13 Febbraio 2025

Tra il cilicio e l’estasi. Le mistiche, cannibali del buon senso, donne-angelo violente e bellissime

Giacobbe si spaventò molto e si sentì angustiato; allora divise in due accampamenti la gente che era con lui, il gregge, gli armenti e i cammelli. Pensava infatti: “Se Esaù raggiunge un accampamento e lo sconfigge, l’altro si salverà” (Genesi 32).

Volti di donne che mi spaventavano a morte, mistiche penne brandite come lance ancora macchiate dal sangue divino, arrivavano a trafiggere perfino Lui. Una alla volta mi sono venute incontro, non finivano mai, invasione barbarica, io a tentare di mettere in salvo, in ridicoli monasteri fortezza, il mio quasi niente fatto di bassa teologia e romantica esegesi. Come quando Giacobbe sente l’arrivo dell’esercito di Esaù, perché anche loro erano mistico esercito, come quattrocento soldati, e io impaurito, angustiato, dividevo me stesso in accampamenti minori per mettere in salvo almeno qualcosa.

Da una parte il pensiero, mi dicevo, lo studio, il ricordo di un cristianesimo spacciato a pienezza dell’antropologico, dall’altra i piani pastorali parrocchiali e il vangelo addomesticato in pseudo cultura imperante, da un’altra ancora la testimonianza di amici che nel cristianesimo avevano trovato il loro posto nel mondo. Non potevo perdere tutto, mi dicevo, la minaccia era altissima. Intanto l’orda incontenibile fatta di carne massacrata e innamorata, incandescente, calava verso di me. Cannibali del buon senso, disadattate votate all’Invisibile. 

Salvami dalla mano di mio fratello, dalla mano di Esaù, perché io ho paura di lui: che egli non arrivi e colpisca me e, senza riguardi, madri e bambini! 

Come Giacobbe anche io ho avuto paura. Di rinnegare la mia storia, di dover accettare di aver fuggito con codardia un modo diverso di credere, di averlo perfino esorcizzato pur di tenerlo a distanza. Certo che c’era attrazione per quella fede senza mediazione, certo che c’era curiosità per una preghiera carnale e totale. Ma io l’avevo confinata nel recinto della superstizione magica. Tradendo il sacro difendevo il mio posto nell’istituzione.

Intanto, come Giacobbe, chiedevo a Dio e a me stesso il perché di questa prova.

Giacobbe rimase in quel luogo a passare la notte. Poi prese, da ciò che gli capitava tra mano, un dono per il fratello Esaù: duecento capre e venti capri, duecento pecore e venti montoni, trenta cammelle, che allattavano, con i loro piccoli, quaranta giovenche e dieci torelli, venti asine e dieci asinelli. 

Ammansiamo la loro rabbia, disarmiamo il loro erotismo, mi dicevo, proviamo a setacciare dalle mistiche parole solo l’essenza di un messaggio. Ma così perdevo tutto, rimanevo a mani vuote, tradivo il cuore, perché loro erano parole incarnate, violentissimo abuso sarebbe stato quello di trattenere solo il loro pensiero (ma c’era un pensiero?), donne armate contro la trappola dell’intellettualismo, mi avrebbero messo al rogo.

Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici bambini e passò il guado dello Iabbok. Li prese, fece loro passare il torrente e portò di là anche tutti i suoi averi.

Non restava che portare oltre il guado dello Iabbok ciò che ero stato, ciò che mi avrebbe impedito di combattere a mani nude, a cuore esposto. Dall’altra parte del guado la mia formazione medica, ho lavorato come infermiere, in psichiatria, ognuna di loro mi ricordava una paziente, elevatissimo il rischio di ipotizzare sedazioni farmacologiche per liberarsi dallo scandalo. Avevo urgente bisogno di dimenticare l’approccio curativo. Così facendo mi assumevo il rischio, tornare a fare i conti con una fede brada, lasciare al Verbo di tornare a prendere i tratti selvatici di una tigre. Correre il rischio dell’agguato mortale. 

Non restava che portare oltre il guado anche i miei studi biblici e teologici, sicurezze rilegate in volumi, parole prese al laccio dall’ermeneutica, paradossi prostituiti al fascino della filosofia. Sorridendo notavo che nella mia carovana di prete cinquantenne e periferico ben poco era rimasto di quel periodo.

Il peso più ingombrante da guadare al sicuro rimaneva l’ultimo, uno strappo doloroso: ciò che rimaneva dell’immagine di me che avevo costruito con pazienza. Il prete progressista affondava nel fango della devozione? Dovevo lasciare oltre il guado la vergogna di espormi in prima persona attorno a una spiritualità da me sempre rigettata con sorriso di superiorità. Dovevo cercare di non immaginare i commenti acidi dei detrattori. Oppure dovevo convincermi che oggi, adesso, per quel che sono, questo era un ulteriore pezzo da perdere, una dolorosa ma urgente deposizione. Dovevo perdere la faccia, ancora. E accettate che questo, per me, fosse il vero senso di questo lavoro, di questa lotta.

Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. 

Come per Giacobbe, come per ognuno di noi, la fede diventa spazio di conversione solo se purificata da notti di lotta vissute in solitudine. Solo davanti a mistici testi lontani dalla mia sensibilità, solo a lottare con esperienze che mi sembravano solo psicosi del passato, solo a sporcarmi le mani con un modo altro di credere: immediato, carnale, diretto. Solo, al fianco di queste donne che hanno subito la persecuzione di un’istituzione che invece tutela me e il mio stile di vita. Solo a subire l’inconfessabile fascino di queste donne-angelo violente e bellissime. 

Non potevo arrendermi, dovevo arrivare all’aurora, cadere totalmente in mano loro sarebbe stato come rinnegare la mia identità, altrettanto fuggire senza lottare. Dovevo arrivare all’aurora.

Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quello disse: “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”

Ma ora zoppico, il colpo è stato tremendo, nulla è più come prima, inevitabile ricongiungersi alla carovana oltre lo Iabbok ma altrettanto inevitabile ammettere di essere stato segnato da uno sguardo nuovo, una fede dura come un colpo all’articolazione del femore. Ricongiungersi al passato e sentire d’essere guardati con certo sospetto, battezzato a nuovo nome. Rimettersi in cammino con la percezione di essermi dolorosamente riconciliato con una fede antica, selvatica, sepolta sotto convenzioni sedimentate da anni di studi e frequentazioni parrocchiali, nuovamente in cammino ma consapevole di aver risvegliato una spiritualità erotica, d’essere ancora un po’ di più dalla parte degli idioti e degli analfabeti e dei semplici. Sentire che fa male. Che non si tratta di un’esclusione che può diventare ruolo. Claudicante per gli uni e per gli altri. 

Almeno benedetto però. Da questo Dio guerriero eppure leggero, tra il cilicio e l’estasi. 

Alessandro Deho’

*Il testo di Alessandro Deho’ introduce Mistiche (Magog, 2025)

*In copertina: un’opera di Nicola Samorì

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