Per riflettere attorno all’opera intitolata Pietra penitente, può essere utile avvicinarsi alla complessa tradizione che riguarda il simbolo della pietra.
Due brani, di derivazione l’uno ebraica e l’altro greca, sono stati presi in considerazione. Nella Bibbia la prima pietra a venire menzionata è quella che Giacobbe, in viaggio verso Carran, si pone sotto la testa come guanciale per riposare. Giacobbe sogna: “una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo: ed ecco gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa”. Il patriarca, destatosi, conferisce alla pietra i nomi di “casa di Dio” e “porta del cielo”, offrendovi libagioni. Anche il luogo viene ribattezzato e acquisisce il nome di Beth El. Da qui deriva il termine betilo che designa una pietra sacra, ovvero dimora del dio.
Per quanto riguarda la tradizione greca, l’omphalos è la pietra che segna il centro cosmico, ombelico o axis mundi. Il mito narra che Zeus liberò due aquile agli estremi dell’universo: il luogo di incontro dei due uccelli avrebbe segnato l’asse cosmico. L’omphalos è il nucleo su cui viene costruito il tempio di Delfi, dove la Pizia espone i suoi oracoli.
Rispetto alla tradizione ebraica e greca, l’opera di Samorì sembra attuare un capovolgimento di segno. L’artista utilizza una pietra che, spinta sul colore ad olio ancora parzialmente fresco, lo sfalda, generando un’apertura materica sulla superficie liscia e bidimensionale della tela. La pressione viene esercitata dal volto fino all’avambraccio del Santo il quale, con lo stesso gesto di trattenere la veste purpurea, sembra voler raccogliere i resti della sua identità, come chi lavorando un orto voglia collezionarne i frutti nel grembiule. Da luogo di sogno, visione e vaticinio, la pietra diviene in Samorì ciò che nega l’immagine e ne rende la lettura impossibile.
In quanto padre del deserto, San Girolamo è figura dell’asceta che, negando se stesso, si abbandona alla contemplazione dell’immagine divina affiorante nello specchio dell’anima. La luce che colpisce il Santo è funzionale a staccarlo pittoricamente dal fondo; ma, su di un piano che potremmo definire ontologico, essa fallisce nel tentativo di preservarlo dalla negazione che il nero presuppone. Nella grotta il monaco infligge pene al proprio corpo, perde se stesso per trovare Dio. Va notato che qui a venire flagellato è, prima ancora di San Girolamo, il corpo della pittura. Alla pittura, per confrontarsi con la visione, è richiesto di abdicare; l’osservatore prova un senso di disorientamento, ché allo sguardo non è concesso di posarsi sull’oggetto desiderato e, di più, non gli è dato di identificarsi per via simpatetica con il volto di colui che vede. Riflettere sull’etimo di estasi, che indica l’uscire fuori di sé, può aiutarci a comprendere quanto accade in Pietra penitente: se ci viene impedito di identificarci con l’oggetto del nostro sguardo, è perché colui che vede, semplicemente, non è più; non c’è nessuno con cui sia possibile identificarsi.
Testa con lacrima, olio su tavola, 20 x 15 cm
In Testa con lacrima Samorì rende omaggio al Volto di Cristo che Claude Mellan incise in un unico tratto di bulino. Di nuovo l’operazione, rispetto alla tradizione di riferimento, è uguale e contraria, di segno diametralmente opposto. Se Mellan, ruotando la lastra metallica sul cuscino di cuoio, vede generarsi nel suo gesto unitario il segno che forma il volto del redentore, Samorì, con la stessa pedissequa lentezza, contempla l’immagine svanire sotto il proprio sguardo. L’artista assegna un ruolo di primo piano a quella che, nel linguaggio dell’incisione, verrebbe chiamata la barba del legno. Il residuo, lo scarto, ciò che resta di un’immagine, è tutto ciò che viene offerto all’osservatore; come un velo della Veronica che non sappia più restituire la figura di quanto è venuto meno.
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In una conferenza tenutasi a febbraio 2020, organizzata dal DAMSLab di Bologna per il progetto intitolato La Soffitta, Nicola Samorì rassicurava gli scettici tra il suo uditorio che tutte le opere che vediamo lacerate, e distrutte secondo varie modalità, sono state rigorosamente concluse dall’artista.L’opera è sempre compiuta dalla sua mano; né eseguita da terzi, né lasciata incompleta laddove verrà estinta l’immagine. Una simile fermezza ci sembra estremamente chiara: non si ottiene liberazione che nell’immolare ciò che noi stessi si è creato. Affidare l’esecuzione dell’opera ad un artigiano, quindi distruggerla di propria mano, non sarebbe che un gesto vuoto. Affinché il sacrificio possa essere valido è necessario provare amore per l’oggetto sacrificato, in quanto una parte di noi deve morire con esso. D’altro canto, è noto: primogeniti e primizie sono i soli doni ad essere accettati dagli dei.
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Bisogna immaginare la perizia, l’esercizio chirurgico con cui l’artista scava, con una mano armata di bulino, la tavola – badando che la linea prosegua sinuosa- mentre con l’altra accompagna delicatamente la lingua di legno che si solleva. Come altri prima di lui, Samorì ode cantare la voce dei flutti: fare e disfare. Le barbe del legno che campeggiano in Testa con lacrima sono come detriti di alberi maestri restituiti dalle mareggiate; ci sembra lecito supporre che, a fare naufragio, fu una nave avente il nome di Imago. Ciononostante, ci colpisce notare che l’operazione di Samorì disegna al contempo un’impronta umana, come se l’artista, nell’incessante sforzo di cancellare la propria opera, e con essa se stesso, non possa far altro che constatare il fallimento dei propri intenti. Egli è perseguitato dal suo essere soggetto, individuo, uomo. Come i mistici che rappresenta, Samorì è costretto a sperimentare il ritorno nel tempo che segue ogni estasi. Il tuffo nell’indistinto non dura che un istante. Forse, la lacrima, che dalla caruncola dipana la spirale iconoclasta, non indica altro che questo: il dolore, già noto al principio di ogni esercizio meditativo, del dover fare ritorno alla propria persona, che è maschera e rappresentazione.
Ultimo sangue, olio su onice, 40 x 29,5 cm
Costruire l’immagine a partire da un vuoto, tale sembra essere il presupposto che si agita dietro Ultimo sangue. La ferita dell’onice diviene la ferita del Cristo, l’icona nasce dalla lacerazione. È come se davanti ai nostri occhi avvenisse un parto, l’apertura nel costato è la vulva da cui l’immagine origina. Cristo ha appena preso forma ed è già frammento di rodiniana memoria, dove nascita e morte combaciano. Non ci è concesso, di nuovo, alcun volto da venerare. Parlare di sineddoche qui rischierebbe di indurci in errore, ché proprio quel tutto a cui la parte dovrebbe alludere è ciò che viene tragicamente a mancare.
Corpo e piaga; come novelli San Tommaso vorremmo avvicinare l’indice alla ferita, sebbene la nostra incredulità sia rivolto alla sostanza materiale dell’opera, più che ad una possibile resurrezione del Cristo. È una pittura o una scultura quella che vediamo? Un’opera come Ultimo sangue dimostra fino a che punto Samorì abbia assimilato la lezione barocca o, più specificatamente, di Bernini. La critica parla di bel composto quando più arti collaborano a creare un effetto di illusione; com’è noto, la massima espressione di tale tecnica si ha nella Cappella Cornaro, opera del suddetto autore. Qui il marmo scuro delle colonne instaura un dialogo di intensità drammatica con i corpi, di Santa Teresa e del cherubino aleggianti su una nuvola, resi nel marmo bianco di Carrara; questi stessi corpi risaltano dal fondo iridescente d’alabastro. Infine, è la fonte luminosa celata dietro il frontone dell’edicola a suggellare l’effetto d’insieme. Architettura, scultura e pittura (intesa soprattutto come armonia cromatica e di luce), sono orchestrati in un risultato abbacinante. In maniera analoga, Ultimo sangue sposa le possibilità poetiche della scultura alla pittura: la concrezione dell’onice, di ruvida matericità, interagisce con la stesura liscia della pittura dando vita a uno spiazzamento semantico.
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Se l’opera di Samorì è un continuo rimando a ciò che manca e a ciò che è venuto meno, possiamo spingerci a segnalare un ulteriore assente, ovvero il Longino. Secondo la tradizione apocrifa, il centurione trafigge il costato di Cristo per verificarne la morte, facendone involontariamente scaturire sangue e acqua. Egli viene spesso identificato con colui che, riconoscendo infine la natura divina di Cristo, pronunciò le parole: “vere iste Filius Dei erat”. Dunque, un attimo prima che questi sia spirato, Longino può riscattare il suo peccato acclamando il redentore. La stessa possibilità, nell’opera di Nicola Samorì, è fermamente impedita all’osservatore. Per comprendere in che modo, dobbiamo compiere un passo indietro, tornando a riflettere attraverso il lavoro di Bernini – il XVII secolo, d’altro canto, è notoriamente fra le epoche più amate dal pittore.
Consideriamo il David, soggetto mitico scolpito da Bernini nel vivo dell’azione: con la bocca serrata, la fronte corrugata in uno sguardo di intensa concentrazione, il corpo teso nell’elastica torsione, l’eroe mira al gigante, Golia, che deve essere immaginato nello spazio dell’osservatore o, in maniera più radicale, che deve essere identificato con l’osservatore stesso. Sebbene in Ultimo sangue non sia altrettanto possibile parlare di un movimento che invade lo spazio, possiamo notare che allo spettatore viene rivolto un invito analogo, ossia riconoscersi nel personaggio mancante. Qui, se a fare da protagonista è la ferita, chi manca è appunto il Longino. L’opera mette dunque nelle nostre mani la lancia, ci invita a ripetere il gesto di chi affonda la lama nella carne. Al contempo, eliminando il volto del Messia, e con esso ogni traccia della sua natura umana, ci cala nella tragica condizione di non poter ripetere l’adagio salvifico: “vere iste Filius Dei erat”.
Lorenzo Orazi