Io Natalia Ginzburg non la sopporto. Niente mi piace di lei, come pensa, come scrive, come veste, come è. La sua prosa a cantilena mi innervosisce, le sue parole mi intristiscono, il suo giornalistico dare un colpo al cerchio e uno alla botte mi scatena piani omicidi. Per non parlare delle sue ‘idee’ politiche, la summa del sentito dire, del nulla da dire ben dissimulato da pacifismo, a schermo di un credo comunista morto stecchito.
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Eppure, la leggo. Dimmi se non è potere questo. La leggo, e se devo dire con quali pagine ho passato ore fattive, devo in tutta onestà includerci anche le sue. È come diceva Sartre, come mi ha insegnato lui, bisogna leggere chi ti è agli antipodi, ti è ostile, e non ci andresti mai a cena. Così in biblioteca, invece di studiare, stavo a leggere lei, che mi aveva legato, con quel suo È stato così, e qui è vero, e le va riconosciuto: come su carta, con l’inchiostro, ammazza gli uomini la Ginzburg, nessuna mai. Gli spara, li uccide e li odia, come odia la famiglia, e la fa a pezzi dopo averla processata, e non lasciarti incantare da Lessico Famigliare, ma quale agiografia, è libro di vendetta, di furente protagonismo, è Natalia che nella sua storia ti fa credere che quasi non c’è, si nasconde, e invece è lei la luce, la star, non sulla scena ma dietro, è lei la regista di personaggi ridotti a manichini, sgonfi, appiattiti alla dimensione di un tic, di un modo di esprimersi, o di muoversi. E io, quanto ho odiato Lessico Famigliare? Tanto, l’ho odiato, ma fino a gettarlo al muro, te lo giuro, e per quel suo “diceva” ripetuto ossessivo, da presa in giro, lessico che a tratti ti fa temere la lallazione, insopportabile, e quei detti idioti, che ti intasano la testa, “tutta di lana Lidia!”, ma che caz*o frega a me di quei proverbi lì, e poi, fammela dire tutta, quando tra quelle pagine qualcosa di grosso accade, arriva la Storia, arriva Turati, Leone Ginzburg, allora Natalia non scrive più, si ferma, dove ti interessa non va oltre, per sapere dell’agonia di Leone bisogna aspettar la Fallaci, recuperare quell’intervista alla Ginzburg del 1963, per imparare cosa può essere il buio ma quello violento, e l’esser soli, dimenticati, e cosa sia la lealtà a un Paese che quasi non è il tuo e non ti merita, e ti scorda e ti tradisce il giorno dopo che gli hai sacrificato la vita.
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E però: l’ho ripreso in mano, quel Lessico maledetto, tempo dopo, superando la nausea di quella nenia scritta, interminabile: ne ho compreso d’un tratto la paura, immagini di terrore che mi sono rimaste addosso, sul corpo, come graffi, frasi che ti si inchiodano in mente: quella scena dei panni stesi, a Roma, Piazza Bologna, panni che volano giù, e lei scende a riprenderli, e in quel volo, tra quelle scale, capire, respirare quell’angoscia, come fosse la tua, e la mancanza di dignità di donna che segue, il chiedere aiuto a chi non conosci, e scappare, dormire, per strada, nell’assenza di ogni pudore, intimità, decenza. La paura che ti vengano a prendere e portarti via, che ti rimane dentro, per sempre, negli occhi allo spioncino di chiunque venga a suonare alla tua porta, anche di chi aspetti, di chi sei tu che hai invitato.
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Natalia Ginzburg non sapeva cucinare, guidare, tenere chissà che conversazione, si addormentava nel bel mezzo di un discorso. Credeva nei tarocchi, vendeva copie a caterve, e se la fermavano per strada per salutarla si stupiva che la riconoscessero. Usava – e male – la macchina da scrivere e solo per gli articoli, ma ogni suo libro lo scriveva a mano, seduta in poltrona, a penna biro per una grafia enorme e infantile su fogli di carta bianca. Appena le scoppiava in mente e tra le dita una storia, caffè e una sigaretta dopo l’altra, rigorosamente senza filtro, dalle 4 di mattina fino a sera tardi, “strappando in fretta quel che c’è da strappare prima di essere stritolati”. Quando scriveva, Natalia Ginzburg era come posseduta, in stato di trance, e i personaggi non li inventava, non li creava, erano loro che le si affollavano intorno, la assediavano, a rivelarle parole che lei raccoglieva come foglie cadute lungo la strada: è tutto in La Corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg, la biografia di Sandra Petrignani. L’ho appena letta e non cambio idea, mi riconfermo nell’abisso che separa me e Natalia Ginzburg politicamente e nelle faccende di letto e di testa più importanti: io non do fiducia a chi non capisce Philip Roth, o si permette di rompere l’anima a Moravia perché scrive di sesso, lo rimprovera di scrivere di sesso, e di dare pensiero, voce e anima al suo pene, come fa appunto Moravia in Io e Lui. Io do zero fiducia a chi non piace la Nutella, a chi scrive che i film di Bertolucci sono “falsi morti vuoti”, e che Ultimo Tango a Parigi è “ciarpame di bassa letteratura”: perché, cara Natalia, se non ti si contorce nel sesso Brando in Ultimo Tango, mi sa che qualcosa che non va ce l’hai..!
Però: con stupore ho scoperto che in certi punti Natalia Ginzburg mi sta vicino, e non solo nel rifiutare ogni femminismo, ma pure nel nascondere il dolore, lei che diceva che la sofferenza è simile a una vergogna, non è fertile, non va divisa con gli altri, ma che appartiene a noi, solo a noi, e deve morire con noi. E poi, quel suo Discorso sulle donne, quel nostro cadere ogni tanto in un pozzo, ovvero soffrire di un dolore solo nostro, ancestrale, dolore che ci portiamo generazione dopo generazione, dolore che hanno tutte, in modo diverso ma tutte, dolore figlio di secoli di tradizione, soggezione, schiavitù, e dolore “che non sarà facile vincere, e che sarà difficile liberarmene mai. Un essere libero non casca mai nel pozzo ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo e si occupa di se stesso solo per sforzarsi di essere ogni giorno più libero. Così dovrò imparare a fare anch’io per prima perché se no certo non potrò combinare niente di serio”.
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(Senti: ma tu lo sapevi che Natalia Ginzburg ha avuto una storia di sesso con Quasimodo? Io no. Hai capito, la suorina! Lei era vedova ma lui sposato e si incontravano negli alberghi di Genova i più infimi, si scrivevano di nascosto, e la Ginzburg ci ha pure pianto, per lui, perché credeva d’essere importante, non una tra le tante, quando lo sanno tutti e non oggi ma già al tempo, che per Quasimodo valeva il motto ‘ogni lasciata è persa’, lui che se le faceva tutte, sempre, e sempre più d’una per volta).