
“Il cuore ricomincia a divorare se stesso”. Byron messo a nudo
Letterature
Paola Tonussi
Indubbiamente, la sera, l’Etna sembra il Monte Fuji. La luna, il golfo, la natura possente e argentata dall’oscurità, la cima rossa di lava: sembra di vivere in una xilografia di Hokusai, il grande maestro d’arte giapponese. Ciò non toglie che restai sbalordito.
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Sono a Taormina e a Giardini Naxos per grazia della vulcanica Fulvia Toscano, l’Etna culturale di questo lato di mondo, ideatrice – tra le altre cose – del fitto ciclo di incontri “Naxoslegge”. La sua aiutante, factotum e amica si chiama Tamako Chemi, per tutti Sakiko (è il secondo nome), nippo-sicula, cresciuta quaggiù fin da bimba, ex allieva di Fulvia. Ovviamente, parliamo di letteratura giapponese – assieme a quella russa, m’appassiona integralmente, ho scaffali che eruttano romanzi di Kawabata e Tanizaki, Soseki e Akutagawa, Dazai e Ogai… Sai che ho studiato alla ‘Sapienza’ con Maria Teresa Orsi?, fa lei. Io sbalordisco, sbianco, tartaglio.
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Per chiunque, in modo del tutto dilettantesco, si occupi di letteratura nipponica, Maria Teresi Orsi è una leggenda, una specie di Atena, o meglio, di Amaterasu, la dea solare del Sol Levante, che avvia la discendenza dell’imperatore. Tra le tantissime cose, la Orsi ha curato l’opera di Ueda Akinari e una antologia di Fiabe giapponesi per Einaudi; soprattutto è protagonista di una delle avventure culturali ed editoriali più importanti degli ultimi decenni, la traduzione, per Einaudi, dal giapponese antico, della Storia di Genji di Murasaki Shikibu, capolavoro della letteratura d’Oriente, uno dei grandi libri dell’umanità. Per altro, ha curato, tra 2004 e 2006, il doppio ‘Meridiano’ che raduna i Romanzi e racconti di Yukio Mishima. Bene. Tamako Sakiko si è laureata dieci anni fa con la Orsi, realizzando la prima traduzione in Italia, dal giapponese, del “Dojoji di Yukio Mishima”. Immediatamente, la mia testa tramuta l’Etna nel Fuji e intimo l’amica: portami la tesi!
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Il Dojoji è un testo classico del teatro Nō, tratto dal nucleo millenario di leggende giapponesi. La storia, nei minimi termini, è questa: una donna, arsa di passione per un monaco – Dojo-ji è un tempio buddhista eretto un millennio fa, a Hidakagawa – si traduce in drago, in serpe, in vampiro pur di averlo. Insomma, la donna è demone e vuole corrodere la fede del santo ometto. Mishima, che approfondisce il legame con il Nō – “Il teatro Nō è il tempio della bellezza, il luogo nel quale si realizza l’unione suprema tra religiosa solennità e bellezza sensuale… La vera bellezza aggredisce, domina, depreda e alla fine distrugge”, dichiara in una delle ultime interviste – tramuta questa leggenda in un dramma moderno. Il suo Dojoji, che in Italia esiste soltanto in una versione ricalcata da quella in lingua inglese (in Morte di mezza estate, a cura di Marco Amante), è stato scritto nel 1957, intorno al Padiglione d’oro e al matrimonio con Yōko. Nel 2002 Gallimard pubblica Dojoji in edizione economica, traducendo dall’inglese. Siamo di fronte, qui, a una prima versione tratta direttamente dal giapponese.
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Sakiko mi spiega che la lingua letteraria di Mishima, in Dojoji soprattutto come nei grandi capolavori, è solenne, riprendendo la struttura del giapponese antico. In inglese si perde fatalmente la patina arcaica, arcana di quei testi.
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I temi di Mishima si riverberano in Dojoji con la nitidezza propria della pièce. La bellezza è crudele, inchioda alla fuga; l’amore è ambiguo e dispari (il ragazzo, Yasushi, diventa l’amante di una “signora… che aveva dieci anni più di lui”); la vita è un delirio nel paradosso (il proprietario invidia una morte claustrofobica, sommerso dai vestiti dell’amante). Il giovane che rifiuta la ragazza sgargiante per l’altra, che decide di vivere – e di mangiare – in un armadio, mi sembra l’incarnazione di un aforisma di Franz Kafka.
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“L’uomo può essere associato alla bellezza solo attraverso la mediazione della morte eroica, non si stanca di ripetere Mishima, ma la bellezza non può prescindere dalla concretezza del corpo, del sangue, del sudore, di un erotismo che spesso diventa qualcosa di diverso dalla sensualità” (Maria Teresa Orsi). Negli anni in cui Mishima si occupa di teatro Nō, scopre il culto del corpo, l’“impegno dedito al body buinlding”.
Per gentile concessione di Sakiko, ecco un brano esemplare del Dojoji, in ‘prima’ italiana. (d.b.)
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Kiyoko: Yasushi era il mio fidanzato.
Proprietario: Era il giovane che è stato ucciso dentro questo armadio?
K: Sì, era lui il mio ragazzo e mi ha abbandonato per diventare l’amante della signora Sakurayama, che aveva dieci anni più di lui. È vero, lui era proprio il tipo di persona a cui piaceva essere amato.
P: Mi dispiace tanto.
K: Le ho detto di ascoltarmi in silenzio. Non è escluso che ad allontanarlo sia stato il mio amore. Egli, al posto di un amore leale, tranquillo e felice, ne ha preferito uno fatto di ansia, terrore e segreti. Era un ragazzo tanto bello. Quando camminavamo insieme tutti dicevano che eravamo una bella coppia. Quando camminavamo insieme ci accoglievano allegramente anche il cielo azzurro, gli alberi dei parchi e gli uccelli, anche il cielo azzurro e quello stellato, per così dire, facevano parte di noi. Tuttavia egli scelse di vivere dentro quest’armadio.
P: Dentro quest’armadio c’è così tanto spazio che può contenere un cielo stellato ed anche la luna può sorgere da un angolo e tramontare da quello opposto.
K: Sì; dormiva, si svegliava e a volte mangiava là dentro. Ha deciso di vivere sepolto vivo dentro questa stanza, simile a una bara, senza finestre dove non c’è mai né il fruscio del vento né delle fronde degli alberi. Già prima di essere ucciso gli piaceva vivere dentro una bara, nella stanza del piacere e della morte, sommerso dalla fragranza del residuo sui vestiti del profumo di quella donna e del suo corpo… Lui profumava di gardenia.
P: [Interessato sempre di più] Era sepolto dai cumoli di vestiti della signora invece che da fiori.
K: Fiori di pizzo, fiori di seta, fiori dal forte profumo di morte, e freddi.
P: [In disparte] È stato molto astuto. Anche a me piacerebbe morire così.
K: È morto come desiderava. Ora mi è chiaro. Tuttavia, perché? Da che cosa voleva fuggire? Da che cosa voleva fuggire al punto di scegliere la morte?
P: Non so risponderle.
K: Forse voleva fuggire da me. [Silenzio]. Sì, è così. Ma perché? voleva fuggire da me, dal mio viso dolce e bello. Forse solo la propria bellezza gli era sufficiente, al punto da disgustarsi delle altre bellezze.
P: Ma di che si lamenta? Nel mondo ci sono donne disperate perché brutte oppure perché hanno perso la loro bellezza giovanile. Lei ha entrambe le qualità. Lei vuole troppo.
K: Ma lui è fuggito dalla mia giovinezza e dalla mia bellezza. Ha disprezzato le uniche cose preziose che ho.
Yukio Mishima