25 Gennaio 2025

Romania fascista. Dai “legionari” Eliade e Cioran a Mihail Sebastian, il cronachista della contraddizione

Nella vita talvolta si produce un evento aspettato e anelato da lungo tempo, e l’insistenza e la costanza del nostro desiderio vengono infine premiate. Per me uno di questi casi, ne convengo, sparuti, è la pubblicazione del Diario 1935-1944 di Mihail Sebastian, una bella sorpresa fattaci dall’editore romano Castelvecchi, con la traduzione e la cura attente e premurose di Mauro Barindi e Horia Corneliu Cicortaş.

Sono tanti i motivi, ai quali potrò accennare solo di sfuggita, che rendono questo libro memorabile: anzitutto, la capacità descrittiva ed empatica di Sebastian, capace di calarci tanto nella società romena dei cosiddetti “fascist years” – gli anni cioè in cui in Romania si assiste a un’irrefrenabile ascesa di una Destra sempre più autoritaria e dittatoriale – quanto nella propria vita quotidiana, con squarci sulle sue peripezie individuali e sulla sua sopravvivenza in quanto artista e scrittore che sono altrettanto se non più illuminanti di un’esegesi critica o di un trattato. Si vedano a mo’ d’esempio le intense pagine dedicate nel 1940 alla stesura del romanzo L’incidente, di cui è appena uscita la mia edizione per Bordeaux, che sono davvero istruttive se si vogliono capire i tormenti della gestazione di un’opera letteraria. 

Rimasto in Romania mentre buona parte dei suoi amici e conoscenti ne venivano esiliati o preferivano la fuga, Sebastian è stato in grado di mostrarci le contraddizioni della società rumena dal suo interno, con una precisione e un acume che fanno di questo libro una testimonianza irrinunciabile del graduale abbrutimento di quella società stessa e della costruzione della “fabbrica dell’antisemitismo” in cui il paese si andava trasformando in quegli anni. È inoltre un atto d’accusa, portato con toni miti quanto inflessibili, nei confronti di alcuni brillanti intellettuali, spesso suoi amici, che saranno fra i protagonisti dello scivolamento a destra della cultura rumena e che spesso si riveleranno contigui ai movimenti più oltranzisti: prima fra tutti quella Guardia di Ferro che sembrerà a un certo punto poter prendere il potere e sarà poi invece liquidata dal Maresciallo Antonescu in una sorta di guerra intestina fra bande rivali. Malgrado tutto, Sebastian riesce a far prevalere il privato sul pubblico, l’individuale sul collettivo, e a tenere quasi sempre separati l’aspetto politico da quello personale: intriso di un concetto profondo dell’amicizia, non taglierà mai completamente i ponti con gli amici che lo hanno tradito e isolato, ma cercherà sempre di comprendere le motivazioni e i presupposti delle loro derive ideologiche. 

A proposito di amicizia, nel volume Bucarest, del 1934, Paul Morand raccontava stupito di aver visto serenamente seduti a un tavolo d’osteria, immersi in un’amichevole chiacchierata, due esponenti politici dalle vedute completamente opposte, fino a poco prima separati da veementi polemiche: ebbene, gli era stato spiegato, questa è la Romania, qui da noi le controversie politiche e ideologiche non sfociano mai in conflitti personali, ragion per cui non c’è nulla da stupirsi. Salvo che poi, come sappiamo, anche in Romania ci saranno le leggi antisemite, le persecuzioni e i pogrom, che talora vanificheranno anche amicizie di lunga data.

Nel Diario Sebastian è talmente discreto da non insistere neanche più di tanto sul proprio essere ebreo, salvo quando la persecuzione di cui sarà oggetto si fa realmente indiscutibile e inaggirabile. Per tutta la vita è stato del resto un ebreo sui generis, non praticante e lontano da qualsiasi tentazione sionista, un ebreo che tendeva semmai all’assimilazione in una società, come quella rumena, che fino all’avvento del fascismo era andata accogliendo, più che perseguitando, le minoranze etniche e religiose. Così era stato fin dalla fine della Grande Guerra, quando, con la creazione tanto desiderata della Grande Romania, a Moldavia, Valacchia e Dobrugia (il nucleo originale) erano stati aggiunti gli altri territori, e quindi Transilvania, Banato, Bucovina, Bessarabia ecc., e la popolazione era passata da sette a quindici milioni di abitanti. Con il varo, come ricordano giustamente i curatori del volume, di una Costituzione di buon livello, che avrebbe dovuto garantire la civile convivenza di etnie e popoli diversi.

C’è solo un punto dell’introduzione sul quale devo tuttavia dissentire, e riguarda lo spazio dato al dossier Toladot contro Mircea Eliade, che con il Diario non ha nulla a che vedere, se non per il fatto che esso vi è stato usato da terzi come prova a carico. Non vorrei passasse l’implicita equiparazione, che a me pare forzata, tra le posizioni politiche di Sebastian e quelle di altri brillanti intellettuali dell’epoca, primi fra tutti lo stesso Eliade ed Emil Cioran, equiparazione che fu peraltro lo stesso Eliade a proporre nella famosa lettera a Gershom Scholem del 3 luglio 1972 in cui tentò di rifarsi una verginità politica. 

In comune tutti loro hanno il fatto di aver subìto l’influenza di un mentore, il filosofo e ideologo reazionario e antipositivista Nae Ionescu, che sui giovani di quella generazione ha esercitato un fascino innegabile. Il carismatico Ionescu fu colui che “scoprì” Sebastian in qualità di presidente della commissione al suo esame di maturità, che gli fece ottenere nel 1930 una borsa di studio per un dottorato in Francia, che lo accolse nella redazione della rivista “Cuvântul”, dove Sebastian rimase dal 1927 fino alla fine del 1933, benché Ionescu e la rivista stessero virando su posizioni sempre più oltranziste e totalitarie. A livello personale, a lui Sebastian fu sempre grato e legatissimo, anche dopo il famoso “incidente” del 1934 della prefazione a Da duemila anni, che per Sebastian divenne lo spartiacque fra le precedenti posizioni conservatrici e la successiva adesione a un liberalismo di stampo occidentale. (Ricordiamo in due parole che nel 1931 Sebastian aveva chiesto una prefazione a Ionescu, il quale all’uscita del libro, nel 1934, gli dette un testo violentemente antisemita, in netto contrasto con il tenore del romanzo stesso, che Sebastian decise tuttavia di pubblicare, suscitando un vespaio di polemiche e finendo per essere attaccato tanto da sinistra quanto da destra, tanto dagli ebrei quanto dagli antisemiti.) 

Quanto a Eliade, di Ionescu non fu solo, fin dal rientro dall’India nel 1933, l’assistente, ma nel luglio 1938 finì per qualche mese con lui nel campo di prigionia di Miercurea-Ciuc, accusato di essere un attivo fiancheggiatore della Guardia di Ferro. Secondo un calcolo effettuato da studiosi del giovane Eliade, su 274 articoli da lui scritti in quegli anni, 25 possono essere considerati esplicitamente filo-legionari. In seguito, Eliade ha tentato in tutti i modi di destituire d’importanza la sua militanza nel movimento, presentandosi nelle sue memorie come vittima degli eventi, ma oggi sulla sua adesione non ci sono più dubbi. Restano semmai da stabilire le vere responsabilità, forse morali più che materiali (più prossimità intellettuale, insomma, che militanza attiva), e se abbia aderito anche all’antisemitismo del movimento, o solo ad altri tratti ideologici, in particolare la vocazione mistico-religiosa. È vero anche che, proprio in occasione della scandalosa prefazione di Ionescu al libro di Sebastian, Eliade dimostrò una certa indipendenza di giudizio criticando il suo maestro – anche se, anziché condannarne l’antisemitismo, si limitò a negare che si potesse escludere a priori (come faceva Ionescu) l’eventuale conversione degli ebrei al Cristianesimo – e che è sempre stata meno marcata, da parte sua, l’adesione ai principi cristiano-ortodossi del movimento. Ma le sue posizioni politiche di allora sono piuttosto chiare. In un articolo del 1937 considera i bolscevichi (in quanto distruttori di chiese) più pericolosi dei nazisti che perseguitavano gli ebrei. In un’intervista del dicembre dello stesso anno afferma di credere fermamente nella vittoria finale del movimento legionario. Un altro esempio, sempre del 1937, è uno scritto commemorativo di due legionari morti in Spagna nelle file franchiste, in cui Eliade magnifica il loro sacrificio quale presupposto per la creazione dell’uomo nuovo prefigurato proprio da Ionescu e per la rigenerazione dell’intero paese. Infine, nel Diario portoghese, scritto fra il 1941 e il 1945, forse per il timore, in parte giustificato, di un assorbimento della Romania nell’orbita sovietica, si esprime a favore di una vittoria nazista e rivendica il proprio passato legionario. Tutte posizioni che in seguito cercherà di sfumare o di negare.

Ora, tra Eliade e Sebastian una differenza c’è, ed è molto semplice: al più tardi a partire dal 1934 (e sia pure, come scrivono i curatori, “con un ritardo che sconcerta”) Sebastian si allontana decisamente dagli insegnamenti di Ionescu, abbracciando posizioni liberali e filobritanniche, mentre Eliade rimane fedele all’ideologia legionaria, con un picco nella partecipazione al movimento fra il 1936 e il 1938. Riguardo a Hitler, dopo aver correttamente ricordato che Sebastian era stato uno dei pochi a inquietarsi del nuovo corso tedesco, nel volume di memorie Le promesse dell’equinozio Eliade scriverà: 

“Cercavo di difendermi con un rovesciamento disperato, paradossale di tutti i valori: accettavo le morti intorno a me, accettavo anche quelle che sapevo che sarebbero venute, come un sintomo del mondo nuovo che sarebbe dovuto nascere.” 

Forse è per questo che nel 1939, commentando l’invasione della Polonia, se la prese con gli ebrei che resistevano perché “abusavano degli scrupoli tedeschi” e concluse che per la Romania sarebbe stato meglio diventare un protettorato tedesco, piuttosto che essere invasa ancora una volta (il corsivo è mio) dagli ebrei? Nel 1941, peraltro, alla sconfitta finale del movimento legionario, Eliade sarà fra quelli che aderiranno prontamente al nuovo corso, facendosi nominare all’Ambasciata di Lisbona, lautamente remunerato dal governo fascista di Antonescu. Viene da dire che non sbagliava forse Sebastian, il quale, nel registrare le oscillazioni dell’amico come un sismografo – ma: “è legionario più che mai”, commenta ancora il 27 maggio 1942 –, lo definiva, almeno dal punto di vista politico, un “ingenuo”.

Quanto a Cioran, il discorso non è troppo diverso. Commentando l’esito disastroso della ribellione legionaria del gennaio 1941 dichiarerà: “Con questo paese la Legione ci si pulisce il culo”. (Il 1941 è peraltro anche l’anno del massacro di Iaşi e dell’avvio delle deportazioni di ebrei dalla Bucovina verso la Transnistria.) Ma già nel 1936 Cioran aveva scritto un imbarazzante ditirambo per Hitler, “miracolo di una Germania risvegliatasi dalla decadenza”, da cui dovrà poi prendere le distanze. Con la differenza, tuttavia, rispetto a Eliade, che dopo la guerra Cioran ha mostrato di rendersi conto, almeno in parte, dei suoi errori di gioventù, attribuendo la sua adesione al fascismo a una sorta di cecità giovanile e all’impulso di porsi sempre controcorrente – uno degli elementi che contraddistinguerà peraltro la sua attività di pensatore e filosofo nichilista anche nel dopoguerra.

Da loro Sebastian si distingue perché non è un camaleonte che cambia casacca a seconda del governo in carica, o un opportunista in cerca di incarichi lucrativi e vie di fuga, né uno che insegue a tutti i costi un succès à scandale, né un “rinoceronte” nel senso fissato una volta per tutte da Eugène Ionesco. E se – cosa che a noi appare quasi autolesionistica – in nome di una vecchia amicizia non è capace di togliere il saluto a xenofobi e antisemiti, sa però analizzarne e condannarne le manchevolezze e le incoerenze. E non resta mai solo: malgrado il crollo della società che lo circonda è sempre attorniato da figure magari dolenti, ma luminose, dall’editore Rosetti al principe Bibesco, dalle donne che ama e che talora lo accettano come spasimante agli attori e registi che lo proteggono, consentendogli di continuare a inscenare le sue opere teatrali sotto falso nome. Tutto questo emerge appunto dal Diario, in cui, pur nello squallore e nella desolazione dei tempi che gli sono toccati in sorte, Sebastian riesce a presentarci un quadro variegato della sua condizione personale e professionale. La condizione di un provinciale – era nato a Brăila, nella “città delle acacie” (per citare il titolo di un altro suo romanzo), lo stesso vibrante porto fluviale dove vedono la luce il suo mentore Ionescu, i poeti Panait Istrati e Ilarie Voronca e il compositore Iannis Xenakis – riuscito però a integrarsi nell’effervescenza che aveva caratterizzato la capitale negli anni Venti e Trenta.

Chiudo segnalando un altro peccatuccio (veniale) del libro: la copertina. L’editore ha infatti riutilizzato la stessa, peraltro suggestiva, fotografia di Sebastian ventenne già scelta da Fazi per la copertina del romanzo Da duemila anni, e prima ancora da Penguin per l’edizione inglese. Considerati gli anni coperti dal diario, sarebbe stato opportuno, a mio avviso, scegliere l’immagine di un Sebastian più maturo. Ma è un dettaglio che nulla toglie all’impresa, finalmente compiuta, di donare al lettore italiano un autentico capolavoro. Di cui speriamo solo che qualcuno, nel nostro distratto mondo letterario, si accorga.

Raoul Precht

*In copertina: un’opera di Corneliu Baba

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