Henry Miller (1891-1980) è noto per lo più per Tropico del Cancro. Pubblicato nel 1933 è una sorta di saggio autobiografico, scritto con tentativi di scrittura automatica. Celebra vicende alle quali ha assistito, vissuto e poi analizzato nel profondo, l’autore. Non ci si dimentichi la fuga con la 37enne, lui poco più che liceale, il distacco e il successivo vagabondaggio per l’America: quattro anni di stenti e di delusioni.
Nel 1914 Miller ritornò, sconfitto e deluso a casa, nella sartoria paterna a New York. Nel 1917 si sposa, nel 1919 è impiegato alla Western Union. Nel 1923 divorzia e sposa la ballerina June Mansfield: June sarà l’unica a credere nel suo talento di scrittore, lo aiuterà a diffondere quindici prose poetiche (“Mezzotints”). Sarà con lui a Parigi alla fine degli anni Venti. Diceva di lui: Agli inizi era la Parola. L’uomo ne dà rappresentazione. Ma l’attore non è lui; lui è solo la rappresentazione. Come se stesse recitando una parte, come se tutti fossero burattini pronti a comprarlo per farne una farsa. Miller aveva problemi di persecuzione; era convinto di essere spiato da tutti, che gli avessero messo delle cimici in casa.
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Dal 1930 al 1940 Miller vivrà a Parigi e lavorerà presso il “Chicago Tribune”. Conoscerà Lawrence Durrell, frequenterà Anaïs Nin, di cui diventerà amante. Miller era attratto dal sesso; lo descrive minuziosamente e per questo i suoi scritti saranno proibiti in America. C’era qualcosa d’oltre, un ingegno, una visione, che gli facevano immaginare atti putridi e disgustosi, al limite del decoro, e che poi diventano bellezza, castità.
In un saggio del 1940 (“Nel ventre della balena”), George Orwell scrive: “La mia opinione è che sia il solo scrittore in prosa che abbia immaginazione e valore, apparso negli ultimi anni tra i popoli di lingua inglese. Anche se si potrebbe obiettare che la mia sia una valutazione eccessiva, bisognerebbe ammettere che Miller è uno scrittore fuori dell’ordinario, a cui val la pena di rivolgersi più a lungo che con un semplice sguardo; dopotutto essendo come scrittore completamente negativo, non costruttivo e amorale… una sorta di Walt Whitman tra i cadaveri”.
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L’uso dell’osceno, dell’erotico, o per meglio dire alla schiettezza sino alle estreme conseguenze, e cioè alla volgarità, è una specie di ribellione, alle imposizioni del sistema. Nonostante lo scrittore si ripeta in una sorta di spirale corroborante, non trascende mai nel banale, anzi, presenta un trasporto verso la descrizione liberatoria delle proprie più intime pulsioni vitali, le sole pure in un mondo irrimediabilmente contraffatto.
Fra tanta scrittura automatica, qualche concessione surrealista e tanto sesso, Miller si dichiarerà apertamente ad ogni bellezza del mondo, ad ogni cunicolo, anche il più sozzo; è estremamente sincero. Lo sarà anche nelle lettere all’amico Durrell e in quelle ad Anaïs Nin, più che ad altri. Miller ha scritto molto. Racconti, brevi romanzi, diari di viaggio (era anche inviato speciale) e saggi. In un saggio, esprime la sua ammirazione per Rimbaud, di cui si riteneva una specie di erede. Nel 1961, anno l’America capì che i suoi libri erano romanzi e non libelli colmi di inenarrabili oscenità.
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Sfacciato, surreale, indicibilmente sincero, scurrile. Un manifesto di libertà, alla ricerca del proprio vero io e la critica spietata di una società tesa al guadagno che corre senza fermarsi mai a riflettere su se stessa. Questo è Tropico del Capricorno. Un romanzo molto difficile e controverso. Difficile la lettura, difficile lo stile. Quando lo lessi la prima volta mi capitò di contemplare un fiume di immagini che scorrevano tra bicchieri di vino e persone buttate a terra, ubriache. Molestie, rapporti sessuali, indecenze. Pensai non fosse fatto per me. Un romanzo non per tutti. Ci sono argomenti potenti nel libro, dettagli eterei che quasi non si notano, cianfrusaglie gettate nei pozzi profondi, quelli dove si nasconde la più grande intimità, i più grandi desideri inconsci, la sessualità animalesca.
Racconta un’orribile esperienza lavorativa in una agenzia; racconta il suo matrimonio inesistente; racconta il sesso. Con tante donne. Donne di ogni tipo: belle, brutte, giovani, straniere. Racconta la vita a New York di Miller e la sua decisione di mettere su carta ciò che vede e sente.
Partendo dalla descrizione del lavoro nell’agenzia Cosmodemonic, Miller scrive pagine bellissime sulla spietatezza della ricerca del lavoro e sul lavoro stesso. Un lavoro dove sono tutti ingranaggi di macchine che lavorano instancabilmente, con le loro pulsioni sessuali, senza fermarsi un attimo; macchine, robot, totale alienazione. Tutto gira veloce in questo libro: i pensieri del protagonista, i suoi ricordi, le sue azioni.
New York ti fagocita e devi essere più svelto delle sue mille tentazioni e luci per non venirne divorato. “Di nuovo la notte, la notte incalcolabilmente nuda, fredda, meccanica di New York nella quale non c’è pace, né rifugio, né intimità”.
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In questa prospettiva il sesso è qualcosa di meccanico, una gamba ingessata che provoca piacere, la masturbazione sofisticata di chi usa un’immaginazione fervida. Si esce, si trova una donna e se è d’accordo si consuma un amplesso. Sesso senza impegni, senza pretese. Sesso quando si ha voglia e con chi ne ha voglia. “Mai uomo ebbe umiliazione più grande di Montezuma; mai razza fu spazzata via con più ferocia di quella che toccò agli Indiani di America; mai terra fu violata in modo più schifoso e violento della California violata dai cercatori d’oro. Arrossisco se penso alle nostre origini, le nostre mani son sozze di sangue e di delitto”.
Miller descrive ogni vissuto senza alcun filtro. E ciò che scrive è talmente vero che ognuno può rapportarlo alla propria vita. Oggi Tropico del Capricorno è considerato un capolavoro della letteratura mondiale. È un libro bello, a tratti disturbante, vero, profondamente vero.
Giorgia Deidda