14 Novembre 2019

“Siamo anche esseri splendidi. Siamo dentro un’avventura che a me sembra vertiginosa”: dialogo con Mariangela Gualtieri

Fin dal titolo, Quando non morivo, qui c’è una creatura incauta che sceglie di reiterare la vita, di rientrare nel corpo della specie, valutandone i millenni con sguardo di feriale ferocia. Si lascia stordire dallo stupendo, Mariangela Gualtieri, in questo libro scritto col ferro, sulle foglie, stampato da Einaudi, quattro anni dopo l’altro, Le giovani parole. “Non chiedo sonno per voi/ non imploro riposo/ io non prego perché restiate stesi/ con palpebre per sempre sigillate.// Chiedo ebbrezza per voi. Giocondità chiedo./ Vita piena di giovani animali della foresta,/ ebbrezza di slegati”, sussurra, ferma, la Gualtieri nel Requiem alle piccole e grandi ombre che serra il libro. Tra le prime poesie, una cruna di versi simili: “Espormi a tutte le correnti/ cadere nell’ebbrezza/ degli slegati”. Cadere, rompere i legami, slegarsi dalla giuntura dei giorni, per abbinarli alla bocca, nell’ebbrezza. Il libro di poesie esce in gemellaggio cronologico con Album dei Giuramenti (Quodlibet, 2019), che racconta il lavoro del Teatro Valdoca, fondato dalla Gualtieri con Cesare Ronconi. “Le parole inscritte nella carta sono lapidi, diventano sacre facendosi carne. A sostenerle è il corpo dell’attore, un corpo glorioso, in bilico tra un altro spirito e una terra del corpo. Questa trasformazione del corpo dell’attore è il segreto”, scrive Lorella Barlaam in quel libro. In questo, piuttosto, con parole animalesche, tratte da ispirazione e da radice, la Gualtieri avvince al segreto. Bisogna quindi, con selce tra le dita, attraversare il libro per scastrare parole, sollevare sollievi, saltare in lotta blu. “E il tuo mancare è già gran cosa/ che ingravida il mio vuoto”; “Subito si cuce questo niente da dire/ ad una voce che batte”; “E la pietà ci lanciava nel mondo/ ci scapestrava in urti e scosse contro”; “Era un attimo fa. Un fa eravamo zampe/ musi”. L’ultimo distico disfa al perdono (“Questo più d’ogni altra cosa perdonate./ La mia disattenzione”). Qui si va – il libro è un andare –, arcuando una disciplina, con il falcetto, come alla vigna. (d.b.)

Si inizia con una ostensione del cuore (Ecce cor meum), si termina con un Requiem. In mezzo c’è un Credo. Forse questo libro va letto come un libro d’ore: ma dove portano queste preghiere-poesie, a quale spazio, o prato?

Ho scritto tempo fa in un verso che “forse la gioia è la preghiera più alta”. Penso che la preghiera, almeno nella mia esperienza, riguardi soprattutto il corpo, questo grande esperto di gioia. Cioè credo, con Marina Cvetaeva, che l’anima sia quasi carne. Un corpo umano che attraversa un bosco, ad esempio, fa un’esperienza fisica, di passi, di arrampicata, di salti, di silenzio, e può capitare che da lì entri in una consonanza col resto, in una ebbrezza, dentro un respiro più largo, in una caduta così verticale dell’io da sentirsi parte del grande concerto reboriano. Questo per me è preghiera. Una preghiera che tutto il resto recita continuamente, con le proprie perfette tautologie, la pioggia, la neve, il vento, la montagna, la pozzanghera …e recitando la insegnano a noi. Queste poesie nascono da un ascolto terrestre, da un abbandono alla terra e a ciò che la popola e forse questo risuona come una preghiera.

Fin da subito, c’è un niente (“Abbi fede in quel niente/ che viene”), poi ci sono buche, ci sono fratture, fessure e feritoie, in queste poesie, dove sembra che la parola si perda, per fragilità d’eccesso, poi ritorna, un suono rimbomba. C’è come una lotta, o una domestica cura, come se la parola sia una bestiolina. È così, cosa è in te questa parola?

Il conflitto, intorno alla parola poetica, in me è sempre fra canto e pensiero, fra demenza e intelligenza, fra accogliere la parola o dominarla, fra servirla o servirsene. Bestiolina, appunto, cosa viva, vivace, guizzante, in certo modo divina, cioè, insieme al silenzio, è ambito, ma parlo della parola poetica, in cui si va più vicino a ciò che sta fuori dall’esperienza, a ciò che la trascende. A me sembra che la mia poesia nasca proprio da un atto di fede in un niente, in un vuoto così colmo di qualcosa che io non so, da fecondarmi, ingravidarmi quasi, di parole.

Brulicano animali, in queste poesie, e l’origine dell’uomo. Originariamente, di cosa è fatto – e per cosa – l’uomo? E la poesia come s’insinua nelle sue dita, come si fa da ‘diletto’ (o difetto) visione, vortice?

In questo mio tempo sono molto attratta dalle origini nostre, della nostra specie. È un pensiero in cui sosto spesso, anche nel dormiveglia: eravamo animali solo un attimo fa, 300 mila anni fa, più o meno, secondo le ultime scoperte. Dico un attimo fa perché gli insetti ad esempio hanno 300 milioni di anni, e perché una specie pare compia le proprie potenzialità in 5 milioni di anni. Noi siamo all’inizio di un cammino che a me sembra grandioso. Andiamo dall’animale verso su, verso qualcosa che potrebbe essere sublime, se solo volessimo procedere al meglio di noi stessi. Siamo anche esseri splendidi. Siamo dentro un’avventura che a me sembra vertiginosa e che mortifichiamo dimenticandocene. E la poesia è questa parola che abbiamo vestito a festa, sono le nostre piume di pavone, è la nostra apertura alare, i nostri colori di farfalla, è il nostro più alto ornamento o abbellimento.

Forse la poesia è una traccia dei morti, forse si fa poesia per rintracciare i morti? Lo chiedo a te, perché la tua poesia è tanto terrestre che sembra unire le vite vissute, quelle che accadranno. 

Da piccola cantavo forte quando salivo le scale per andare nella mia stanza al piano di sopra: pensavo che la stanza fosse piena di morti, e li avvisavo del mio arrivo, così che potessero tornare nella scomparsa e non farmi paura. Sentivo i morti, in un modo che ora mi sembra molto pascoliano, ma anche vicino ai film di Bergman. Forse come recita Betocchi c’è solo vita, niente altro che vita, vita che si vede e vita che i nostri sensi non sanno percepire. La poesia è in continuo dialogo coi morti, anche con i poeti che ci hanno preceduti e che ci hanno sicuramente e inconsciamente formati. Cosa sarebbero i nostri versi senza i loro? Cosa saremmo noi senza questa eredità.

C’è perdono, c’è esortazione. C’è Sant’Agostino e Dylan Thomas. La disciplina nell’uno e la dissipazione nel tutto. Forse, i tuoi santi, una costellazione d’incoerenze. Perché scrivi?

I miei santi sono anche i bambini, gli animali, gli alberi, l’erba, l’acqua… Vedo divinità ovunque e se penso alla divinità, non posso limitarla all’umano. Io scrivo per un ordine che non si discute; se non lo faccio sto male, sono infelice. Ma non scrivo perché sto male, anzi, quasi mi vergogno di cantare il dolore, come se già ce ne fosse tanto e io aggiungessi la mia parte. Io vorrei, fra le tante aspirazioni, avere una voce consolante, non consolatoria che è parola furba e ipocrita, ma consolante come una voce che nel buio del mondo calma un neonato che piange, o due mani che lo prendono in braccio, se lo appoggiano al petto, lo scaldano, lo cullano. Perché senza questo poco quel neonato morirebbe, o crescerebbe deforme. Ci sono poeti che si vergognano di essere consolanti. Io credo invece che tutti – soprattutto i poeti – dovremmo farci maggiormente materni, uomini e donne, e cominciare ad avere cura di tutto, come se tutto fosse stato partorito da noi, fosse parte di noi. Anche se è vero proprio il contrario: tutto ci tiene in vita e potrebbe benissimo fare a meno di noi, anzi, senza la nostra sgraziataggine, procederebbe più armonicamente.

**

Per gentile concessione pubblichiamo alcune poesie dall’ultima raccolta di Mariangela Gualtieri, “Quando non morivo” (Einaudi, 2019)

Come il niente della neve
che appare e liscia il suo nome
il suo fiore nel fertile petto
della terra. A baciare
in un appena grande
la seccaglia delle piante.

*

510 milioni di anni fa

Tu dici che ci fu un antenato
e poi da quello una parte
ha scelto di nutrirsi di cielo
e ha messo foglie ha radicato
e l’altra – noi – si mangia il mondo
e l’altra predatrice s’è fatta.

Ma io ti chiedo
se ci fu gioia in questo
se i radicanti scegliendo il cielo
fu per piacevolezza della luce
se fu perché era bello rampicare
per l’aria e la lentezza era bella
con cui ficcarsi nella terra
in forma di radice

se fu per un’ebbrezza –
per un tremore. O nello sbando
del movimento i primi
ebbero sentore d’un’avventura grande.
Se dissero di sì, questo ti chiedo.
Se in fondo fu già allora per amore.

*

Abbiamo forse assaggiato
un’acqua di comete
e resta celebrata in noi
tutta la turbolenza delle alture
quell’aspirare ad una magnitudine
tanto immensa che forse solo
l’agonizzante
può reggere dentro sé.

Mariangela Gualtieri

*In copertina: Mariangela Gualtieri nel ritratto fotografico di Melina Mulas

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