minigonna alle tre del mattino?
Volendo fare tabula rasa e ricominciare da zero in modo da vedere un po’ meglio (ora che le moltiplicazioni di patriarcati allevati a terra, diffusi e a chilometro zero, non solo non bastano a capire, lasciando in mutande, ma consegnano imperscrutate alcune prassi talmente crudeli da rendere perplessi sull’univocità della cause), si potrebbe ricordare che il ruolo affettivo ed emotivo primario lo conquistano spesso le ‘mammà’ e non i ‘papy’, non solo nel proverbiale Mediterraneo (vedi Bergman). Quando è così, quali massicci patriarcati saranno mai stati declamati e poi assorbiti, se molti tristi pater familias, quasi «richiedenti asilo», hanno scelto il mutismo e l’assenteismo o non hanno voluto parlare, e le matriarche hanno avuto il microfono invece perennemente «on», ai ricevimenti dei genitori e in soggiorno, con imposizioni, intromissioni, petulanze e rimostranze e lavaggi del cervello full-time, per promuovere un auspicabile «a propria immagine e somiglianza» nel bravo figliolo e una corretta imbalsamazione per decorosa immagine sociale? Ha fatto comodo agli uomini delegare alcune cose importanti, e ora è troppo tardi per lamentarsi di essere odiati e «non contare niente»? I padri in effetti, invitati gentilmente dalle partner a considerarsi tutto considerato emotivamente e psicologicamente accessori, invece di rifiutare l’oblio, si sono prestati al siparietto, attestandosi a burocrati dei lati aridi del vissuto e frequentando più i divani e i televisori o il lavoro che i pensieri dei figli, disertando la conversazione intima, le confessioni e i contatti che andassero oltre i consigli su caro-benzina, autobotti, cric o dichiarazione dei redditi. «Mentre le mamme compravano calzini, sciarpe e cappottini, i padri russavano in poltrona», direbbe Sora Cecia. In legami passionali e sentimentali di nullo o scarso livello, o anche dove solo uno dei due sia connotato da robusta barbarie, indifferenza e meschinità (virus facilmente trasmissibili), la partita del «potere» e della violenza simbolica tra madre e padre per conquistare attenzioni, rispetto (anche solo formale) e attaccamento, le genitrici la giocano da sempre sui dispotici non detti, sapendo che «gutta cavat lapidem», per cui piccole mosse di tattica generosità condurranno i prigionieri ad assecondare di qua e di là, instaurando poi quell’efficiente esercito di pollastri in un governo definitivo sulle qualità e quantità delle risposte emotive dei figli.
Infallibile Tanatoforìa travestita da sacro amore materno, di cui sono piene le fosse e le letterature; il bacio e l’abbraccio aracnoide della Grande Madre è cosa trita da Freud in poi (Lacan ammonisce circa i disastri qualora «la parola del padre non intervenga a svezzare la madre dal figlio e il figlio dalla madre»), ma anche in tempi antichi i tragediografi greci erano pienamente consapevoli di quali leggendarie cose è in grado di fare una madre grazie alla deprecabile Arte del Senso di Colpa. Ignorarlo, o è malafede o è assenza di «cultura generale», come sconoscere la data della seconda guerra mondiale. Eppure si intende rimuovere questa consapevolezza basica, in grado di evitare visioni parossistiche. Il risultato istantaneo, è la misandria preventiva e globale, che non porterà nulla tranne reparti psichiatrici più affollati e celibati fino all’ultimo, nonché incesti sottointesi e protratti. Ahinoi, non tutti i Telemachi ammutinati hanno avuto incontri putativi fortunati con Professori Keating, nonni migliori dei genitori, ammirevoli amici di famiglia, che potessero integrare con successo una madre più biologica che spirituale o un padre defilato avaro di indicazioni epocali, riferimenti cruciali, «belle immagini».
Nella confusione generale prodotta da «analisi» sempre meno articolate, non si può che tornare a domandare cose apparentemente ovvie, visto che apodissi, asserzioni e pulpiti hanno fallito, nel crescendo di una camera a gas psico-pedagogica. Se il mito del padre è soi disant fascista, quello della madre è certamente bugiardo, filisteo e moralistico. Forse, invece dei ripetitivi e vuoti femminismi vessatori e degli sfottimenti ruttati dei maschilisti fra una pizza e una cozza, si inizia ad avvertire il desiderio di più acume e meno scandalo, di smascheramenti «alla pari» delle squallide intenzioni, più pepe da collocare all’unisono sotto il sedere di tutti i partecipanti. Uomini uccisori, a loro volta figli di donne, potrebbero avere in sé un tilt emotivo e interpretativo abbastanza misogino e fobico, non però consegnato da tv, tik tok, Punti Snai, trapper galeotti, pornografia e «daddy» maschilista, ma sperimentato talvolta grazie a mamme gelose, ossessivo-seduttive, incestuose, innamorate più dei figli che del disprezzabile partner? Se massicci ricatti morali e silenzi indesiderabili di mamme gelose, professioniste in desideri castranti ed egoistiche aspettative, hanno intristito infanzie e adolescenze e pubescenze, quanti danni e risentimenti verso l’altro sesso si saranno prodotti, quali «decentramenti» dell’io e dissesti idrogeologici nella psiche? E che genere di spaventosi transfert e inconsce proiezioni, anche molto ortogonali, potrebbero stimolare a voler «far fuori» simbolicamente non tanto la donna che hanno di fronte, quanto la madre simbiotica che ha soffocato un’espressione di sé (e in qualche caso anche un «modello» di padre?).
Il dossier quotidiano circa un orgoglioso e sistematico punto di vista «rosa», sul mondo, sulla letteratura, sulla società, nella famiglia e nel lavoro, da ficcare a forza dappertutto, è diventato una tra le fonti più continuative e ricche per un fastidio assicurato, svolgendo tanto folklore e molto froufrou intorno a un serio e concreto problema, cioè chi deve rispettare chi e come, e quando e quanto. Non è più doveroso né scontato infatti che sia evidente e pienamente razionale una «questione femminile», se questa viene recapitata ai mittenti sotto forma di sfogo ossessivo, in una «uscita allo scoperto» dal bugigattolo patriarcale con in mano assorbenti e merletti e uncinetti, pretendendo attraverso questi mezzi poverissimi di riemergere dal buio, rileggere il passato e trionfare sulla Storia. I risultati ottenuti non sono molto positivi, se tanta mascolinità ridacchia alle loro spalle stufandosi invece che convincersi della realtà di cose anche molto gravi, al punto che non è chiaro a chi sia rivolto esattamente il grido di stanchezza e sdegno delle femministe o, in generale, delle donne molte arrabbiate: se queste parlano agli uomini, chiedendo ascolto e considerazione (secondo però il respingente format «siamo er mejooo deficienti!»), come potranno quelli presentarsi con piacere all’appuntamento per conversare? Se la convocazione alla «lotta per i propri diritti» avviene cercando maniacalmente visibilità appiccicandosi etichette e sfoggiando distintivi, conducendo quindi a una autoghettizzazione di tipo settoriale, chi risponderà all’appello in cui chi è convocato è simultaneamente invitato ad andarsene a quel paese? Il bisogno di ostentare contrassegni o comportamenti specializzati «al femminile» per marcare un’identità (o diversità?) certificandola inevitabilmente come superiore, nega il bisogno che tenta di rivendicare e squalifica le suf-frangette del Favoloso Mondo di Amelie in una posizione affine a quelli dei disprezzabili «pantaloni». E il «pink pride» sembra un concetto sempre più immaginario e laconico, specie se ritiene di conoscere e preservare lui solo tutta la sensibilità, poetica, etica, artistica, emotiva, a livello mondiale.
Ma se la violenza contro le donne, sanguinaria, reale e documentata, non viene mai mostrata anche secondo il suo altrettanto dolente e veritiero corrispettivo rovesciato, cioè tutto il violento che pure le donne attuano ed esattamente come gli uomini nelle forme più varie, in un’ampia gamma che va dal sottile al clamoroso-sventolato, qualcuno sarà tentato, legittimamente o no, di credere che la si combatterà non per il Male che rappresenta in generale, come prassi e teoria, ma unicamente per quello chirurgicamente ritagliato a suo favore? E quanta violenza (o sadismo infantile) ci sarebbe nel non evitare a tutti il grigiore di comportamenti brutali, ma solo quelli che si autocertificano come più meritevoli?
Secondo i prestigiosi settimanali ed editoriali, bisogna omologarsi agli striscioni e ai berrettini degli stereotipi, e sviluppare fuori e dentro l’impazzato Internet congetture su Lesbia amministratrice delegata di una multinazionale greca, Frida Khalo mandante occulto dello sbarco alleato, Monna Lisa ribelle antesignana delle opportunità pari, interpretazioni su Medea rivendicatrice sindacale della «resilienza» in famiglia, ritratti biografici di Maria Maddalena quale inaspettata scrittrice di romanzi sentimentali, anche in assenza di licenza elementare.
Quante e quali straordinarie, impensabili revisioni postume strategiche e «riletture», sempre più «inedite», «coraggiose» e a furor di popolo, potranno venir fuori dal cappello di studiosi, a riprova del fatto che in realtà Divina Commedia e Iliade non erano scritte da uomini ma da donne geneticamente modificate ad hoc pe ingannarci tutti? E quante decisive «istanze femminili», malevolmente occultate nei secoli dai pater familias, si celano ancora dietro le quinte delle più insospettabili piccole cose, apparentemente marchiate col fiocco azzurro?
In anni che timbrano e tassano tutte le parole e ogni comportamento altrui senza nemmeno più chiedersi il perché, considerandosi in automatico «dalla parte giusta», non si capisce se sarà un bene o no ricordare le mille figure sgradevoli che popolano le scene di ogni giorno, dal tinello al salotto, in cattiverie e sopraffazioni emanate dal cosiddetto gentil sesso. A poco servono gli innumerevoli disegnini, aquiloni, sorrisini, palloncini, ridenti girotondini solidali e grembiulini fatti a mano, per chi non dimentica le numerose acrobazie crudeli della Matrone: strattoni ai loro disobbedienti bambinetti sui marciapiedi, urla militari provenienti dal bagnasciuga («eeesci subitoooo dall’a-c-q-u-a!») indifferenti al pianto, i musi lunghissimi per aspettative tradite in tarda età, i sistematici e sanguinari boicottaggi di nuore, le vendette trasversali, l’insofferenza alla sola idea che un figlio abbia (lato sensu) «una stanza tutta per sé», gli schiaffoni in portineria prima di salire dalla nonna.
Niente di nuovo sotto il sole, almeno per chi ha memoria onesta e non selettiva, ma a quanto pare è obbligatorio il ‘rimosso’ a tutti i costi e praticare indignazione al solo udire queste ovvietà quotidiane (ma Pasolini diceva «chi si scandalizza è sempre banale, e anche sempre male informato»). Come «regolare» quindi una serie di situazioni non divulgate e pubblicizzate da media e opinion leader, ma esistenti e incidenti nella società e nel soggetto? Fare finta di niente o provare timidamente a citarle quando serve? Attualmente, non sembra possibile dubitare del fine amorevole di tante miserie e angherie femminili, mentre è certo che quelle maschili ne abbiano solo uno deplorevole. Le donne sembrano poter offrire una lezione su cosa sia il Bene, possibilmente seriosa o furiosamente ironica, incluse le molte colpevoli fabbricanti di Edipi relitti (come quello di Woody Allen condannato a vedere, anche dopo morta, l’estenuante e repressivo faccione di mammà alto nel cielo, ostinato a perseguitargli le giornate con anatemi e «consigli» per soffocarne la Vita a oltranza).
Rubina Mendola
*Nell’articolo: immagini di Ingmar Bergman e dei suoi film