Dario Argento e l’ossessione del sangue. Il thriller come svelamento
Cinema
Massimo Triolo
La notte dei morti viventi, film del 1968, girato con pochissimi mezzi e un budget risibile, ma che avrebbe cambiato le regole della storia del cinema horror, è l’esordio alla regia, a soli ventotto anni, dell’autore horror di culto George A. Romero, regista e sceneggiatore che ha fatto di questo genere qualcosa di assolutamente inedito e originale, innervato di sfumature psicologiche, critica sociale, e, a suo modo, politico e dissacrante.
Ma partiamo dall’inizio: quel film, da molti ritenuto un capolavoro (diretto, scritto, fotografato, montato e musicato dal regista) e che si svincolava dal classico registro gotico tipico della Universal prima (con titoli pur originali e di assoluto rilievo come i due Frankenstein di Whale che rivisitavano in modo potente il tema prometeico romantico presente nel romanzo della Shelley) e della Hammer Films poi, casa produttrice di film horror fondata in Inghilterra nel 1949, la quale attraversò dettandone le regole, più di due decenni di produzioni horror in sostanza omologhe – ma più mediocri esteticamente e tematicamente – al lavoro del regista americano e produttore Roger Corman, che adattò con eleganza formale e compostezza classica i molti angosciosi e tenebrosi elementi presenti nei racconti del grande Edgar Allan Poe. Quel film, dicevamo, che sbalza il genere in una direzione più cruda, quasi documentaristica, in un bianco e nero espressionista e obliquo nelle inquadrature, spesso grandangolari; incalzante nel montaggio, molto più crudo di qualsiasi altro prodotto di genere che si fosse fino ad allora visto. I film della Hammer, bulimica e commerciale nella produzione, così come le produzioni americane, a confronto dell’esordio di Romero sembrano innocui, ingenui e “vecchia maniera”, plasmati tutti sul medesimo trito calco – ad eccezione di quelli di Corman, appunto, che era soprattutto un onesto artigiano del genere, ma capace di un’inventiva e un’efficacia formale di rilievo. È dello stesso anno della prima pellicola di Romero, una splendida eccezione ai filoni descritti, ovvero il Rosmery’s Baby di Polanski: claustrofobico, angoscioso, ambiguo e geniale… In cui il regista polacco riscrive le regole dell’horror, declinandolo in incubo familiare e piccolo-borghese dove il realismo e la sobrietà della messa in scena fanno sembrare credibile quella che in realtà è una sistematica distorsione allucinata e tale da sfociare in un “metafisico” che si fa metafora dei rapporti sociali e di classe; e in cui il demoniaco si sposa perfettamente al mantenimento dei loro equilibri di forza e al desiderio di scalata sociale.
Per il resto prima di Romero, la fantascienza e l’horror, nelle produzioni a stelle e strisce, con qualche rara eccezione, erano rimasti ostaggio di una morale maccartista e ridotta all’osso, ovvero: ogni minaccia tale da incutere terrore simboleggiava sostanzialmente la “minaccia comunista” e l’incombere dello spettro di una guerra nucleare.
Ora, molto prima, negli anni Venti e Trenta dello scorso secolo, l’espressionismo tedesco aveva già detto molto e molto genialmente nell’ambito del genere gotico: tre esempi classici sono il Nosferatu di Marnau (1922) – magistralmente “sovvertito” e reinterpretato da Herzog più di cinquanta anni dopo, in una chiave tale da sfiorare il sublime conciliando un registro in cui la natura si fa romanticamente specchio e diapason dello spirito dei personaggi nel segno della negazione e del tragico, e in cui Eros e Thanatos sembrano compenetrarsi senza soluzione di continuità –, Vampyr (1932) diretto da Carl Theodor Dreyer, nonché Il Gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene. Quest’ultimo merita un’attenzione a parte: prototipo di un genere ‘demoniaco’ in sintonia con un movimento culturale di grande rilevanza storica; di cupa ed esasperante suggestione, attraversato da recitazione antinaturalistica e con una scenografia volutamente posticcia – composta esclusivamente di tele dipinte – che scomponeva la logica delle forme”, imprimendo loro un carattere sguincio, angoloso, deformate secondo la logica, appunto, espressionista; dai molti riferimenti psicologici e simbolici (lo sdoppiamento della personalità, gli incubi, le ossessioni e le paure, il pericolo della trasformazione degli uomini in automi).
Ma perché ricondursi all’espressionismo, parlando di George Romero? Perché La Notte dei morti viventi non è un semplice film di genere, ma la dimostrazione che il genere horror può essere molto di più che un mero prodotto di intrattenimento, ghettizzabile dai più snob e scafati tra gli amanti del cinema. Benché Romero si sia sempre schermito – questo va detto – rispetto alla fetta di critica cinematografica che aveva ravvisato nel suo primo film metafore sociali e politiche, dichiarando che il suo intento era stato quello di creare un prodotto commerciale e di intrattenimento puro, nonostante questo, nell’America cannibalesca della guerra del Vietnam, i morti che tornano a vivere appaiono come una metafora incendiaria, un perturbante che potrebbe potenzialmente simboleggiare il ritornare continuo alla coscienza di un intero Paese – che tutto rimuove, nel cinema come nei media, della vera natura di quel disastro imperialista – della morte seriale in forma viva, una forma che reclama qualcosa di simile ad un funesto debito da pagare.
I morti tornano a vivere e si nutrono dei vivi, sempre più isolati e meno numerosi, che alimentando a loro volta, con la propria incapacità a far fronte all’emergenza, il numero dei cadaveri che camminano. I protagonisti del film, tra i quali il principale è un afroamericano – altro elemento inedito – si asserragliano in una casa di campagna per cercare rifugio dalla calamità che sta annientando il normale, quieto, sonnolento corso delle vite in una società in cui il solo rischio è quello di essere in caduta anziché in ascesa sul logaritmo del Sogno Americano e la guerra è, sì, intollerabilmente vicina, ma al contempo tenuta distante al pari di un tabù… Fatta forse eccezione per la grancassa del propagandismo militarista che influenzava pesantemente anche l’industria cinematografica.
Un tabù, dicevamo, ma anche una realtà che miete vittime nel popolo vietnamita, in modo seriale e in nome di un’ideologia criminale, come tra i figli della tanto celebrata ed enfatizzata patria, ovvero sangue del sangue di quei Pionieri che avevano edificato un Impero e uno stile di vita divenuto di un vitalismo aggressivo e muscolare, colonialista, moralmente miope e razzista, che uccideva programmaticamente in nome di una libertà posticcia.
Ora, le novità che Romero innesta nel filone horror, non risiedono tanto in queste sottotracce ampiamente discusse dalla critica – soprattutto dalla più generosa e benevola –, e non solo nel taglio documentaristico, naturalistico della messa in scena, ma anche e soprattutto nel comportamento dei personaggi messi alla prova in una situazione estrema di vulnerabilità e pericolo costante. Essi si comportano in modo irrazionale, confliggendo gli uni con gli altri invece di cercare di collaborare fattivamente all’emergenza. Sono vulnerabili non solo nel corpo – Topos tipico del genere horror di tutti i tempi – ma anche e soprattutto mentalmente e moralmente. Tutto avviene nell’arco di una notte, che è anche e principalmente la “notte della ragione”, l’eclissi di una convivenza civilmente evoluta e accettabile, il palesarsi di vigliaccheria e meschinità, nonché di un moto aggressivo e prevaricatorio dei personaggi gli uni sugli altri.
La figura più positiva e pragmatica del film è Ben: il giovane afroamericano che sembra costituire un’eccezione a questa “regola”, ma paradigmaticamente propone una via d’uscita all’incubo, che nel finale del film si rivela sbagliata. Mentre, attraverso un vero e proprio rovesciamento delle consuete regole drammaturgiche del genere, il personaggio più odioso, “uomo medio” di quella stessa schiera che Orson Welles definiva “criminale” ne La Ricotta di Pasolini, propone nel film la soluzione che si dimostrerà più efficace, ovvero non tentare la fuga, ma barricarsi nella cantina della casa.
Dopo numerosi tentativi di fuga, i personaggi muoiono uno ad uno, ad eccezione del principale che sfruttando in extremis l’idea iniziale del suo “contendente”, riesce a vedere le luci del mattino e il diradarsi della schiera di morti viventi che avevano assediato la casa per tutta la notte. Del finale, che si dimostra geniale e sovversivo, parleremo tra poco. Ciò che preme rilevare è che i veri mostri sembrano essere i vivi, regrediti ad uno stadio animale, illogici e impulsivi, artefici autentici della propria rovina.
Il protagonista principale, a mattino, può uscire cautamente di casa e osservare tutto alla luce del sole; ma è proprio in questa luce, che, caduto il velo della notte, trova la morte per mano di squadre paramilitari impegnate nella “disinfestazione” da i morti viventi, le quali scambiandolo per uno zombie, da lontano, come cecchini esperti lo uccidono. Uno dei finali più spicci e allo stesso tempo scioccanti, di un genere che a oggi appare purtroppo scevro di quella inventiva pionieristica di Romero, e col fiato corto dal punto di vista dello spessore, dell’originalità e della freschezza stilistica.
Si può dibattere a lungo sul genere di elementi di sottotraccia che abbiamo citato, all’interno del film: se esistano o meno, o abbiano avuto un loro statuto di origine nelle intenzioni dell’allora esordiente Romero. Resta il fatto che la saga degli zombie, con Dawn of the Dead (1979), Day of the Dead (1985), e in maniera ancora più esplicita nel più recente Land of the Dead (2005), si scaltrisce notevolmente, a livello contenutistico, in questo dissacrante filone di spietata critica sociale, ora nei confronti del consumismo della società di massa – nella seconda pellicola della saga, i morti viventi mostrano l’irriflessa pulsione ad appropriarsi di quelli che erano stati beni di consumo: una sorta di coazione a possedere che affiora sotto forma di reminiscenza della passata vita in cui tutto concorreva a imporre l’imprinting coattivo al consumo stesso – ora in chiave antimilitarista, come nel citato Day of the Dead, film più cupo e claustrofobico dei precedenti; fino ad arrivare al capitolo del 2005, che risulta una vera e propria distopia della società capitalistica, entro un quadro post-apocalittico organizzato secondo uno schema neofeudale, in cui si radicalizza il rapporto dominio/sudditanza tra la classe privilegiata – blindata in una fallica oasi-grattacelo sotto l’assoluto controllo di un proteiforme magnate – e la stipata, informe massa sottoproletaria che è costretta a vivere di sussistenza e sordidi espedienti, in immensi ghetti dove regna una spietata legge “darwinistica” della sopravvivenza del più forte sul più debole.
Gli ultimi due episodi di questa lunga e variegata saga sono rispettivamente Diary of the Dead (2008) e Survival of the Dead (2010), quest’ultimo un prescindibile cimento del regista nel trasfondere il già collaudato impianto drammaturgico dei precedenti film, di elementi ed estetica western. Altra attenzione merita Diary of the Dead, che costituisce piuttosto una riflessione inedita sul lato voyeuristico della registrazione/fruizione del fatto di sangue, e all’interno del cinema stesso, in una dimensione più meta-cinematografica, e nell’ambito della società dei media che cannibalizzano gli eventi più efferati riproponendoli con puntiglio e realismo ma nella sola ottica di fare del sensazionalismo quando non della brutta enfasi retorica; tutto questo con innesti tecnologici al passo alacre dei tempi, tempi di simultaneità dell’evento e documentazione permanente di ogni atto visibile e registrabile, in cui l’immagine filmata appare fatalmente ancora più spossessata di spessore carnale e traccia veridica. Qualcuno ha giustamente insistito sul coincidere del perimetro semantico del termine inglese “to shoot” (filmare) con il significato ben più minaccioso di “sparare”.
Tornando al capostipite della lunga saga, lì, come del resto nei capitoli successivi, non è molto importante sapere come e perché i morti tornano in vita, e nel corso delle pellicole la cosa non è mai esplicitata chiaramente, né è importante rendere conto pedissequamente della trama, sempre ridotta all’osso, ma risulta significativo ciò che viene alla luce nel muoversi e nell’interagire dei personaggi entro gli spazi in cui si rifugiano – simbolo forse di una Proprietà Privata da difendere con mano armata da ogni possibile minaccia –, che è una visione assolutamente pessimistica e nichilistica sul piano antropologico, in questo caso non solo inerente alla società americana, ma su scala universale.
Massimo Triolo