Qualche anno fa, ho trascritto questo canto, per tenerlo in tasca e abitare tra gli uomini come nel colmo dell’Himalaya:
Io, lo yogin che erra tra le montagne innevate,
diffondo intorno a me un mandala di felicità.
Avendo purificato i cinque veleni e la malattia dell’orgoglio,
non sono infelice. Sono felice.
Avendo abbandonato la ricerca di svaghi e distrazioni,
vivendo solo, ho ottenuto la libertà. E sono felice.
Avendo abbandonato le azioni che tengono assorti,
vivo tra la solitudine di valli deserte. E sono felice.
Avendo abbandonato la famiglia, veleno di questo mondo,
non devo pensare ogni momento al guadagno. E sono felice.
Non scrivendo testi per desiderio di erudizione,
ho la mente libera da preoccupazioni. E sono felice.
Non avendo sviluppato l’orgoglio per i bei discorsi,
non faccio discorsi, non affronto dispute. E sono felice.
Non conoscendo ipocrisia e inganno,
non devo pensare “faccio questo per avere quello”. E sono felice.
Essendo libero dal desiderio di fama e di gloria,
gli uomini hanno smesso di sparlare di me. E sono felice.
Dovunque mi trovo, sono felice.
Qualunque veste indosso, sono felice.
Qualunque cibo mangio, sono felice.
In ogni circostanza, sono uno felice.
Mi basta poco. Srotolavo la lingua, ogni mattina, ripetendo questo canto. Per dare alle cose la giusta misura – è terribile scambiare il pavone per lupo e il grifone per gallina. La felicità è fermezza, una variante della ferocia.
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La storia di Milarepa, il mistico tibetano vissuto mille anni fa, dal cui cesto di canti ho raccolto il poema che leggete sopra, è esemplare. Stagioni di leggende sono fiorite intorno ai suoi gesti: egli, come il re Davide della Bibbia e come il profeta Isaia, è stato un grande poeta. Credo che l’attitudine all’altrove, il dialogo con l’altro – che sia un dio, una fatale morgana, il trapano invisibile che ci tormenta e commuove – si espliciti nel canto. I versi, in poesia, sono ramponi per irradiare la vertigine.
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La storia di Milarepa si scinde in tre fasi: violenza; pratica; illuminazione. Orfano di padre, i parenti sottraggono ogni bene al piccolo Mila e alla madre. La madre vende una proprietà residua e invia il figlio ad apprendere la magia oscura. Mila, grande in inganno, un prodigio in mostri, evoca gli spiriti malvagi, piega al suo volere le forze del creato per vendicarsi degli odiosi parenti (“Nella scuderia essa non vide i numerosi cavalli legati, ma scorpioni, ragni, serpenti… In particolare, vide uno scorpione, grande all’incirca come un giovane yak, che aveva stretto tra le sue pinze i pilastri della scuderia e li svelleva”). Dopo aver capito a quali devastazioni porti la pratica sinistra della magia, l’indisciplina dell’individuo, l’etimo della rabbia, Mila si ravvede, si avvia al deserto della redenzione presso un maestro, Marpa. Egli costringe Mila all’umiltà e al servaggio, prima di impartirgli gli insegnamenti. L’ultima parte della vita di Mila è quella di Milarepa – cioè: Mi la ras pa, Mila che con la veste di tela vaga per le vallate e i ghiacciai, scaldato dal fuoco interiore – “uno dei più grandi maestri spirituali di tutti i tempi… l’asceta che meditando tra le pietraie desolate delle montagne… raggiunge la condizione di Buddha, il poeta che con voce melodiosa canta la sua esperienza di realizzazione e il suo insegnamento spirituale muovendo il cuore di quanti lo ascoltano” (Carla Gianotti, La vita di Milarepa, Utet 2001).
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Ogni santità – ogni salvezza – è torchiata dalla prigionia dell’errore, dall’agonia nel rancore. Milarepa è libero perché ha vissuto la povertà, il riscatto attraverso le tenebre, il sottosuolo. Soggiogato dai mostri interiori – ambizione, reputazione, legami familiari, potere, orgoglio – li ha sconfitti. “Tra i santi delle agiografie d’Occidente, la figura che più di ogni altra si accosta a Mi la ras pa, sia per lo stile di vita che per la sua diffusione nell’immaginario collettivo, è quella di San Francesco”, scrive la Gianotti. Sia Milarepa che Francesco scelgono di spogliarsi, sono santi lottatori, poeti. La brutalità di Milarepa e la sua estasi sono però più radicali di quelle di Francesco; d’altronde, il crinale, per il cristiano, è la passione, per il buddista la compassione. Uno entra nel mondo, dando in pasto a Dio la propria identità, scagliandosi nella Provvidenza; l’altro recide i rapporti con il mondo e con gli dèi, sperpera il proprio io, s’incaglia nel niente, per diventare puro essere, energia, canto.
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Jacques Bacot, studioso di cose tibetane – sulla sua Vita di Milarepa si basa l’edizione Adelphi – scrive: “Anche il cristianesimo ha le sue figure puramente speculative, i suoi mistici solitari, al margine della vita sociale. Ma la Chiesa non li ha mai incoraggiati e li propone piuttosto come esempi da ammirare che non da imitare. Per i buddhisti tibetani, al contrario, il misticismo resta l’ideale verso cui essi devono indirizzare i loro sforzi”. In particolare, direi, ci sono diversi cristianesimi, desunti dalla vita di Gesù: quello del deserto e della preghiera solitaria; quello della chiamata e della spada; quello dell’insegnamento pubblico, per strada o nel tempio; quello che converge verso Gerusalemme. E pur nella metropoli – Paolo scrive a Roma, Corinto, Efeso, fa di Cristo un avvento cittadino, tra catacombe che esondano in basiliche – c’è un cristianesimo che si svolge nelle case private, uno che si focalizza sul Getsemani e si avvia al Golgota. In ogni caso, il cristianesimo prevede un rapporto con il male – il Satana – e con il potere – Ponzio Pilato, Erode, i capi del Tempio – che sanziona in salmi sotto tortura.
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Un gruppo di cacciatori osserva Milarepa cantare sopra la sua ciotola spezzata – “Un attimo ho un vaso, un attimo e non l’ho più./ Questo esempio mostra che tutti i fenomeni sono condizionati”. Quegli uomini invitano l’eremita a mangiare con loro, lo vedono sporco, in cenci, povero. “Tu sei un uomo capace. Se tu, anziché questa miseria, avessi vissuto una vita nel mondo, avresti cavalcato il migliore tra i cavalli al pari di un giovane leone”, lo tentano. Milarepa risponde, “Ai vostri occhi sembro uno molto miserabile. Ma voi non sapete che non c’è un altro più felice e più consapevole di me in questo mondo”. Poi attacca il canto:
Nell’eremo montano che è il mio corpo,
Nel tempio del mio petto, in alto,
Al vertice del triangolo del mio cuore,
Il cavallo della mia mente vola come il vento.
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Libero da ogni legame, Milarepa non deve rispondere ai giudizi del mondo ma risuonare nel cavo della propria scelta, inderogabile; egli è limpido, non gli manca nulla, è un re, sciolto dal carcere delle forme, dal dominio delle superfici, può tutto. Assiso sul canto, alieno alla vita e alla sopravvivenza, sfida le proprie paure, si estromette dalla gloria, è sospeso e speso in questo mondo. Non dona e non perdona, la gratuità è innaturale, perché egli è oltre le differenze: è un corpo di carne, potrebbe essere un albero, un cane, una grotta, una fioritura; una fionda di luce, che ora c’è ora non c’è.
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Nel 2002, per la cura di Roberto Donatoni, la traduzione di Kristn Blancke e Franco Pizzi, l’introduzione di Fabrizio Torricelli, Adelphi stampa I centomila canti di Milarepa. Il canzoniere è meraviglioso – pur troncato al primo volume: quando gli altri? Certo: la poesia è, in questo caso, come per i Salmi, per Giobbe e Geremia, azione. Rinforza la scelta dell’eremitaggio, aggiorna la ricerca spirituale, irradia speranza – cioè: una più ardua prova. Non è letteratura ma lezione, elezione. Eppure, traducendo l’Himalaya sul nostro comodino, compiendo in tempio il nostro divano, possiamo leggere i canti di Milarepa come i ruggiti di William Blake, gli abissi di Dante, le gnostiche agnizioni di Montale. La poesia, se è vasta e va oltre la volontà di un uomo, avviluppa nel vigore, è vorace, porta a quotidiane escursioni nell’oscuro, nel capovolto, nel brillio. Quei versi di Milarepa, nella sacca d’alba, sono una specie di toccasana, di veleno, di balsamo. Una antologia tratta dal fuoco, con le dita che ustionano, cifrate tra enigmi ed epigrafi. (d.b.)
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La meditazione è un continuo fluire di chiara luce:
non occorrono pause nella meditazione.
L’oggetto di meditazione e chi medita si sono completamente dissolti…
Lo spazio del ritiro fu delimitato dalla neve,
ma le dakini mi offrirono del cibo,
l’acqua delle montagne innevate fu la migliore che bevvi.
Osservando la mente ho visto tutto,
stando in basso ho ottenuto il rango di un re.
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La città è un recinto di fango soggetto a distruzione:
in tale cimitero quanto è sciocco viverci sempre!
L’unione di due coniugi è come un incontro occasionale al mercato:
quanto è sciocco lasciarsi andare a ripicche e litigi!
Complimenti e lusinghe sono solo suoni illusori:
quanto è sciocca la cattiva inclinazione a dare loro importanza!
Un nemico malevolo è come un fiore destinato ad appassire:
quanto è sciocco passare la propria vita in contese!
Gli aggregati corporei sono un sacco d’immondizia:
quanto è sciocco indulgere a farsi belli!
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Io, nella città illusoria dei sei stati d’esistenza
ho vagato, bambino della coscienza confusa,
sperimentando le manifestazioni illusorie del karman.
Io, lo yogin, sono un leone tra gli uomini:
allargo la criniera turchese della buona visione.
Munito delle zanne e degli artigli della buona meditazione,
ho praticato sulle vette delle montagne innevate,
sperando di ottenere il frutto della virtù.
Io, lo yogin, sono una tigre fra gli uomini:
perfeziono le tre abilità della mente volta al risveglio.
Munito del manto striato di metodo e saggezza indivisibili,
ho vissuto nelle valli erbose e nelle foreste della chiara luce,
sperando di giungere al frutto del bene altrui.
Io lo yogin sono un santo fra gli uomini;
sono Milarepa;
sono uno che sa affrontare le manifestazioni;
sono uno che segue qualsiasi ispirazione sorga;
sono uno yogin senza fissa dimora;
sono uno che non ha rigidezze, qualunque cosa sorga;
sono un mendicante, senza cibo;
sono uno che vive nudo, senza vestiti;
sono uno che vive di elemosine, senza ricchezze;
sono uno che sta qui, ma che qui non ha dimora;
sono uno che agisce con spontaneità;
sono un folle felice di morire;
sono uno che non possiede nulla e a cui non occorre nulla.
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Vedo questa vita come illusione, come sogno,
e, verso coloro che non hanno capito, medito la compassione.
Come cibo, mi nutro della vacuità simile al cielo
e rimango assorto in meditazione senza distrarmi.
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Nelle valli deserte del mondo abbandonate dagli uomini
la canzone lieta dello yogin romba come il tuono.
La fama arriva a pioggia nelle dieci direzioni.
I fiori della compassione sporgono i loro petali,
il frutto della mente volta al risveglio matura in purezza
e l’attività illuminata legata al risveglio pervade tutto.
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Tra le alture innevate, il bianco leone delle nevi
siede fieramente tra le cime bianche di neve.
Non è spaventato dagli altri:
sedere fieramente tra le nevi è il suo modo d’essere valoroso.
L’avvoltoio della roccia rossa
dispiega le ali ella vastità del cielo.
Non teme di cadere dai burroni:
solcare il cielo è il suo modo d’essere valoroso.
Nei fiumi e nei laghi sottostanti
il pesce cangiate esercita la sua abilità.
Non teme di annegare:
guizzare mutando colore è il suo modo d’essere valoroso.
Al riparo della foresta fitta d’alberi
la tigre striata esercita la sua agilità.
Non teme i pericoli:
essere fiera della propria agilità è la sua natura.
Nella foresta di Singala
Milarepa medita la vacuità.
Non teme che la meditazione venga meno:
prolungare la meditazione è il suo modo di essere valoroso.
*I testi sono tratti da: “I centomila canti di Milarepa”, Adelphi 2002