Quando Borges stroncava Charlie Chaplin
Letterature
Quando inizia uno scrittore? È la domanda attorno alla quale si dispiega l’incontro di parole con Carlo Avolio, traduttore per Racconti del volume fuori collana Epifanie di James Joyce, volume che comprende la Rubrica di Trieste, illustrato da Vittorio Giacopini e con testi di Carlo Avolio, Vittorio Giacopini e Enrico Terrinoni. Esiste l’imponente e solennizzato James Joyce delle grandi opere, e c’è un giovane scrittore all’incirca ventenne, nato a Dublino, che ha cominciato a scrivere come nessuno ancora aveva scritto e che ha dovuto inventarsi, oltre al contenuto della sua scrittura, anche un nome da dare alla forma con cui lo stava scrivendo. Con Carlo Avolio il discorso è sullo scrittore-artista che inventa una letteratura che non esiste – e che ha continuato a inventarla fino alla fine dei suoi giorni alias parole. (Antonio Coda)
Joyce. Perché?
Joyce cattura l’esistenza. La mia scelta di studiarlo e di tradurlo in realtà non è stata una scelta: Joyce mi ha catturato. Mi ha tirato fuori. Qualche volta accade che un autore ti possa salvare la vita. Nel mio caso quell’autore è stato Joyce. Alle Epifanie sono arrivato scavando in quella zona d’ombra tra il Joyce pubblicato in vita e il Joyce giovane che si apprestava a diventare quello che sarebbe stato. La forma non ancora definita o definitiva dei primi tentativi letterari mi ha interessato e colpito, e anche in questo caso la ragione più che di studio è autobiografica: le cose mi piacciono nel loro divenire. Per usare un’espressione joyciana: nel loro stato proteiforme. Nelle Epifanie è molto forte la presenza di un ragionare attorno alla forma estetica che da un lato marca l’allontanamento di Joyce dalla sua interpretazione dell’estetica medievale, dall’altro già raggiunge degli altissimi picchi letterari, e sperimentalistici, con incursioni nel reparto dell’onirico e dell’allucinatorio. Lo scopo di questo volume, che meritoriamente non definirei di studio, è quello di liberare le parole del giovane Joyce dal peso di chi diventerà dopo.
In apertura di testo appare la citazione: [A writer] is a priest of eternal imagination. Il tuo parere su questa visione sacerdotale, religiosa, dell’arte nel primo Joyce.
Joyce in questa fase della sua vita sta ancora maturando la sua apostasia. L’epifania può essere considerato un dispositivo metaforico ponte tra questo Joyce e il Joyce letterariamente maturo che sarà e che riscriverà, anche auto-ironicamente, la propria posizione. Quale rapporto ha il giovane Joyce con la visione di transustanziazione della parola in arte secondo cui lo scrittore è il sacerdote di quella parola? Schematizzando: Joyce non si distacca mai veramente dalla complicità con il cattolicesimo. In questa sua prima fase quello tra lo scrittore e la realtà è un rapporto imitativo-riproduttivo. Secondo questo senso, come espresso dallo stesso Joyce più avanti nello Stephen Hero, c’è qualcosa che ha una radice luminosa nel reale e l’artista la restituisce e conserva tramite le parole. È il reale a essere significante. Rapporto che nel Joyce successivo, nel Joyce pubblicato, non ci sarà più: sarà l’artista, questa la nuova posizione, a dare o a ridare senso alle cose tramite le parole.
Il giovane Joyce è ingenuo o è soltanto un Joyce diverso dai Joyce che seguiranno?
Senza tener conto del loro futuro, del loro confluire nelle opere successive, come potrebbe essere successo a quelle di cui non ci è rimasta traccia autonoma, cosa ci rivelano le Epifanie joyciane? Per lo più difficoltà comunicative, spaesamento, Joyce stesso come soggetto artistico all’interno della comunità dublinese, il rapporto con i suoi pari, anche molto giovani. Rivelano incubi, paure, morte; la morte del fratello per esempio. Rivelano tentativi di esprimere l’inesprimibile, come quando sogna il ragazzino che danza, possibile richiamo e recupero del fratello morto. Non siamo di fronte a un’opera ingenua, è una forma già intaccata da una coscienza profondamente moderna, e con moderna intendo dire che supera certe rigidità del simbolismo. Si sta già guardando allo specchio. È un Joyce secondo il quale quella della realtà è una luce offuscata dalla grettezza della realtà stessa, ma anche dalla complessità dell’inconscio.
Se Joyce fosse stato lo scrittore delle Epifanie e basta, se fosse stato un Kafka che ce l’ha fatta e che avesse lasciato dietro di sé solo queste tracce, staremmo qui a parlarne?
Le Epifanie di fatto non sono un’opera. Sono frammenti di un’opera incompiuta. Il loro valore letterario, secondo me altissimo, è però un valore letterario spurio. Stiamo sbirciando nei taccuini di uno scrittore che non lo è ancora. Il numero complessivo delle Epifanie sarà stato sicuramente maggiore rispetto a quelle di cui siamo a conoscenza. Di loro sappiamo grazie al dopo, alle riflessioni di Stephen Dedalus nel terzo episodio dell’Ulisse, quando Stephen richiama sé stesso al ricordo delle epifanie stesse. Il Joyce futuro ci farà sapere che le Epifanie, che nessuno aveva ancora mai letto, esistevano, erano esistite, erano state il suo primo tentativo letterario – abortito, irrealizzato. Irrealizzato non perché siano prive di chiusura: ogni epifania è perfettamente chiusa in sé. Probabilmente sono state argilla, materiale riutilizzato per farne qualcos’altro. Riutilizzandole, trasformandole, Joyce apre la loro chiusura iniziale, le liquefa all’interno di una narrazione più ampia che non chiude più il circuito su sé stessa ma si estende, e diventa romanzo. Leggere le Epifanie così come sono significa leggerle nel loro isolamento originario che non vuole dire il loro senso originario. Va da sé che qualsiasi supposizione su un senso originario non può essere che un’invenzione successiva. Anche per questo motivo mi è piaciuta molto la proposta dell’editore di far colloquiare l’opera con un’altra espressione artistica, con le tavole illustrate di Giacopini: sono una ulteriore apertura del testo, un altro tentativo di interpretarlo con altri mezzi espressivi. In questa prima fase in Joyce l’occhio ha il sopravvento. È l’occhio materiale ma è pure l’occhio dell’immaginazione, è un mettere a fuoco attraverso immagini, scene e gesti, più che attraverso i giochi linguistici che verranno poi.
La trasformazione da testimone della bellezza a suo artefice è una presa di consapevolezza in sé stesso o è una perdita di fiducia nel circostante?
Joyce affronta un percorso di disillusione che ha origine da una attestazione, non da una delusione. La bellezza che si pensava conservata nella realtà indipendentemente dal nostro sguardo si può offrire al nostro sguardo soltanto in una maniera torbida, e questa è la presa di coscienza della modernità, questo è Joyce al di là di tutti i suoi virtuosismi tecnici. Joyce tocca i grandi temi della modernità senza furbizia, con genuina consapevolezza e autentica perplessità: lo spaesamento, l’esilio, il senso di colpa, il distacco dalla tradizione, il non riuscire mai davvero a tagliare con la tradizione se non si è veramente liberi, ma siccome non si è mai veramente liberi la domanda è: come posso io rendermi autonomo dalla tradizione e allo stesso tempo renderle omaggio? Ancora: il tema della filiazione, dei rapporti con i nostri maestri, con il loro fantasma: l’Amleto secondo Joyce potremmo dire. Joyce cresce e attraverso le sue opere assistiamo, partecipiamo, a questa crescita.
Nel tuo saggio introduttivo sottolinei come queste di Joyce siano epifanie che ‘non rivelano’. C’è già l’ironia joyciana in atto o il dio che Joyce voleva rivelare era tutt’altro rispetto a quello che siamo abituati a concepire?
L’idea che mi sono fatto è che nel momento della scrittura delle Epifanie non c’era ancora in Joyce, giustamente, una compiuta riflessione sulla loro natura. Questa avviene soltanto tramite la mediazione della letteratura stessa, cioè quando Joyce scrive lo Stephen Hero, dove viene esplicitamente citata la categoria di epifania. Da quanto Joyce scrive possiamo ricostruire che un po’ di tempo dopo aver raccolto le epifanie ragiona sul loro valore estetico tramite la letteratura e dunque attraverso uno specchio deformato. Sul dio di Joyce quello che posso dire è che nell’elaborazione ancora così astratta che ne fa Stephen Dedalus, personaggio che poi verrà abbandonato, l’Ulisse è anche l’addio a Stephen Dedalus in quanto alter ego, l’artista viene paragonato al dio della creazione, l’artista crea la sua opera d’arte e la consegna – opera non più metafisico-epifanica ma verbalistico-epifanica – e ne abbandona la paternità e sta a guardarla, come il dio della creazione che sta a rifarsi le unghia mentre tutto il resto ha una vita propria. Con le epifanie Joyce sta già rompendo i legami con la tradizione ricevuta. Bisogna ricordare che Joyce si è sempre autodenominato artista più che scrittore.
Nel suo saggio all’interno del libro Terrinoni parla, riferendosi naturalmente a Joyce, di una oscurità illuminata da ulteriori zone d’ombra.
Quando cerchiamo di dare un senso a quello che leggiamo, come scrive Terrinoni nel saggio, noi ri-veliamo il testo, vale a dire che non lo sveliamo ma aggiungiamo un nuovo velo al suo senso letterario. Il glaucoma gli velerà la vista, non lo accecherà completamente, e da questa privazione del canale della vista Joyce ha tratto una grande strumento di trasformazione della letteratura. L’oscurizzazione della realtà è implicita nelle epifanie quando vengono elaborate ma diventa esplicita sempre di più quando Joyce fa letteratura delle sue elucubrazioni su di esse. Ai romanzi sulle idee ho sempre dato scarsissimo valore ma Joyce non mette in scene delle idee, mette in campo uomini, e gli uomini hanno le loro idee. Con l’Ulisse l’idea che ha fatto la storia nuova della letteratura è che i pensieri e le azioni siano sullo stesso piano.
Già dalle Epifanie Joyce non assomiglia a nessun altro. Traducendolo, ci sono stati passaggi in cui ti si è fatta evidente in modo particolare l’originalità di Joyce, il suo essere inedito rispetto al panorama letterario fin lì, la sua oscurità anche?
Sicuramente traducendo quelle oniriche, per esempio la 38, la 39, la 37, quella citata prima sul bambino che danza, che è la 33. Il rischio iniziale, essendo io un cultore joyciano, è stato quello di farmi influenzare da quello che sarebbero diventate poi. Sapevo che alcune di queste epifanie sono state riutilizzate in alcune scene per esempio di Ulisse, traducendole quindi il rischio era di incorniciarle per quello che sarebbero diventate poi. Ho affrontato ciascuna epifania come senza averne memoria pregressa, cercando di mantenere per ciascuna il suo tono specifico, il fraseggio, un respiro differente: ce ne sono di singhiozzanti, di liriche, di più retoriche. Ho tentato di rispettare l’identità di ognuna, identità che ovviamente, essendo una traduzione, è una identità ricostruita.
Abbiamo parlato dell’occhio di Joyce ma nelle sue epifanie si sente forte anche il suo orecchio (‘between puffs of smoke’, ‘cluster of diamonds’).
Il lavoro sul suono è presente da subito, l’equilibrio cambierà col tempo, fino a quando sarà proprio il suono a permettere a Joyce una maggiore capacità creativa rispetto all’immagine. Il suono comunque è fondamentale fin dal primo momento.
La mia epifania preferita è la 13, avvisaglia della morte del fratello George, perfetta sintesi tra l’effetto comico e l’effetto tragico, assieme.
Nell’epifania 13 è mostrata l’incapacità della madre di dire le parole. L’incapacità di nominare l’innominabile. Che non è nominare, in questo caso, il buco del culo, sebbene Joyce recuperi anche questo: Joyce userà in letteratura le parole che non andavano dette, le parole che dicono il corpo. L’incapacità della madre è più profonda, per usare una parola joyciana: c’è una paralisi. Una paralisi nella autenticità comunicativa. Joyce rimedierà con una letteratura che chiamerà le cose con il loro nome, senza farsi bloccare da un mutismo che non è il silenzio del dolore ma il mutismo della mancanza di coraggio per dire le cose per come sono.
Nel saggio finale Giacopini scrive: “la letteratura è cogliere l’interezza del reale con le parole. Solo con le parole. Fare tutto con le parole, rendere l’universo con le parole”. Allora perché le illustrazioni?
Perché in questo volume l’espressione artistica di Giacopini non è la letteratura, è per l’appunto l’illustrazione. La letteratura resta in capo a Joyce.