«Je suis l’Empire à la fin de la décadence, / Qui regarde passer les grands Barbares blancs / En composant des acrostiches indolents / D’un style d’or où la langueur du soleil danse». Ovvero, nella traduzione di Luciana Frezza: «Sono l’Impero alla fine della decadenza, / che guarda passare i grandi Barbari bianchi / componendo acrostici indolenti / dove danza il languore del sole in uno stile d’oro». Così recita la prima strofa del sonetto Languore (Langueur), raccolto in Jadis et naguère di Paul Verlaine.
Nessun popolo come quello francese – intendo il popolo delle lettere – è stato così potentemente contagiato dall’ossessione della decadenza negli ultimi due secoli. Credo lo si spieghi bene con il fatto che la Francia è stata la terra che 231 anni fa ha partorito la Rivoluzione con l’iniziale maiuscola e, con essa, la Modernità con l’iniziale altrettanto maiuscola. La rivoluzione del 1789 ha posto fine alla monarchia che, più di ogni altra, si era approssimata al suo idealtipo assolutistico, quanto meno nella retorica e nella capacità di auto-rappresentazione. Furono i rivoluzionari dell’estate di quel fatidico anno a bollare come Ancien Régime, nel senso di così vetusto da essere anacronistico e da rottamare senza sconti né rimborsi, non soltanto un sistema politico e sociale, ma un’intera epoca, addirittura potremmo dire un universo mentale e culturale in senso antropologico. Fu la fine dell’età feudale e l’assunzione della modernità, del proprio presente, come inizio di una nuova epoca, diametralmente opposta alla precedente. Non solo materialmente diversa, ma persino moralmente. Il bene che trionfa sul male, la giustizia e l’equità sul sopruso e il privilegio. Non fu subito chiaro, anche se l’entusiasmo ben presto divampò fino alle stelle, ma la consapevolezza che nulla sarebbe tornato come prima lo compresero anzitutto i più acerrimi avversari della rivoluzione. Furono loro a segnalare a fautori e simpatizzanti della rivoluzione che il padre era morto, con tutti gli avi e il passato ingombrante, d’un colpo liquidato, così che il figlio si auto-fondava e s’intestava l’intera ipoteca sul futuro.
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La letteratura sulla decadenza ha continuato ad avere in Francia la propria patria d’elezione anche dopo che la Germania ha visto l’autoctona Kultur soccombere alla Zivilisation nella battaglia campale seguita al 1789 e durata circa centocinquant’anni. Tutt’ora regina sul tema, si pensi solo a Michel Houellebecq o Éric Zemmour tra i tanti, proprio in materia di decadenza la saggistica letteraria e filosofica d’oltralpe si è mostrata sovente trasgressiva rispetto al discrimine destra/sinistra. Figura esemplare di questi frequenti oltrepassamenti compiuti in nome dell’antimodernità e dell’ossessione per la decadenza è Jean Cau.
Segretario di Jean-Paul Sartre dal 1947 al 1956, enfant prodige della sinistra francese, ad un certo punto libera la propria sensibilità da sovrastrutture ideologiche e mode intellettualistiche, elementi estranei a ciò che istintivamente sente. E passa il guado. A destra? Alcune idee o, com’egli avrebbe preferito dire, alcune esigenze naturali lo avvicinano chiaramente alla tradizione del pensiero controrivoluzionario francese, con in testa un Joseph de Maistre. Ma oltre all’ordine e alla sua affermazione, Cau ama la negazione quando l’ordine è oramai rugginosa impalcatura che cerca di nascondere la decomposizione. È un “barbaro” che ricorda il nietzscheano uomo non corrotto dagli ideali ascetici e che perciò dice sì alla vita. L’avversione nei confronti della modernità democratico-borghese e di ciò che essa comporta (in una parola, la decadenza) lo apparenta ad una schiera di autori, fra loro non sempre sovrapponibili, ma tutti comunque distanti dalla sinistra marxista e socialdemocratica.
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Allora Cau è di destra? Lasciamo rispondere il diretto interessato: «non si sfugge a questa oscillazione tra sinistra e destra – destra e sinistra – e a nulla serve urlare che non sono un pallone da football volteggiante da una parte all’altra del campo e preso a calci dalle due squadre: i giocatori sono sordi». In Contre-attaques, saggio il cui manoscritto aveva consegnato ad Alain de Benoist nel 1993, poco prima di morire, dicendo «È un testo per voi, fatene ciò che volete», Cau dichiarava di non avere un’ideologia, una teoria razionale con la quale orientarsi nel mondo orientandolo, ma piuttosto «un modo di vivere [ch]e partecipa più della vita che della ragione». Su Cau non esercitò particolare attrazione nessun modello politico, semmai a dominare nella sua opera è sempre stato l’elemento estetico, poiché la vita è solo una questione di stile e «l’uomo di stile non propenderà per nessuna» delle due parti in cui abitualmente si articola il gioco parlamentare; «gioiosamente o cupamente si porrà al di sopra, per elegante esercizio della sua volontà libera e per naturale inclinazione a una solitudine che rompe solo per decisione e per scelta». Se proprio volessimo azzardare una definizione, sempre e comunque insoddisfacente, potremmo parlare di un esteta anarchico, di una destra “strettamente personale” che detesta la politica democratica e ama la dea pagana della bellezza. Un pagano è stato il brillante saggista francese, nel senso etimologico, arcaico e un po’ idealizzato della parola: l’abitante del pagus, del villaggio, il contadino in comunità di tradizioni pervicaci ed immani fatiche sopportate.
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Cos’è, in conclusione, la decadenza per Jean Cau? Proprio nelle pagine consegnate ad Alain de Benoist come testimone in un’ideale staffetta così rispondeva: «C’è decadenza quando una civiltà non risponde più, quando non ha più capi che portino in loro la certezza e pronuncino la decisione. La civiltà non ha più preti per lodare un Dio (qualunque) e affermarlo vero». Manca la fede in ogni dove e soprattutto nella verità. Tutto si liquefa, tutto svapora e la libertà concepita dal nuovo borghese scaturito dagli sviluppi della rivoluzione del 1789 ha come compito «la trasformazione di tutti i vincoli responsabili in rapporti contrattuali con possibilità di rescissione», per dirla con le parole vergate da Ernst Jünger nel 1932, quando nel suo Operaio trasfigurava configurazioni marxiane entro nuove forme guerresche di milizia tecnocratica del lavoro. È per questo che la prima parte di Contre-attaques si compendia in un Elogio sconveniente del pesante, tutto giocato sui significati reconditi dei termini «leggero» e «pesante». Nel ripensamento di Cau il primo di essi ha a che vedere con l’effimero, mentre il secondo fa pensare a qualcosa di duraturo. Dallo specchio della mattina davanti a cui ci si rade con rasoi Bic, al parabrezza dell’auto che corre per le autostrade bagnate dalla pioggia, dal confronto con se stessi alla visione di ciò che è fuori: ecco come nasce quell’elogio sconveniente, un flusso di pensieri non ortodossi che compiono scorribande nella mente di Cau e dei suoi lettori.
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Pesante era la vita quando era una cosa seria, fatta di fatica e sudore quali uniche monete di scambio per la sopravvivenza. Lo ricorda il bambino che andava al pozzo e se ne tornava a casa con due secchi pieni d’acqua. Perfino l’acqua era una conquista, frutto di una lotta o quantomeno di uno slancio, di una tensione nella coscienza, di un atto di volontà (propria o di altri, qui non conta). Compiere un sacrificio significava ricevere ricompense, materiali o morali. O entrambe. In ogni caso, rendevi sacro il tuo tempo e il tuo spazio. Entrambi prendevano consistenza e splendevano.
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Senza dubbio in questa rappresentazione cova della nostalgia per il bel tempo andato. È l’amarcord di chi, nato da umili origini, ha vissuto in una società già industrializzata, ma in cui l’agricoltura e la connessa cultura contadina svolgevano ancora un ruolo di primo piano, formavano coscienze e irrobustivano nervi. Cau è appartenuto ad una generazione, quella nata negli anni Venti (lui era del 1925), che assistette, specie in Europa, a trasformazioni tanto rapide quanto radicali: «Basta avere vissuto mezzo secolo per fare paragoni tra ciò che è stato e non sarà più. […] E il tempo, che andava al passo del cavallo, ora corre più veloce del suono. Oramai anch’esso viene consumato dalla velocità». Tutto così scorrevole in un batter d’occhio che l’intero mondo si alleggerisce. Così non è, in realtà, e l’attuale crisi della globalizzazione lo conferma, ma in tal senso s’illuse un’intera generazione nutritasi di un cocktail mortifero, che è nato, scrive Cau, dalla mistura esplosiva di cristianesimo, marxismo e freudismo. La bevanda così ottenuta ha un retrogusto amaro ed effetti deformanti in chi la ingurgita. Ne vien fuori una creatura abnorme e insidiosa, dotata di tre teste: «il professore di psicoanalisi cristiano di sinistra ex sessantottardo».
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Le pagine di Cau proseguono tra eccessi e divertissement, in perfetto stile da saggista francese, sempre un po’ flâneur. L’estremo che Cau costeggia merita uno sguardo da parte di quel lettore che comunque è in cerca di antidoti al sonnifero della pseudocultura che domina il nostro presente. Pagine consone al lettore conscio dell’importanza civilizzatrice del restare svegli. Ecco il motivo per cui le parole testamentarie del francese risuonano a distanza di quasi trent’anni. «Ragazzi del 2000, che cosa diventerete senza le vecchie fedeltà?», si chiedeva allora, nel 1993, ci chiediamo noi oggi, nel 2020. Secondo Cau, «creperemo a forza di essere falsi americani». Virulento è l’antiamericanismo che percorre le pagine di Contre-attaques. È un’invettiva che non conosce misura. Ma Cau si mostrava conscio della grave corresponsabilità delle élites finanziarie e politiche che governavano l’Europa, soprattutto a partire dagli anni Settanta. In effetti, le cause di una colonizzazione, qualunque forma essa assuma, vanno ricercate non solo nella forza del conquistatore ma anche nella debolezza del conquistato, quando non nella sua complicità co-interessata. Come funziona la colonizzazione culturale? «Il procedimento è semplice: si spezza per meglio fondere in uno stesso crogiolo i frammenti ottenuti». Spezzare le fedeltà, i legami, la lealtà e il rispetto che onora e quell’adempimento della consegna affidata che nobilita l’esecutore, lo eleva.
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Vogliamo chiudere con un ultimo contrattacco, tra i molti che Jean Cau sferra. È riservato all’impatto di una cultura video formata sull’umano contemporaneo (siamo nei primi anni Novanta, è bene ricordarlo): «La TV (e siamo solo all’inizio dei suoi danni) l’abbrutisce lentamente ma sicuramente. O l’addormenta in un sonno ebete; o lo rimpinza di sogni pazzi che lo destabilizzano nella sua stessa carne. E qui nomino l’erotizzazione di massa. La sua enorme stupidità denudata. La trasformazione della donna in stupida polpa. […] Questi corpi non hanno più anima. […] Siamo seri: l’erotizzazione di massa conduce la massa alla solitudine. All’amarezza di vivere vite la cui inevitabile banalità pian piano dà la nausea e – senza sapere perché, essendo la testa senza difese – la disperazione». Non credo serva altro ancora per invitarvi a leggere Jean Cau.
Danilo Breschi