“Il rimorso di essere vivo”. Sergio Quinzio in attesa dell’Apocalisse
Libri
Giosué Gorinzi
Domenica scorsa, il 16 ottobre, la lettura evangelica era tratta da Luca, capitolo 18. Gesù racconta una parabola per illustrare la necessità di “pregare sempre, senza stancarsi mai” (o meglio: senza scoraggiarsi, senza trascurare l’atto, senza corrosione d’incostanza). La parabola mette in contrasto due personalità: la vedova, orante, che chiede “giustizia contro il mio avversario”, e un giudice “che Dio non temeva e dell’uomo non aveva rispetto”. Sono entrambi personaggi ambigui: l’una pretende giustizia – orazione di morte la sua, che impetra orrori, giustizia da giustiziere – l’altro è un giudice che si pensa onnipotente, che crede nella Legge e non in Dio. La vedova è “molesta”, la sua preghiera è molestia, seccatura. Dunque, sintetizza Gesù, la preghiera è “grida a Lui giorno e notte”, richiesta di giustizia da parte degli “eletti”. Chi è precario, prega; la preghiera è la vertebra di Dio; Dio, tuttavia, va messo sotto assedio dal pregare incessante.
Le contraddizioni del Vangelo – che insiste sull’obliquo dell’esistere, sul mai coincidente, sull’irresoluto – lo rendono affascinante, infinito perché privo di risposte rotonde, scomodo. Si è sull’erta del periglio, in bilico, abbracciati da braci. Resta da capire cosa sia questo pregare instancabile, insistente, il pregare della vedovanza, di chi nulla ha, indifeso di tutto, perfino di Dio. Ossessione di cui l’Apostolo, Paolo, ha fatto crisma e stigma, chiodo su cui s’impianta il credo. Lui la chiama, di volta in volta, “preghiera perseverante” (Rm 12, 12), “preghiera assidua, in cui vegliare, rendendo grazie” (Col 4, 2); “pregate ininterrottamente! di tutto dite grazie!”, impone, d’altronde, ai Tessalonicesi (1 Ts 5, 16-17). Paolo, l’aborto, incarcerato in Cristo, sommo incantatore, non opta per la preghiera che chiede, ma per quella che ringrazia: preghiera è coabitare nel Regno, tara, affitto dell’eterno in questo mondo, obolo, serratura per stare nel corpo di Dio. Non chiedere di graziare – grazia o colpo di grazie che sia –, ringrazia.
Il pellegrino russo, “della specie più misera, errante di luogo in luogo”, con un po’ di pane secco in una tasca e la Bibbia nell’altra, è sedotto dalle parole di Paolo, promessa a portata di gorgheggio, balbettio di gioia: “in Spirito, incessantemente, con ogni sorta di preghiera o supplica, vegliate perseveranti nell’orazione per tutti i santi” (Ef 6, 18). Per carpire il senso di questa veglia dell’orante, il mistero della preghiera incessante, il pellegrino s’invola tra periferie ed eremi, spazi ignoti e suburbani, perfino subumani. Uno starec, maestro di eterodossa ortodossia, insegna al pio vagabondo “l’ininterrotta Preghiera di Gesù”, che è poi, aggraziati filatteri vocali, una formula: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me!”. Lallazione mistica, lattescenza del mondo, sacro bendaggio verbale:
“Passai tutta la settimana nella solitudine della mia capanna a recitare ogni giorno per seimila volte la Preghiera di Gesù, senza preoccuparmi di nulla, senza dar corso alle distrazioni, per insistenti che fossero… Mi abituai talmente alla Preghiera che se mi interrompevo, anche per breve tempo, avevo la sensazione che mi mancasse qualcosa. Non appena riprendevo a recitarla, subito ritornava la gioia”.
A queste atmosfere, gioia sibillina, sobillazione del sé in Dio, si attiene Giovanni Lindo Ferretti nel suo breviario, che ha un sottotitolo esplicito-politico (“difendi conserva prega”, che fu di Pasolini, l’estremo, Difìnt conserva prea), e un titolo perfetto, Óra (stampa Aliberti, 2022), a riannodarsi al ritmo dell’orante, l’esatto cerchio dell’ora et labora che fonda quella cosa che fu Occidente. Ma óra è pure l’ora&qui, l’ora-o-mai-più, l’ora pura del pregare, l’istante in cui lampeggia l’eterno. L’orante, orando, origlia il Regno: il tempo esiste finché qualcuno scandisce la preghiera, ne albeggia i toni; ed esistendo il tempo, organizzato per verba, esiste l’eternità. Il mondo permane finché qualcuno ne olia i cardini, pregando, incessantemente.
Più che libro, biografia e breviario, questo di GLF. Ne strappo alcuni brani.
“Credo il pregare un ragionevole atto, intimo e sociale. Di valenza cosmica”.
“Si prega in latino, bisogna memorizzarlo, imparare cosa vuol dire, impararlo in italiano”.
“La recita del Rosario è stata, negli anni della vecchiaia e malattia di mia madre, la nostra ancora di salvezza”.
“Da che ho ripreso a pregare, non tanto quanto dovrei non meno di quanto riesco – non fatevi illusioni: sono e resto un peccatore, miserevole e anche stupido – mi affido alle preghiere della mia infanzia, pregare da sempre”.
Quando dice di Madre, GLF, raccolto nell’album dei CCCP che s’intitola Canzoni Preghiere Danze del II Millennio – Sezione Europa, ne dice così: “Era una preghiera, contro ogni aspettativa e non potevo farci niente solo cantare. Continuavo a cantarla, lenta, solenne. Mi inebriava”. Solenne ebbrezza del canto, la preghiera ti coglie così, contro ogni aspettativa: regola che mai s’irrigidisce in norma, sregolata regola che mai s’impantana, ma ti tiene sotto scacco, di spalle.
Non credo ci sia da difendersi da alcunché, né da cosa da conservare – conta soltanto il pregare. Il pregare non diventa moda perché è modo, il solo, in cui l’uomo può dirsi eretto, bipede che tende a Dio, creatura tra belva e fiore. L’orante è l’indifeso assoluto – da lui si difendano gli altri –, nulla ha, nulla conserva, serba, semmai, il suo segreto, deposto nei greti di Cristo. Preghiera non può essere sbandierata come opzione esistenziale, peggio ancora politica: essa è, e basta a sé. Latino è limpida lingua d’Occidente: dunque, sì, in quel vocabolario pregare; affidarsi allo straniero, cioè: non occuparsi di ciò che significa il pregare. Si preghi ripetendo parole antiche e care, sia sufficiente questa felicità da ignoranti. Il resto – la preghiera forbita, fantasiosa, creativa – non è pregare ma chiacchiera.
Ottusità perseverante: a chi prega è chiesto di insistere. Qualcosa aprirà, apparirà.
Dove si dirige chi giunge le mani, congiunge gli occhi, pare si tuffi in un abisso, nel suo blaterio…
Secondo i Messaliani – o, appunto, “oranti” – la preghiera continua era gesto di lotta contro il maligno che tutto insidia. Furono detti eretici, a Efeso, nel 431, per lo più gnostici, dacché una chiesa si andava strutturando – politicamente, perfino – e altre sette, eccesso di elezioni, erano inaccettabili; inaccessibile ai più quel pregare senza sosta, contemplativi affini ai nullafacenti.
“I saggi devono pregare sempre. Infatti il male che è in essi, il fumo e il peccato cresciuto con loro, scorrono sempre, come una fonte; i pensieri che fanno guerra all’anima non stanno mai in ozio: non vi sono pensieri solo quando preghi”.
Così scrive nei Discorsi e dialoghi spirituali lo Pseudo Macario (IV secolo; stampa l’Abbazia di Praglia, 1988). Teologo estroso, lo Pseudo Macario – o Macario/Simeone – professava la catabasi nei regni inferiori, corazzati dal pregare, per estrarre dall’oscurità il prezioso, sottrarre preda al Maligno:
“Come i mercanti si immergono nudi nel profondo del mare, nella morte dell’acqua, per potervi trovare perle utili alla corona del re e alla porpora, così i monaci, nudi, escono dal mondo e si immergono nell’abisso marino del male, nel baratro della tenebra e nelle sue profondità, raccolgono e ne traggono fuori pietre preziose e perle utili per la corona di Cristo, per la chiesa celeste e il popolo degli angeli”.
Certo, in una forma ulteriore, perfino il pregare è imperfetto: la voce è mondana, belato emesso da un corpo corrotto: che se ne fa Lui di questo livido dono? Gli autentici oranti, scrive Giovanni di Apamea, detto il Solitario (V secolo), nel suo discorso “sulla preghiera interiore”, sono quelli che pregano “all’interno della lingua”, nello spazio remoto della parola, che parola trascende; preghiera che “tramonta alla parola e si tiene nel luogo degli esseri spirituali e degli angeli”. Le lingue degli angeli, radura silente; il Verbo, alfabeto muto.
“Dio, infatti, è silenzio e nel silenzio si canta quel canto che è degno di lui”.
Ma qui siamo davvero in un’altra dimensione, che scansa ogni divulgare, il buon senso grammaticale delle anime pie. L’incessante ci è inaccessibile.