Appartenevano a epoche diverse, a civiltà contrapposte: la letteratura li unì in una sorta di fratellanza. Nato a Pietroburgo nel 1899, Vladimir Nabokov ottenne fama imperitura con Lolita, pubblicato a Parigi nel 1955, tra le urla dei moralisti, dalla The Olympia Press di Maurice Girodias, casa editrice che rimestava tra romanzi estremi, godendo di ampio scandalo (pubblicavano Henry Miller, Jean Genet, William S. Burroughs, e l’opera omnia del Divin Marchese come totem). Nato alla periferia di Manchester nel 1917, Anthony Burgess esordiva l’anno dopo, nel 1956, con Time for a Tiger, il primo tomo della ‘trilogia malese’. Furono entrambi magnificati e sintetizzati dalla censura: ciò che accadde a Nabokov con Lolita, fu ribadito da Burgess con Arancia meccanica, pubblicato nel 1962 da William Heinemann. “Entrambi i romanzi hanno galvanizzato la reputazione dei loro autori; entrambi subirono accuse di oscenità; entrambi furono tradotti in film da Stanley Kubrick” (Graham Foster). Allo stesso tempo, quei romanzi hanno vampirizzato i loro diversamente geniali autori: pur nel gorgo di un’opera poliedrica e vasta sono, troppo spesso, schedati per quell’unico romanzo. A Burgess garbava Nabokov: estroso, elitista, antipatico come lui. Erano entrambi equilibristi del verbo: solo che se uno – Burgess – gioca al clown, l’altro – Nabokov – è il proprietario del circo. “Mi sembra interessante notare che due dei romanzi più straordinari di questo secolo – Ulysses di Joyce e Lolita di Nabokov – si siano guadagnati una degna condanna morale, proprio come Arancia meccanica. Pare che il romanziere interessato alla lingua sia anche interessato alla vita – un po’ troppo, latrano i censori”, ha scritto Burgess, a cui piaceva fare il terzo, comodo, fanatico di Joyce e ammiratore di Mr. Vlad. “Non ho subito alcuna influenza da Nabokov”, si difendeva, “anche se ammetto che nessuno scrittore negli ultimi dieci anni o giù di lì mi ha altrettanto impressionato”.
Nel 1970 la raffinata rivista statunitense “TriQuarterly” realizzò un numero speciale for Vladimir Nabokov on his seventieth birthday. In copertina spicca una foto di VN, visto dal basso: calzoncini corti, berretto con visiera stretta, ha le mani in tasca, il retino per le farfalle appoggiato alla coscia, fissa l’orizzonte, a destra, severo. Al regesto di studi importanti – di George Steiner e Robert Alter e Alfred Appel, ma anche di Nina Berberova e di Vladislav Chodasevič e di molti altri – fa specchio un album di tributi, dove, tra John Updike, John Barth e Alfred Kazin, spicca questa poesia di Burgess. In sostanza, la poesia è un gioco verbale, in cui Burgess imita i toni e i metodi di Nabokov (non solo a livello linguistico: si cita la ninfetta, il maniacale amore per gli scacchi, e Shade, protagonista di Fuoco pallido). “La poesia è una specie di bizzarro, tonificante, ruvido cocktail, un po’ aspra lettera un po’ esibizione di Burgess, un gesto di ammirazione, infine, rivolto a Nabokov” (Carol Rumens). Nell’anno in cui scrive la poesia – ora raccolta nel sontuoso volume che raduna i Collected Poems, edito da Carcanet – Anthony Burgess abitava a Malta. Monarchico e cattolico, conservatore, Burgess era fuggito da UK per non pagare le tasse che il governo aveva affibbiato ai troppo ricchi. Scappò anche da Malta, proprio nel 1970, perché alcune esternazioni pubbliche contro la censura di Stato avevano irritato il governo, che aveva sequestrato e stava valutando i suoi libri. Burgess si trasferirà a Roma e a Bracciano: nel 1971 il governo maltese ingloberà la sua casa sull’isola. “Chi ha ritenuto Lolita un libro pornografico non ha letto altro che il titolo. Il romanzo è davvero scioccante, ma lo è stilisticamente. I lettori cresciuti con una dieta culturale più parca furono doverosamente sconvolti da quella miscela di ironia, dandismo, eleganza vertiginosa, inadatta a un’epoca di grigia prosa e di grigio impegno sociale”, disse Burgess. Nella poesia parla di Malta come del suo esilio: condivideva con Nabokov anche il fatto di essere uno scrittore osteggiato da troppi.
**
A Vladimir Nabokov per i suoi 70 anni
La bellezza di quella ninfetta sta poco nel corpo
Più che altro è nel suo nome, annuncio di due allofoni,
Verità scarnificata che si scava lentamente
Lungo tutta la cantilena registrata.
Estrudere un semino arancio dalla strada
Per farlo diventare una stelletta che ti appiccico didietro,
Solo nel regno dell’ombra, nel reame di Shade
Si ripaga un pannolone appena restituito.
Simili speculazioni pepano il mio esilio,
Che sopporto meno stoicamente di te.
Guardo inacidito i miei limoni
Inchiodato dal Qs e dallo Xes dei maltesi
E mi domando: questa è casa? dov’è la casa?
(Grotte di Melita, alveare di Calipso).
Vedo un segno o un segnale. E di fronte
Il droghiere con un gatto che ama sedersi
Sulla bilancia. Rispettando il suo riposo,
Un giorno lo ha pesato: vale solo due rotoli.
In questo palazzo il legno si sfrangia e cade;
Gli autobus bussano allo stucco dei muri,
Sbrigati a sbattere le persiane. Barcollano e tossiscono
Eppure sono reclinati in un silenzio da chiesa,
Rock nel Barocco: le spade di Teresa trafiggono
Il Sacro Cuore sul cruscotto, quindi
Con colori da circo puoi leggere
Quel verbum caro factum est. Proprio così.
Il verbo è tutta la carne di cui ho bisogno –
Il suo sapore, senza le vitamine del senso
Se poi esiste un senso. Mi piace il recinto
Bianco e nero che racchiude quei tori –
Crossboard o scacchiera. Adorabile dono di Finn –
The crossmess parzel. Se le parole non sono più
Che pyoshki [pedine], preordinate alla profezia,
Al di là del loro passo di danza, sono le sole
E non certo la Camera Alta, a poter rivendicare un trono
(Che esplodano per prime le riviste secolari
E lo sbuffo dei vescovi). Tutti infestati di regine
in potenza, a quel desco. Bene, eccoci:
Mi hai aiutato a contrastare i burocrati
Con contatori che sono conti, contee. Auguri
Per leggerli: Caro Verbum Facta Est.
Anthony Burgess