Michael Cimino esordisce con “Una calibro venti per lo specialista” per la Malpaso di Clint Eastwood, nel 1974. Precedentemente aveva curato solo due scenografie e non possiede una formazione cinematografica, a differenza degli autori della New Hollywood degli Anni ’70. È un architetto che ha girato solo alcuni spot pubblicitari per la General Motors e la United Airlines. Dopo un periodo di inquietudine dovuto a progetti appena sbozzati e poi abortiti, ha l’occasione di cimentarsi nella regia col supporto di una produzione più generosa (la Universal affianca la Emi nella produzione del suo secondo cimento filmico), per la prima pellicola che affronta direttamente, di petto, la vicenda del Vietnam, se si eccettua il reazionario ed enfatico “Berretti verdi” di Ray Kellogg e John Wayne. E realizza il folgorante “The Deer Hunter” (1978) conosciuto in Italia col titolo “Il cacciatore”: un’opera seconda di quelle che in molti vorrebbero poter realizzare, per cui ottiene ben cinque Oscar su nove nomination, e che pure getta lunghe ombre sui suoi lavori successivi, quasi che gli fosse impossibile, poi, eguagliarla.
Una pellicola che è innanzitutto la storia di un’amicizia virile fraterna tra i due protagonisti, un Cristopher Walken (Nick nel film) intenso e sfuggente, mai sopra le righe, e un Robert De Niro (Mike) dalla recitazione solida e egualmente convincente, anche se forse, a dispetto dell’Oscar, un po’ meno ricca di sottili sfumature. La trama è essenziale, minima, e anche il quadro socio-politico, che pure affiora magistralmente nell’incipit in cui l’ambientazione è quella proletaria di un gruppo di immigrati, non solo rimane un sottofondo, ma è anche discutibile dal punto di vista della veridicità storica se non sul piano ideologico. Parliamo della Guerra del Vietnam, a cui buona parte dei protagonisti che incontriamo in modo corale e splendidamente pennellato all’inizio del film – celeberrima la lunghissima sequenza della festa di nozze che annuncia la trenodia del finale col dettaglio di una goccia di vino rubino sul candido abito nuziale della sposa –, sono chiamati a partecipare.
Rendere qui merito della trama in maniera pedissequa sarebbe irrilevante rispetto alle nostre intenzioni, una trama che poi, abbiamo detto, è rasciutta ed essenziale. Ma sono piuttosto i temi che il film suggerisce ad offrire un impianto coeso e possente al film, la sua perfetta meccanica diegetica, lo sguardo pessimistico e anarchico del regista, il suo inno ad una libertà individuale tragicamente strozzata dall’insensatezza di una società violenta e iniqua, che disegna i destini al di là della loro squisita volontà e specificità esistenziale, o rimanendo forse al di qua, della loro portata potenziale.
Le scene della caccia al cervo, sulle ieratiche e maestose montagne della Pennsylvania, sono tra le pagine più struggenti e vitali che il cinema possa ricordare, suffragate da una fotografia di un nitore e di una perfezione sorprendenti – curata da Vimos Zsigmond –, e risultano anche la chiave di lettura più profonda dell’intera vicenda narrata. “Una sola pallottola” è il motto di De Niro, una sorta di patto tra lui e l’animale cacciato, una forma di rispetto quasi fraterno verso di esso, ma anche il segno manifesto che non v’è una supposta superiorità tra lui e il cervo, qualcosa di indefinibile li affraterna e unisce, e va oltre le regole del consorzio umano e civile, o civilizzato che spesso è peggio: qualcosa di intatto che può ripetersi come un rito solo in quei luoghi vergini in cui la macchina stritolante della società non ha niente da dire o insegnare o prescrivere. Ma cosa lega i due protagonisti principali? Qual è il loro profondo patto sodale? E cosa anticipa in modo noumenico del finale del film, che è una tragica deriva di uno di loro e segna l’assenza definitiva di questi alla propria vita e alla fedeltà e presenza dell’altro? Si respira, nell’incipit, una sorta di aria di presagio e il suggello di un’amicizia splendida e sentita, di fronte alle sue ombre minacciose. V’è una festa nuziale come detto, un momento agapico nel segno della tradizione – una tradizione trapiantata nel Paese delle “grandi opportunità” che si rivela però esiziale per il destino dei protagonisti, salvo poi essere patriotticamente celebrato nel finale ma in sottotono, con sottile nostalgia e disillusione –, un momento di gioia e celebrazione del sacro con l’annuncio di un nascituro per la coppia che si unisce in vincolo; ma sappiamo quasi da subito che questa rimarrà, nella vita come nel film, una realtà e una zona insulare rispetto al seguito.
Nick strappa una promessa a Mike: se non dovesse tornare dalla guerra l’amico dovrà andare a cercarlo e ricondurlo a casa, tra la sua gente. Una promessa cui Mike vorrà tener fede ma non potrà inverare nei fatti. Nick, traumatizzato dalle crude esperienze di guerra, rimarrà in una Saigon infernale – la scena della riloga in cui Mike viene letteralmente traghettato verso il luogo dove l’amico sfida la morte in un gioco alienato di fissazione a un precedente trauma, richiama appunto un’iconografia e una letteratura da Ade – e in una fase di interregno, un non-luogo dallo statuto indefinito; rimarrà lì a sfidare la sorte con la roulette russa, svuotato d’ogni fiammella di vita, reso un automa dalla guerra stessa, deprivato del luogo sacro della propria esistenza e del significato egualmente sacro della sua vecchia amicizia. Significato che riaffiora appena in punta di labbra prima che compia di nuovo il gesto della sfida che lo condurrà alla morte: “Una sola pallottola”, questo risponde all’amico che lo sollecita a tornare a casa, riconoscendo per un solo attimo ancora tutto il mondo da cui era andato alla deriva. Il suo sguardo si fa tutt’altro che vetrigno, quasi sorride in contrappunto con le labbra, e poi torna l’abisso. Ma Cimino è sapiente oltre ogni dire, e sceglie di non terminare il suo racconto filmico in quel picco di intensità cruenta, ma a casa, in America, tra i sopravvissuti raccolti in un banchetto ben più triste di quello iniziale, egualmente agapico ma tragico, facendogli cantare sommessamente e con tristezza l’inno americano. Un finale memorabile che è, come detto, la trenodia di tante vite e di un intero Paese e assieme una sua nostalgica celebrazione.
Ma anche l’antica Frontiera americana si è macchiata di sangue: il sangue delle minoranze e degli oppressi; e la polveriera di razze e culture fra loro eterogenee che la caratterizza, innesca una miscela esplosiva ne “I cancelli del cielo”: terzo cimento del regista Cimino (Wyoming 1890, guerra della Contea di Johnson). La Storia americana è tale da comprendere in sé moloch di sangue dettati da due elementi basici: razza e ricchezza, e mai il genere western si era spinto a una tale dolente amarezza e pietoso sguardo su quei cubitali sacrifici come in questo film.
Cimino inscena la brutale macchina del proto-capitalismo americano, secondo uno schema apparentemente semplice: da una parte i ricchi proprietari terrieri, dall’altra l’enorme massa di contadini, perlopiù immigrati, che dopo epici sforzi– e qui il termine epico va inteso in contrasto con lirico, là dove si presume debba regnare una fotografica oggettività – si vedono assegnato uno sputo di terra senza niente sapere di ciò che li aspetta: ovvero la miseria, lo stento, la privazione, un tributo altissimo da pagare per l’innesto delle loro vite nel glorioso ceppo americano. All’inizio dell’era reaganiana esce questo film monumentale dai costi ciclopici che raffigura la scena di fine Ottocento di un America figlia delle glorie pionieristiche e dagli spazi interminabili, dove l’abbondanza di terra aveva dettato la cosiddetta Dottrina Monroe, con una forma di realismo pittorico sconvolgente (si veda l’analogia della ricchezza e del nitore estetico della fotografia del film, della composizione delle immagini, con l’arte pittorica di un Albert Bierstadt) e una profondità di campo figlia di ricerca tecnica quasi prometeica, dove lo spazio esteso e la visuale amplissima fanno da controcanto a inquadrature in cui Cimino incornicia paesaggio e personaggi secondo una logica dell’immagine dentro l’immagine, dove tutto appare visibile a ogni costo e il movimento si fa poetica. Se la prende lunga il regista, pennellata dopo pennellata, attribuisce ai soggetti una psicologia minuta e verosimile senza scordare la loro collocazione in uno spazio di azione più ampio, ovvero la Storia, il loro Tempo. Così la pellicola si dilata, assume un aspetto diacronico e tempi lunghissimi che vanno, però, a essere spezzati da immagini crude e rapide, iperrealistiche e sconcertanti per spiccia efficacia. Parlavamo di un sacrificio, e l’incipiente ottimismo spinto dell’era reaganiana non poteva che accogliere questo film monumentale e amarissimo con amplissime riserve se non con sdegno. Cimino commette l’errore fatale, in seno a una società in cui tutti sono in ascesa oppure in caduta, una società protestante in cui il successo e il denaro sono figli di una sorta di investitura addirittura divina presso coloro che ne hanno, di incentrare il suo film in un esempio di lotta di classe. Ed è punito sia dalla critica, che accoglie il film in modo freddo e a tratti persino derisorio, sia dal pubblico che non ne comprende né il significato né la ragion d’essere, non potendolo forse inquadrare in niente che si fosse visto fino ad allora nel genere western.
“È un film così sbagliato da far sospettare che Michael Cimino abbia venduto l’anima al diavolo per ottenere il successo de Il cacciatore, e che ora il diavolo sia venuto ad incassare”
queste le parole lapidarie espresse nella recensione firmata da Vincent Canby sul New York Times, che esce il giorno della prima newyorkese.
Non è un film d’intrattenimento e non è una pellicola cervellotica, verbosa e concettosa, è piuttosto una sintesi mirabile di una voce estetica nuova e di un insieme di eventi e significati trasversali a più generi. Il film esce nelle sale “brutalmente” mutilato dalla produzione che impone tagli all’originale di quasi tre ore di pellicola, e il risultato, come dicevamo è un flop colossale e una pietra tombale per la United Artist, che a fronte del budget stellare di quarantaquattro milioni di dollari ne incassa poco più di un milione. Solo in maniera relativamente recente è stato rivalutato dalla critica e apprezzato da un pubblico più ampio, ma Cimino aveva già addosso l’etichetta di autore maledetto, e ha sempre dovuto faticare per realizzare i suoi successivi film.
In filigrana, i temi cari sono quelli del western classico, collocati in un paesaggio selvaggio vi sono amore, amicizia, vendetta, battaglia in dimensioni epiche; ma la logica del western classico è rovesciata spudoratamente, è un atto di accusa che qualcuno ha voluto vedere tinto di una sorta di marxismo (spiccio?) di fondo. Ma tornando al paesaggio, romanticamente, esso diviene forse voce dell’anima, struggente lontananza che trascende il visibile, annuncia una sorta di ultima non-attingibilità… Una voce forse inascoltata, come inascoltate sono le istanze e i reali sentimenti dei protagonisti di questa immensa pellicola. Perché sembrano cadere in un vuoto di sostanza e direzione, abitando una zona crepuscolare in cui non ha statuto d’essere la certezza, ma un’invariabile forma di inutile approssimazione che stempera i propri colori proprio come gli immensi cieli che sembrano essere il solo elemento di unione in terre in cui regna il conflitto e la divisione, in un misto diseguale e barbaro, refrattario ad usi più urbani e alla conciliazione, con sé come con l’altro. I personaggi, dicevamo, sembrano vivere un destino in cui l’aporia morale segna uno iato imprescindibile tra pensiero e azione, tra volontà e stato reale delle cose. Così, nel film, v’è tutta una prima parte in cui questi conflitti interiori prendono voce per poi sfociare ed esteriorizzarsi nella forma del conflitto materiale, fisico, fatto di sangue e polvere da sparo. Seguono un loro preciso destino, ancora in chiave romantica, i personaggi principali come tutti quelli che sembrano essere solo da cornice alla narrazione principale, un destino ineluttabile contro cui guerreggiano in vano: se il riscatto delle masse proletarie e contadine trova il suo apice di accordo e spinta propulsiva durante il raduno nel capanno che prelude allo scontro, come in un momento tipicamente polifonico in cui la folla, la massa confluisce in una sorta di mimesi violenta, in un crescendo ove le singole voci sono di innesco ad una catarsi collettiva; dall’altro lato la battaglia è una vera mattanza in cui l’unione non fa e non può fare la forza, in cui i singoli non compongono un fronte compatto e inarrestabile, ma vengono uccisi uno ad uno dai cecchini ingaggiati dai grandi proprietari di bestiame con apparente facilità, descritta con uno spicinio di immagini che li colgono soli anche se facenti parte di un gran numero.
L’epica del film parte in sordina con una sorta di ritrattistica di anime e pensieri, per poi sfociare in una mattanza dei corpi, ma solo dopo che, anche di quelle anime, il destino ha eretto una gigantesca lapide. Non è un caso se l’incipit del film rappresenti il falso orizzonte assiologico in cui si muove la poetica e la mistica caratteristiche del sogno americano: giovani laureati che si avviano a un ruolo che ratifica semplicemente l’abuso e il crimine dei potenti sui deboli, così in contrasto con le parole che nella cerimonia di laurea pronuncia il decano descrivendo come intento principe dell’uomo di cultura, il travaso della propria conoscenza e della propria scienza nell’incontro con l’uomo incolto, l’uso di essa allo scopo di una sorta di evangelizzazione laica di coloro che ignorano, non sanno. Ma quanto è greve il fardello di chi sa! Quanto è colpevole la sua scienza assoggettata al mantenimento, ad ogni costo, dei rapporti di forza attraverso cui si esprime il giogo delle classi privilegiate sulle masse, appunto, incolte e portatrici di una vita scandita dalla miseria e dalla fatica. Questo orizzonte utopico, demagogico vorremmo dire, trova la sua grande lapide nel finale del film, in cui viene coinvolto per ordine del governatore e con l’avallo dello stesso presidente degli States, persino l’esercito a cimento dello sterminio degli immigrati rivoltosi.
Il protagonista, lo sceriffo di quella povera gente, non può nulla contro i meccanismi ben oliati del potere e dell’autorità che li sancisce, rischia egli stesso di essere arrestato e giustiziato – in questo assistiamo a due volti della legge, quello più operativo e umile, empiricamente calato nei costumi e nelle tradizioni, nella vita materiale e morale, della povera gente, e quello più in alto, che legifera e predispone, apparecchia l’ingiustizia mascherandola di “spezie” libertarie. Questo aspetto bifronte, si incarna in uno scontro viscerale e intestino che simboleggia due differenti volti dell’America, da sempre in conflitto fra loro e tra i quali non può che prevalere, con la sua falsa retorica, quello più blasonato e direttivo.
Parlavamo di singoli che compongono le figure di un grande affresco, storico nei due sensi della storia collettiva e della storia dei singoli; ma se la storia collettiva è fatta di violenza e aspre verità, non le è da meno la storia ontica dei singoli, la loro guerra privata per l’ottenimento di scopi distanti come le distanze smisurate del paesaggio. Così il contraltare alla battaglia dei corpi, è la battaglia per l’amore, o dell’amore, in cui sono calati i due principali protagonisti maschili che sembrano contendersi – fuori da ogni schema di veridicità perspicua degli esiti – l’amore di una prostituta. Ancora un dilemma, ancora uno schema bifronte incarnato da due volti differenti dell’amore, entrambi appassionati, entrambi sinceri, ma dissimili in tutto il resto. Si viene a configurare tra i tre una interessante triangolazione più simile, per sviluppo pratico e psicologico, a tanto cinema francese della Nouvelle Vague, che non al cinema classico statunitense. La domanda pregressa a questo sviluppo triangolare trova il suo momento topico in una battuta del film, che si potrebbe così parafrasare: “può una donna amare due diverse persone al medesimo tempo?” La risposta implicita è “sì”, sebbene i colori emotivi e il tenore di questi due amori che convivono, siano assolutamente eterogenei fra loro. Perché l’ambiguità e lo spazio crepuscolare di ciò che è chiamato ad essere decisivo nei rapporti, è quello che sembra interessare Cimino fin da subito.
Da una parte abbiamo Nathan (Christopher Walken) un uomo granitico e laconico, apparentemente non toccato da grandi conflitti morali o dubbi sull’esistenza, ma sostanzialmente libero e ben distante dal ruolo di lacchè che incarnano altri personaggi orbitanti attorno alla comunità privilegiata, e ciononostante, come si evince fin dall’inizio, pur sempre al soldo della compagine imprenditoriale che di lì a poco darà atto al massacro dei poveri immigrati con l’avallo del Governo e l’intervento, perfino, dell’esercito; essa ha stilato una lista nera di soggetti definiti “anarchici” e “delinquenti” ( si legga “comuni ladri di bestiame”) – da uccidere per mezzo di assassini prezzolati – in cui risulterà presente anche la prostituta da lui amata, la quale accetta, in pagamento per le prestazioni sessuali, anche giovane bestiame, spesso appunto rubato, oltre che contanti.
Dall’altra un James (Kris Kristofferson) soggetto più permeabile e romanticamente inquadrabile come figura positiva, in conflitto con la dilagante ingiustizia già descritta, portatore di valori quasi evangelici e di quell’aura illuminata che la sua estrazione accademica vanta ben altrimenti, cioè senza far seguire ad essa un agito, una pratica davvero umana e al servizio di una più equa giustizia. Egli è ugualmente libero, ricco di famiglia, ma più simile a un cane sciolto, un outsider che si muove mischiandosi al popolo e partecipando i suoi usi e le sue istanze, senza però appartenere più ad esso che a qualsiasi altro contesto o luogo dell’esistenza… Una sorta di “buono” apolide come può esserlo il mare, che lambisce ogni riva senza appartenere a nessuna. Sembra che vi sia una sorta di codice amicale, tra i due protagonisti, che impone a entrambi un rispetto profondo per l’altro, un codice non scritto che li porta, forse loro malgrado, ad essere sulla stessa strada sebbene sparigliati dall’amore che provano per la stessa donna. Essi si contendono Ella (la prostituta interpretata da Isabelle Huppert), ma il loro è un duello all’arma bianca, non alla polvere da sparo, così distante dagli stereotipi del western da far pensare, come dicevamo, a tanto cinema del Vecchio Continente.
Pare quasi che, in prima battuta, l’analogo possa essere “Jules e Jim” di Truffaut, ma calato, in questo caso, in un’epica tutta americana, in cui la morale e la spinta alle azioni determinanti di una vita siano ridotte all’osso, ma non per questo meno veridiche. Pare che Nathan offra ad Ella delle sicurezze e un amore più domestico che sbrigliato, una protezione non solo ideale ma pratica e un maggiore agio sociale; mentre James incarna ai suoi occhi la passione senza freni, ma vista la natura nomade e più trasversale del personaggio, anche un porto meno sicuro e, soprattutto, propositivo della scelta di abbandonare quelle terre e la sua attività, per viaggiare lontano: scelta che Ella non è disposta a compiere. Ora, le inquadrature che ritraggono James ed Ella delineano un rapporto paritetico e molto lineare, non sbilanciato: campi e controcampi e una omogeneità di spazio entro cui si muovono i loro dialoghi. Mentre con Nathan il discorso è diverso, più asimmetrico, misterioso, pervaso di malinconica rassegnazione sia da parte di Ella sia da parte sua; senza contare che i suoi rapporti fisici con la giovane prostituta sono immancabilmente prezzolati; dice Ella, letteralmente, che ama Nathan, ma ama anche i soldi… La ragazza sembra inverare una convivenza tutt’altro che dualistica tra una certa rapacità, un certo pragmatismo morale e una dolcezza e carica malinconica infinite… È anch’essa un personaggio ambiguo, stratificato, e il suo atteggiamento non è sbrigativamente classificabile come incoerente. La vera incoerenza, sembra voler rimarcare Cimino, non appartiene ai singoli le cui motivazioni sono un quadro del molteplice e della natura cangiante dello spirito, ma agli attori sociali e governativi che fanno sfoggio di demagogia e violenza, che assoggettano i deboli e sacrificano tutto ad una logica del profitto macchiata di sangue. La colpa, non è ascrivibile ai conflitti esistenziali dei protagonisti, anzi, anarchicamente, essi vivono tutto lo spettro dello sperimentabile in termini di sfumature dello spirito, si dichiarano liberi e agiscono secondo questo principio di libertà che è la sola zona veramente franca del film. La colpa è piuttosto ascrivibile a chi, decidendo per sé, decide anche del destino di molti altri, delle masse, in questo caso delle masse povere e disagiate.
Vorremo concludere questo sguardo su “I cancelli del cielo” – volutamente più ampio di quello dedicato agli altri film di Cimino – dicendo che ciò che porta lo spettatore a interrogarsi, di fronte a questo film, ciò che eccede, ridonda in modo alogico la datità delle immagini con i loro elementi raffigurati in insiemi quasi pittorici, come detto, riconduce forse a quello che Barthes chiamava “senso ottuso” …Come per un riverbero duplice, triplo o addirittura plurimo, i contesti rimandano a una percezione che esorbita il contingente raffigurato, qualcosa di “evidente, erratico, ostinato” che ha un quid di ridondante rispetto agli elementi informativi o simbolici enumerabili; il significato di questo continuo rimando risulta forse occulto sia al regista, al suo intento programmatico, sia allo spettatore – almeno in prima battuta. È qualcosa di “onirico” e “sotterraneo” che striscia nei dialoghi e nelle inquadrature, non perfettamente definibile né misurabile, ma che rende unica l’esperienza dello spettatore davanti ai “Cancelli del cielo”, una pellicola atipica che riproduce affreschi indimenticabili e una visione corale, profonda, ancorata a radici che muovono per propaggini nell’humus della natura umana e dell’esperienza violenta del destino dei singoli e di una Nazione.
“L’Anno del dragone” (1985) ha ritmo serrato, convulso, efficacia icastica, e Cimino si lascia andare in un crescendo visionario che abbandona la credibilità sul piano del disegno sociale per dare rilievo quasi fantastico ad una sfida tra due personaggi in violento conflitto – che rappresentano rispettivamente il volto della legge e il volto di una mafia giovane e in ascesa –, tratteggiando in modo ben più credibile il retroterra psicologico e antropologico del protagonista interpretato da un Micky Rourke insolitamente convincente, che nonostante il suo ruolo di poliziotto pluridecorato è un antieroe e un maledetto. Notevole per scelte cromatiche e plastica, avvolgente suggestione, la carrellata folkloristica e quasi fantasmagorica sugli ipnagogici riti di una Chinatown corrottissima, in bilico tra tradizione e futuro (un futuro criminogeno e quasi distopico).
Seguono “Il siciliano” (1987) e “Ore disperate” (1990). Ne “Il siciliano” Cimino si avvale della collaborazione di Katy Haber, assistente di Sam Peckinphah per moltissimi anni, e di Torelli (costumi) che confiderà poi al regista di “non aver lavorato tanto dai tempi di Visconti”; ma nonostante il regista si documenti con puntiglio e passione sulla vicenda del bandito Giuliano, al centro della pellicola, il risultato non è così convincente. “Ore disperate”, invece, con un Micky Rourke funzionale e un Anthony Hopkins decisamente fuori parte, è il remake del film omonimo di Wiliam Wyler (1955) con Humphrey Bogart, e che sembra, per trama e sviluppi, in sintonia con i temi e la carica provocatoria e perturbante del cinema di Cimino, ma risulta un film tutto sommato pallido seppure con qualche guizzo “ciminiano”.
“Verso il sole” (1996) è l’ultimo lungometraggio del regista e a nostro modo di vedere un film di nuovo significativo. Un testamento concretissimo e mistico assieme, un road movie che è un viaggio iniziatico e un’altra storia di amicizia. Due personaggi sparigliati per estrazione sociale e radici antropologiche, ma appaiati da un destino di crescita e trasformazione. Nel pieno degli Anni Novanta, fucina di rampantismo e celebrazione del mito del profitto, Cimino disegna un percorso che è fisico – attraverso l’America delle radici, dove il paesaggio (filma con sapienza la Monument Valley già filmata a suo tempo da John Ford) è di una fierezza e di un’intatta bellezza che toccano il cuore – ma anche interiore, verso il lato più vergine e permeabile dell’animo, verso una forma oblativa di amore che recupera al personaggio (il Dr. Michael Reynolds) più materialista e divezzato al canto e alla poesia dell’anima, una dignità diversa e uno spessore inedito per la sua vita tetragona da ottuso arrampicatore sociale. Il film cresce piano, con qualche dispositivo narrativo discutibile e frusto, per diventare immenso, di un respiro amplissimo che rivendica la dimensione del sacro e assurge a metafora della scoperta, di sé e del circostante, degli spazi vasti del deserto in cui la corsa, per quanto sfrenata, non può che avere tempi dilatati – e in cui i protagonisti sono chiamati a conoscersi a fondo per stabilire una fratellanza – e degli spazi, ancora più ariosi, dello spirito. Il popolo indiano e la sua cultura, divengono il simbolo e il medium di una via dimenticata da ripercorrere, e che Michael intercetta acquisendo per nuovo viatico di un’esistenza l’altra America che cantava Whitman, quella fertile d’anima e vitalismo, quella lustrale e davvero sconfinata per potenzialità e libertà. Dal canto suo, il ragazzo navajo (Blue), suo compagno di viaggio, va incontro ad una morte consapevole e dignitosa che non sembra essere l’ultima parola su un’esistenza costretta e sprecata, ma una fusione mistica con una natura che accoglie e conferisce senso nuovo. Come un attento chimico dell’anima, Cimino si diverte per tutto il film a creare azioni e reazioni tra due elementi eterogenei ed esplosivi, i protagonisti, aspettando con pazienza – e lo spettatore aspetta insieme a lui – quella che diviene nel finale una miracolosa alchimia di vita e un canto di riscatto e libertà selvaggia.
Michael Cimino si spegne il 2 luglio del 2016 all’età di settantasette anni, consegnando al cinema solo sette film e lasciando purtroppo incompiuti molti progetti. Questo regista atipico e memorabile, non meritava un destino segnato da un sostanziale isolamento artistico e da ristrettezze sul piano dei finanziamenti e della libertà espressiva; e può e deve essere rivalutato e celebrato degnamente.