29 Ottobre 2019

“Io penzo che c’è l’inferno dei morti e quello dei vivi. E penzo pure che quello dei vivi è peggio di quello dei morti”: su Cetti Curfino, la donna bella & dannata di Massimo Maugeri

Massimo Maugeri, autore di romanzi, racconti e saggi (ricordiamo Trinakia park, edito da e/o nel 2013), collabora con vari giornali e periodici. Ha ideato e gestisce Letteratitudine, il blog letterario del Gruppo Espresso.

Il suo romanzo Cetti Curfino (La Nave di Teseo, 2018) è la storia di una bellezza mortifera, quella della protagonista finita maldestramente in carcere e che Andrea Coriano, giornalista precario di “Cronache Siciliane” (guadagna solo sei euro ad articolo), decide di incontrare rimanendone folgorato (“Appena la vide, pensò due cose. La prima: il suo era uno di quegli sguardi capaci di bloccare il respiro. La seconda: la sua bellezza era dotata di un incanto ferale”). Nel luogo di reclusione dove predomina la marginalità sociale che “mangia le ossa e risucchia lo spirito”, Cetti Curfino è un’eccezione, perché il fascino della quarantenne nativa di un quartiere popolare, supera ogni impressione sensitiva, specie se lo sguardo cade nella camicia bianca e aderente che lascia intravedere l’incavo dei seni. Ha i capelli raccolti in uno chignon e le forcine che escono dalla chioma come antenne. Gli occhi sono verdi e assomiglia vagamene ad Elsa, vecchio e sfortunato amore di Andrea Coriano.

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Massimo Maugeri ha scritto di una protagonista di fantasia, perché Cetti Curfino non è mutuata dalla cronaca e non è mai esistita. Ha detto di essersi messo in ascolto di una voce che aveva qualcosa di urgente da raccontare, proveniente da un abisso marino, uscita “tra le pieghe della sua immaginazione”. Questo qualcosa è una confidenza in dialetto, nella lingua della gente siciliana: una verità a scatole, divisa in caselle confinanti, trasparenti. Cetti Curfino ha perso il marito, Cesco, che lavorava in nero presso un cantiere di costruzioni, caduto accidentalmente al suolo dall’altezza di otto metri. La vicenda meriterebbe di essere raccontata, ma non sotto forma di rotocalco, con una curiosità mediatica, morbosa, alterata. La narrazione dovrebbe essere incentrata sulle motivazioni recondite di un omicidio commesso a freddo dopo aver subito torti e ingiustizie: dunque si tratterebbe di un libro d’inchiesta su questa donna rimasta sola e abbandonata.

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Nel carcere claustrofobico diviso da porte e cancelli, sono stipati fino a dieci detenuti in un’unica stanza, con i letti a castello di tre, quattro piani. Il reparto occupato dalle donne è lugubre e dà sul cortile interno dell’edificio. Siamo nella Sicilia di oggi dove non conosciamo specificatamente i luoghi geografici, né è permessa un’interazione continua con l’esterno. Il romanzo risulta un flusso interiore che scorre come il sangue nelle vene, in una formula che fa delle fibre narrative l’espediente con il quale attingere ai fatti originali, nell’alone del sopruso di una donna quasi “costretta” ad ammazzare, senza ricreare fittiziamente uno scenario da fiction noir o da classico libro giallo. Cetti Curfino, sotto un’emblematica patina, subisce passivamente un tormento, il rovello che risponde alla gamma di esigenze ben più problematiche di quelle contingenti, giornaliere. La parola e l’immagine di Massimo Maugeri sono in perfetto contrasto, volutamente, con il senso dell’ordine e dell’equilibrio dato dalle cose, dalla natura. Con uno stile fulgido e scattante, è l’impulso della donna, primigenio, che fa venire alla luce il male di vivere, la degradazione, un’esistenza pressoché scaduta. La scoperta del sogno regressivo e della pulsione di morte sono complementari, anelli di congiunzione, conciliazioni con la brutalità e il cinismo del mondo, con l’assenza sofferta del figlio Sebastiano (Sebbi) che ha preso le distanze dalla madre per vergogna e risentimento ed è entrato far parte della malavita locale, attorniato da persone con le quali gestisce loschi affari e il guadagno scaturito dal gioco d’azzardo.

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La dicotomia bene/male, nella donna del romanzo e nella visione dello scrittore, è vista dalla parte della colpa e con un rancore pressoché incurabile. “Sì, eccola, Cetti Curfino, mentre chiama la morte buttana chiedendole di venirsela a prendere, ché tanto questa vita non ha più senso per lei. Eccola mentre si sdraia a terra inscenando una forma di protesta che prevede un’astensione totale dal cibo. E ancora eccola, nelle buie notti insonni e senza fine di quella prigionia fisica e mentale, a contorcersi nel richiamo di un dolore privo di speranza”.

L’io e la realtà, in un vero e proprio peccato di rassegnazione nei confronti dello stato delle cose, confermano l’allarme, la constatazione ansiosa. Il tempo come un rischio, perché questa realtà non sarà agglutinata in un’energia redenta, specie a seguito dei ricatti del cognato Silvestro (“porco di buono e una cosa fetusa”). È qui che si rivela il senso dell’autocondanna, della maledizione. Il destino di Cetti Curfino non solo viene accettato, ma si ramifica, percettibilmente, in un messaggio di discordia. Il diluvio della donna è stordito dalla privazione e da una traumatica rilettura delle fasi cruciali dell’omicidio, nella rielaborazione di idee ed emozioni riportate nelle lettere in dialetto inviate al commissario Ramotta (che entrano negli atti del processo).

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Massimo Maugeri, tra l’altro, ha ideato e gestisce “Letteratitudine”

Andrea Coriano è nient’altro che il deuteragonista del romanzo: ha perso la madre morta di parto ed è vissuto con la zia Miriam, una vera maniaca della pulizia e della cucina, che lucida l’argenteria con il bicarbonato e il sale, mentre per gli oggetti più usurati ricorre al dentifricio. La zia sprona il giovane a cercare un lavoro serio, ben retribuito, ma il giornalista è preso totalmente dalla composizione del libro che lo aiuterebbe ad avere una considerazione migliore di sé. Rivolgendosi a Cetti Curfino afferma: “Io credo moltissimo nel potere della parola. Credo che la parola possa guarire. Intanto noi stessi, ma anche coloro alla quale è rivolta”.

Gli imprevisti costellano il romanzo e ne costituiscono l’essenza che sfiora l’ironia quando il giornalista sarà costretto ad accompagnare la zia e le sue amiche facendo loro da autista. “Le trasportava ovunque avessero bisogno di essere accompagnate: a fare la spesa, alle partite di Carioca, per semplici passeggiate, per visite mediche e per ogni altra occasione che richiedesse il servizio affidabile e sicuro”.

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Torniamo a Cetti Curfino. L’emergere dell’essere stata giovane moglie e madre e del non essere più nulla, l’immagine ossessiva della morte, così abusata, chiusa in un bozzolo, fanno il paio con la dipendenza psichica dal senso di disfacimento: l’introspezione si trasforma in autodenigrazione. Ma siamo in un paradosso, nel riflusso vitale di una donna-personaggio testimone delle invettive contro il dominio incontrastato dell’uomo, sia esso il commissario, il giudice, il cognato, il figlio. La vittima diventa carnefice e i ruoli si capovolgono. Cetti Curfino, nella sospensione del male, si crogiola per vocazione. C’è perfino fedeltà alla prigionia e alla labilità, nonostante l’immutato amore per Sebastiano, che purtroppo la odia e continua a ripudiarla (“Succede che ti dicono: ma è vero che tua madre a furia di mettersi in ginocchio si è fatta più calli del ferro? Succede che ti dicono: tu sei un figlio di buttana e perciò è meglio che ti levi dai coglioni”).

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Il romanzo ha una colonna sonora connessa alle note di una canzone di John Lennon datata 1972: Woman is the nigger of the world (La donna è il negro del mondo). Un testo non tra i più conosciuti dell’ex Beatles, che scatenò vivaci polemiche nonostante fosse un motivo di denuncia. L’utilizzo del vocabolo “negro”, che servì alla pop star come esplicitazione diretta del suo provocare, per sottolineare la “condizione di asservimento a cui la donna era (è) assoggettata”, fu censurato dalle radio: era il prezzo di una battaglia politica mal interpretata.

Non sveliamo la parte finale del romanzo, ma possiamo dire che Cetti Curfino rimane pioniera della resistenza, dell’epicità di chi “se ne fotte”: la “malamadre” che si fa il segno della croce e recita le preghiere. C’è una frase che rappresenta il punto di fuga del libro, riportata nello stralcio dell’ultima lettera inviata al commissario: “Io penzo che c’è l’inferno dei morti e quello dei vivi. E penzo pure che quello dei vivi è peggio di quello dei morti, che se sei morto non ciai più il pensiero che ti devi riempire la pancia. Questo penzo io”. Il dialetto è la parola madre, l’origine plasmata da un multilinguismo che trasmette protezione e agio, che innerva la trama della vita di una reclusa nei suoi schemi mentali e di relazione. Massimo Maugeri scrive attraverso una spugna che assorbe il dolore e che contorna l’identità fuorviata in una radice storica e geografica che non nega, in fondo, la speranza.

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L’autenticità del romanzo determina spesso il richiamo ad un senso di responsabilità non perduto irrimediabilmente. Il carcere continua a forgiare il rapporto severo con la parola e con la verità non taciuta. Il riscontro fisiologico con la materia fa paura, ma non governa la “fine” della donna. La realtà macerata si insinua nell’esperienza concretizzata, nell’accecamento improvviso, lo stesso che ha condotto all’orrido omicidio. Parla l’io “scomparso” e la lingua dialettale equivale alla lingua della confessione. Le deliberate fratture vengono assorbite dentro uno sguardo d’insieme e in una scossa interna, centripeta, perché la protagonista vuole che si sappia come sono andate le cose. “Tu di qua dentro prima o poi ci vuoi uscire, che la vita non può essere solo questo, giusto? E come ci vuoi uscire, a testa alta o che tipo ti devi vergognare di guardare la gente negli occhi?”.

Massimo Maugeri “stringe” Cetti Curfino fino all’affioramento di una “ricreazione” della persona, di un’immediatezza che brucia l’attimo tenebroso, che ritaglia uno spazio appartato. Il libro fonde un soggetto parlante con il linguaggio venato di considerazioni, solitudine, attesa, circospezione. Il valore assoluto dell’esistenza denuncia come ogni doppia significazione morale sia l’enigma assoluto di questa donna come di tante altre. Cetti Curfino sconcerta il lettore, finché il suo destino, implodendo, non mette in gabbia le più atroci umiliazioni.

Alessandro Moscè

*In copertina: Cagnaccio di San Pietro, “Donna allo specchio”, 1927

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