Durante i preparativi per la mostra sul “Portogallo” è stato ritrovato, insieme ad altri dattiloscritti di Marco Pesaresi, un testo datato 6 dicembre 1989 in cui il fotografo racconta il suo viaggio. Lo scritto rappresenta l’unica testimonianza, la “sinossi” del grande fotografo riminese per la mostra sul suo viaggio del 1989, 100 meravigliosi scatti inediti curati da Mario Beltrambini e da Jana Liskova e “ammirabili” sino al 29 settembre presso Villa Torlonia, Sala delle tinaie (via due martiri 2, San Mauro Pascoli, ingresso libero).
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“La prima volta che andai in Portogallo fu due anni orsono, in compagnia della mia donna ed un’altra coppia. Classico, puntammo decisi sull’Argarve. Coste rocciose, vedute stupende, un clima mite, dolce, tanta ospitalità, l’oceano, comunque in ogni caso zone prevalentemente turistiche anche se prive delle imponenti e razionali strutture presenti in altre regioni. Tutti esprimevano ammirazione per la bellezza aspra a volte selvaggia del paesaggio marino. La sera andavo al mitico porticciolo di Sagres, luogo di partenza di tante caravelle destinate alla colonizzazione del nuovo continente (1500 circa) ad attendere il ritorno dei pescherecci per osservare incantato i grandi squali e le sinuose sirene che avevano popolato la mia fantasia fanciullesca. Nell’attesa riflettevo gioioso di aver trovato un’arcana civiltà, tanto lontana dai modelli economici sociali. Passai giorni sereni ma non completamente soddisfatto. Dovevo tornare, solo o al massimo con la mia donna. Quest’anno prima di partire mi sono documentato sulle caratteristiche morfologiche, demografiche del Portogallo. Le regioni scelte furono Tràs-os-Montes e l’Alenteio il cuore del vecchio ma vero Portogallo.
Arrivammo a Braganza (capoluogo della regione di Tràs-os-Montes, 20.000 abitanti, senza semafori) prendo il sole, era già scomparso all’orizzonte. Tras-os-Montes la regione più povera, dimenticata del Portogallo, un ambiente montano, collinoso, verde, dal fascino rude e trasformato; immersi nel paesaggio piccoli villaggi ove la gente sopravvive di agricoltura e pastorizia. Le case sono costruite con blocchi di pietra (granito), le strade hanno un concetto di planarità molto relativo. Le giornate scorrono lente con propri ritmi forse fuori dal tempo. Quando siamo arrivati a Braganza, abbiamo alloggiato in una piccola pensione ove tutte le camere destinate alla clientela erano occupate, l’unica a disposizione era la stanza del figlio che stava dormendo, “fuori lui dentro noi”.
Quella notte credo di aver riflettuto a lungo sull’evento capitatomi in particolare ma molto ed intensamente anche sul funerale. In un afoso martedì camminavo in un villaggio alla ricerca d’acqua fresca e rimasi colpito da un’abitazione, non oso chiamarla casa, con la porta d’ingresso tendente all’obliquo, sull’uscio sostava un bimbo. Istintivamente inizio a fotografarlo ed immediatamente dopo sentii arrivare in forte accelerazione con brusca frenata finale e relativa polvere, una vecchia automobile francese.
Mi sono detto: “Marco c’è da litigare”.
L’uomo è sceso di corsa e mi ha offerto dell’uva.
Signori questo è Tràs-os-Montes, la zona dove per la prima volta ho ammirato l’arcana solennità delle vecchie donne vestite di nero mentre lavano i panni al fiume; la zona dove la simbiosi uomo/cane o uomo/animale da cortile è totale. Ho passato gironi camminando per questi villaggi, per me tutto era una nuova continua rivelazione.
La percentuale dei vecchi a Tràs-os-Montes è altissima, ciò non deriva dall’età, ma perché una persona sui 45/50 anni ha già il viso solcato di rughe, la causa è da ricercarsi nelle non ottimali condizioni di vita.
Molta gente emigra per lavorare, per portare denaro alla famiglia. Le strade e le piazzuole con gli abbeveratoi per gli animali diventano un punto d’incontro per i bambini del paese che giocano con sorrisi, sguardi, toccate, liberi, liberi di rincorrersi e sporcarsi; per un passante non possono non assumere significati densi e profondi.
Spesso la domenica è festa tendenzialmente in onore di qualche santo. Grandi processioni religiose con tanto di banda e carri ridondanti di ghirlande, festoni e denaro. L’atmosfera è intrisa di fede, di una fede morbosa ove la personalità dell’uomo si annulla nella completa devozione a Dio. Quando la banda inizia a suonare e i carri sorretti da uomini, donne o bambini cominciano ad avanzare maestosi per le strade polverose del villaggio, l’aria che si respira diventa sempre più avvolgente, quasi opprimente. Il tutto accompagnato da razzi e fuochi d’artificio.
Terminata la processione canti e balli in grandi spazi (spesso in rustici campi da calcio).
Durante le ore più calde della giornata la gente che non lavora è costantemente seduta all’ombra, sull’uscio di casa, spesso ho avuto l’occasione di comunicare (vista la grande ospitalità del popolo P.) con qualche adulto del villaggio, notando in loro un senso di velato imbarazzo, quasi vergogna per la precaria situazione abitativa in cui vivono.
Ciò mi ha reso particolarmente infelice, provando un senso di colpa.
Ascoltando prediche religiose anticonsumistiche in una simile realtà, sorridevo.
Decisi di partire diretto ad Aveiro, a sud di Porto. Una lingua di terra separa morbide linee d’acqua dalla massa scura, inquieta, misteriosa dell’oceano Atlantico.
Una vasta pineta s’adagia lungo il litorale.
Una zona di residenza per persone benestanti, lo dimostrano le numerose villette in stile, presenti sulla laguna.
Il turismo è già abbastanza sviluppato ed in questi ultimi anni sta vivendo un’ulteriore fase di sviluppo accompagnata dalla continua costruzione di varie strutture ricettive. Comunque è un turismo ancora d’abbandono, ove l’uomo può trovare un rapporto diretto ed intenso con la natura.
Grandi spiagge, sabbia molto fine, oceano, laguna con i Moliceinos, tipiche imbarcazioni locali con disegni raffiguranti scene di vita, usate per la raccolta del mollico.
Clima mite, giardini colorati, uniti ad una indubbia capacità culinaria, caratteristica portante del popolo (gli arrosti di pesce, sono qualcosa di fantastico, cotti senza condimento), hanno reso queste piccole strisce di terra a sud di Porto una delle zone più accoglienti e dolci dell’intero Portogallo”.
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Nel 1989 Marco Pesaresi aveva 25 anni.
Anche in questo viaggio ad Ovest dell’Europa fatto 35 anni fa trovano conferma le parole di Denis Curti: “Marco Pesaresi era il risultato armonico dell’imperfezione. I suoi pensieri laterali e i suoi silenzi sapevano riempire il cuore di chi gli stava accanto. Il suo sguardo ci ha portato ovunque nel mondo, raccontandoci storie di culture, città, individui e quantità umana”.
Cento fotografie in bianco e nero, selezionate a partire da circa mille negativi. Prima delle immersioni nelle metropolitane delle grandi città del mondo e dei lunghi viaggi in treno ai confini dell’Europa che lo resero celebre, Marco ha quindi esplorato, con la sua sensibilità unica, la zona di Trás-os-Montes e l’Alentejo, regioni povere e dimenticate nel cuore del vecchio, ma vero, Portogallo.
E lo ha fatto con la sua grammatica: raccontare senza utilizzare le parole. Immagini come linguaggio universale che danno riverbero filologico all’etimologia della parola “fotografia”: scrivere con la luce.
Alessandro Carli
*Le fotografie pubblicate nell’articolo e in copertina provengono dal ciclo “Portogallo 1989” di Marco Pesaresi