31 Maggio 2019

“Quando, ogni volta che incontri qualcuno e gli chiedi ‘cosa fai’, e risponde sereno che di mestiere fa l’artista o lo scrittore, e sai già che ti trovi di fronte a un sotto prodotto dell’artista e dello scrittore, e il tuo primo impulso è quello di tirargli a bruciapelo un pugno in faccia”. Solare incenerimento del mondo moderno da parte di un solitario

“L’uomo… da niente egli può sperar aiuto che dal proprio animo, poiché ognuno è solo nel deserto. Ma gli uomini sono come quello che sogna di levarsi e quando s’accorge d’esser ancora a giacere, non però si leva ma si rimette a sognar di levarsi – così, né levandosi né cessando di sognare, continua a soffrir dell’immagine viva che gli turba la pace del sonno e dell’immobilità che gli rende vana l’azione che sogna. Ognuno è il primo e l’ultimo.” Michelstaedter

Quando penso al paradosso, comprensibile ma non meno scioccante, di non tollerare il sopruso di pochi per promuovere la libertà dei molti, e dunque il boia del suffragio universale; o al più grande e inspiegabile atto di fede, quello di trattare gli altri come se fossero persone normali.

Quando amo gli scrittori maleducati come solo la vita lo può essere: “ignorava di avere genio, non si considerava neppure uno scrittore, nessuna indulgenza per l’astrazione, nessuna traccia cicatriziale dello stile classico; in lui vi era un’anima equatoriale, dilatata nella sua esuberanza, devastata dai propri eccessi, incapace di imporsi quei freni che nascono dalla riflessione o dall’introspezione”.

Quando essere sedotti dalla propria solitudine molto più di quanto non lo siamo dalla compagnia degli altri, senza essere necessariamente degli introversi, potrà sembrare una vanitosa vacuità, e vi diranno “ogni spontaneità è disordine, ogni libertà capriccio, ogni natura un atto di provocazione nei confronti dell’Intelligenza”. Alcune rare creature sentono che più si è liberi, più si è soli. Un onere e una grazia ereditata, e non una posa a cui si possa decidere di aderire; e non esistono affinità tra il comandamento etico “tu ti sacrificherai per il bene del tuo prossimo”, e il comandamento metafisico “tu regnerai nel tuo essere”.

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Quando il primo comandamento di chi ahimè vuole essere un commentatore di idee altrui, se proprio deve, è quello di non diventare, e meno che mai essere considerato, uno specialista o uno studioso, in un mondo dove a quanto pare è d’obbligo guadagnarsi la patente di rispettabilità critica, essere riconosciuti in quanto ‘studiosi’ dotati della licenza di probità critica, intellettuale. Immaginate… definire Cioran uno studioso di Valéry o De Maistre, a causa dei potenti saggi che ha dedicato loro. Immaginate… definire Ceronetti uno studioso o un “grande intellettuale”, come ha fatto chi nulla ha capito (P.G. Battista), quando in realtà era molto di più e meglio, poiché fu un sapiente, che rispose lapidario, ironico e profondo, a chi gli obiettava di essere privo di specializzazioni: “L’unica mia specializzazione è il dilettantismo”.

Quando penso a Voltaire, un antesignano di questa dotta Repubblica delle Lettere, e alle sue veementi proteste contro Shakespeare, che ne impedirono per molto tempo la ricezione in Francia. A lui, che a proposito dell’Amleto, nel 1786 sentenziava così: “un dramma volgare e barbaro, che non sarebbe tollerato neanche dal più basso popolano di Francia… l’opera di un selvaggio ubriaco.” Ricorda l’astio del cattolicissimo Tommaseo nei confronti di Leopardi, che, tra gli innumerevoli dileggi, definiva le Operette morali: “fredda e arrogante mediocrità”. Due facce opposte della stessa ragione, unite in un’istintiva repulsione fisica, primitiva e brutale, del profondo.

Quando è incomprensibile l’ammirazione dell’anti-intellettuale Bukowski per Sartre, un mediocre imitatore francese di Dostoevskij via Heidegger; e, allo stesso tempo, il suo giudizio negativo su Shakespeare, uno che non fu esattamente uno sterile erudito, come dimostra il vigore della sua immaginazione. Come si può ammirare l’esistenzialista francese e disprezzare Shakespeare? Chinaski, che spesso vedeva giusto ma era anche pieno di queste contraddizioni, avrebbe risposto: “Fottiti, amico. E non mi piace nemmeno Tolstoj.”.

Quando ci sarà sempre qualche professore che, mediocre e arrogantemente accademico, vi vorrà rimproverare la vostra mancanza di institutio, il vostro sciogliervi dalle catene di una coscienza bibliografica, dallo stile della letteratura da note a piè di pagina, la prosa analitica, la moderna lingua razionale della prosa scientifica, poiché ignorano che non tutti sono tenuti a una qualche forma di rigore intellettuale, e che non sempre c’è da perdere nella disinvoltura metodologica, se questa porta con sé frutti maturi e risorse inesauribili… “anche l’apparente disordine era ordine e coerenza, l’approssimazione vero rigore, il gratuito necessario”… portate alle loro estreme conseguenze, fuori dalla semplice letteratura e i suoi codici, senza per questo scadere nell’avanguardia.

Quando idealmente, ogni critico, professore e ricercatore, qualunque sia il territorio dotto in cui si applica, dovrebbe formarsi, e immergersi fin dalla sua infanzia intellettuale, in tutte quelle personalità che in un modo o nell’altro hanno minato alla radice, con le loro parole e vite, la stessa idea di critico e di critica. E trarne le conseguenze, per riemergere in superficie e porsi questa domanda finale: “sono in grado di superare l’incontestabilità e la profondità delle loro accuse?”. Quelle che rivelano la vanità teorica della critica in generale, di quella engagé, produttiva, utile. Qualunque sia la risposta, bisognerebbe essere così onesti da ammettere che, in ogni caso, i critici, i letterati, gli intellettuali, i filosofi – quel mondo che non ha mai conosciuto uno spaesamento assoluto in mezzo alle parole e ai libri – non avranno mai le risorse personali per superare tali contestazioni. Il vero nomadismo inquieta e paralizza, quando non si ha il potere di viaggiare con l’immaginazione senza il baedeker dell’erudizione in mano.

Quando si è ospiti a cena dai conti Leopardi, e soprattutto una cosa vi emoziona. Non la sterminata biblioteca in cui studiò, l’immenso chiostro laico fatto di volumi, ma la sua culla, il principio, l’origine e il destino del genio, l’ingenuità, intorno alla quale Leopardi girò come intorno al proprio asse.

Quando infarcire a getto continuo la propria prosa di rimandi dotti, eruditi, storici, filosofici, letterari, a meno di non essere un Brodskij, un Cioran o un Manganelli, può anche rivelarsi un difetto d’immaginazione individuale. La maggior parte delle volte è così. Chiedete a un compositore d’idee altrui di adottare una prosa nuda, completamente sua, priva di spunti eruditi, e scorgerete il suo scoramento letterario, la sua fatale appartenenza al mondo della prosa analitica, alla letteratura da note a piè di pagina. È lo specchio di una penosa condizione. Una confessione d’inferiorità al cospetto della creazione, elevata al rango di un equivoco prestigio letterario. Salvo rari casi, zero linfa, anemia assoluta e uno sconfortante grigiore.

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Quando è impossibile, oggi, essere i rozzi corifei di una cultura che, spensieratamente, si professa pop, o al contrario essere tenuti per dovere al rigore intellettuale dello schematismo angusto della filologia classica o della saggistica scientifica, quando queste realtà, con ogni evidenza, ormai non producono nulla di profondo, come accadeva all’epoca di Leopardi o Nietzsche, che furono anche filologi. Il secondo infine intuì che “la filologia porta al peggio”, e abiurò il suo passato.

Quando la calligrafia intellettuale di oggi, in preda al disincanto del concetto, rinchiusa nella gabbia di una nitida geometria, e troppo presa dalla probità dell’astrazione, raramente si accompagna alla potenza, alla vita e all’immaginazione. L’erudizione, anche qualora non neghi la soggettività per vegetare nella più piatta obbiettività, priva di profondità, annega nell’esistenza sublimata a priori dalla lunga catena degli eroi della mente, paralizzata nelle maglie di una coscienza bibliografica.

Quando dobbiamo ammettere che l’intelligenza è anche un refrain sconcertante, un alibi pazzesco per ogni critico, poeta coscienzioso e probo consumatore di saggistica. Per il pantheon dei colti. È il teatro dell’immortalità della conoscenza che guarda in acquario l’assurdo, con arcano terrore, appena dissimulato da un vano ghigno di scherno e gli occhi socchiusi a lama di rasoio. Il cullarsi nella dissacrazione a getto continuo. Ridimensionamento umoristico, morale dello scrupolo critico, feroce ironia della ragione fatta metodo. Eppure, impossibile ridere di tutto, al modo dei filosofi e dei critici. E cosa ben diversa è il riso di Leopardi, che è affermazione della vita: “tutto è follia in questo mondo fuorché il folleggiare. Tutto è degno di riso fuorché il ridersi di tutto. Tutto è vanità fuorché le belle illusioni e le dilettevoli frivolezze”. Quello dei critici, i filosofi e i semplici letterati, è il riso della rinuncia predicato da ogni forma di stoicismo. Baudelaire, contro gli spregevoli corteggiatori delle folle, scrisse con ironico e furente nitore: “Signori, se volete essere felici a questo mondo dobbiamo essere con coraggio, diteci, che cosa? uomini di genio, riformatori, innovatori, profeti, fenomeni? No, signori miei… dobbiamo essere mediocri! Ecco la Splendida idea per il nostro tempo. Un odio sconfinato, per la poesia, per me”.

Quando tutto quel che non si osa dire è vittima del bon ton, dell’educazione, delle convenzioni, e della viltà. E se si osa, è il coraggio che tocca solo la superficie. Un vuoto rituale di parole. Non respira oltre l’urbano. L’evento non circola. Tutti questi letterati, scrittori, opinionisti, giornalisti, ricercatori e parolai a rimorchio di un pretesto, di un grande e magistrale pretesto che non toccheranno mai, sono compulsatori del prestigio altrui, della linfa di coloro che hanno avuto un destino, loro malgrado.

Quando, ogni volta che incontri qualcuno e gli chiedi “cosa fai”, e risponde sereno che di mestiere fa l’artista o lo scrittore, e sai già che ti trovi di fronte a un sotto prodotto dell’artista e dello scrittore, e il tuo primo impulso è quello di tirargli a bruciapelo un pugno in faccia. Tu, che pretendi del fottuto pudore. Che tolleri e t’intendi solo con chi scrive suo malgrado, preso da un’esistenza che non riesce a governare. I disadattati di rango: “ho notato che non mi posso veramente intendere con una persona se non quando è al colmo della sconfitta, ha perduto ogni stabilità, e con lei ogni certezza di successo. Il fatto è che in quei momenti depone ogni menzogna ed è nuda, e vera, restituita alla sua essenza dai colpi della sorte”. E penso a Simone Cattaneo. Al rigore della vertigine. A coloro che rischiano in ogni istante di naufragare, che non conosceranno mai la serenità e la calma dei mestieranti, quella di Moravia, che si metteva a scrivere tutti i giorni le sue cinque pagine, come esercizio per accumulare il fottuto lavoro. Amo i perduti, i bruciati, i miei unici fratelli, il folgorante e irragionevole fetore della vita, benché non lo augurerei a nessuno, poiché quello vero ottunde, imbruttisce e infine abbatte. È schifoso.

Quando la loro opera è ridotta a stigma del proscritto che rovescia la vita in comune. A limbo letterario. Una zona d’oltretomba riservata ai bambini a cui il battesimo della ragione viene negato. Il territorio marginale, domestico, degli specialisti, i geometri in possesso degli strumenti intellettuali per maneggiarli. Allo spazio dissacratorio del critico e del filosofo.

Quando il pantheon della cultura in loro vede solo puer aeternus. Transfughi dell’immacolata concezione del sociale. Aiòn wannabe. Repliche sgraziate del caos originale, e un increscioso noir cosmogonico. La peggior glossa estetica a ogni decadenza. Nel migliore dei casi, solo spacciatori di prosa o poesia estetizzante. Intrattenimento, fiction. La probità esige maturità, ci dicono, anche se quasi sempre questi ‘bambini’ sono gli unici a prendere ancora seriamente dal mondo la materia per la loro creazione, e hanno da dire sul rigore molto più di quanto non ne abbia la “profonda probità del pensiero”, e tutti quei lettori fieri di abbassare lo sguardo di fronte alla probità del critico, una creatura pubblica che pretende di trionfare sulle obiezioni della vita, una linfa muta e oscura.

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Quando la nostra immaginazione, oggi, è più che mai gregaria. Una massa mimetica in cerca di modelli, e molti sono i vicari della nostra immaginazione, contro la conquista della solitudine: democrazia, stato, politica, anarchia, cinema, tv, www, moda, design, mercato, finanza, romanzi, saggistica, professori, intellettuali, scrittori, maître à penser, giornalismo, calcio. E i poeti lasciamoli stare. Oggi non si sente dire altro, da librai e distributori, che nessuno legge poesia.

Quando oggi tutto è pop. E tutto è pop significa dire che tutto è design. Anche il pensiero! E forse una funzione di styling, rivestimento di prodotto o prefigurazione di logo, marketing, e non certo di stile. Pensa all’Ikebana, per passare ai giardini di Le Nôtre, più figli della geometria che della terra, per arrivare, oggi, al “floral design”.  Al funesto passaggio dall’astrologia e l’alchimia alla chimica e l’astronomia. Al fade. L’estinzione dell’emblema, dell’alchimia, dove tutto è ludismo che dissacra e scippa profondità. Mera superficie, capriccio urbano. Simulacro profano. Simulazione, un massimo di prosaicità elevato a metafisica. Negazione di ogni potenza e grandezza della creazione. La nostra epoca. Niente, qui, del senza tempo o del soffio delle ere geologiche. La tirannia del volto umano dilaga, e una musicista, per contraccolpo, rivelatrice, scrive: “In Islanda non andiamo in chiesa, passeggiamo nella tundra”.

Quando i designer possono essere spesso dei fieri imbecilli, allo stesso modo dell’artista felicemente pop. Frutto del loro tempo e nient’altro. Funzionali. Progettisti del Bello. L’inattuale come mera rivisitazione storica, posa perennemente urbana, bisogno ossessivo della superficie, e il venir meno dell’estensione del profondo nella superficie.

Quando il miglior segno della nostra decadenza contemporanea è l’abuso del pop. La tirannia di un’esasperante superficie: pop philosophy, food design, design del mobile, floral design. Il rovinoso sex appeal di un dialetto universale. Al punto che, per conferire uno spessore vissuto a un prodotto, un mobile o un vestito o un paio di jeans, questi viene dotato di un aspetto anticato o usato artificiale. Non si ha più tempo per il vissuto. Tutto è obsoleto, pronto per la discarica, prima ancora di essere consumato dal Tempo che passa, “l’artista più leggendario che sia mai esistito”, con il suo splendore e la sua miseria.

Quando la moda e il design, e l’indiscutibile supremazia di coloro che sfruttano l’aura dei nomi ‘Officina’, ‘Laboratorio’, rappresentano l’alchemico degli Archimede della modernità di oggi ridotti al pop e al marketing. Al design spacciato per bottega rinascimentale. Un simulacro custom-chic, eufonicamente cool, un tono fondato sul nulla, moda buona per qualche stagione e l’inconsistenza dello spirito del tempo.

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Quando sarebbe bene non dare mai a un altro essere umano il potere e il privilegio di giocare con il tema più evanescente, ambiguo e potente della natura umana: l’identità. Soprattutto se si tratta della nostra. Oggi siamo ridotti a quella deriva ripugnante che vede lo stilista, un altro fottuto essere umano, firmare con il suo nome, a lettere cubitali, perfino le mutande che indossiamo.

Quando uno splenetico con velleità da scrittore vi dice: – tutti questi anni, tutti questi decenni a leggere in solitudine, avrebbero potuto e dovuto trasformarsi in un’arma, in un potere, in un mezzo per trovare un posto onorevole, o forse anche disonorevole, in questo mondo, in qualunque regione della vita. Oggi, quando tutto ormai sembra perduto, appare solo una sconfitta, la più autorevole dopotutto, poiché non siete diventati assassini, alcolizzati, ladri, dissipatori di soldi altrui, drogati. E forse è un’onta. E un patetico ritiro da un mondo che, a queste condizioni, sembra non avere più nulla da offrire, se non dolore e bruttezza. L’aristocrazia di un perduto. La rassegnazione diventata posa. La trascrizione della propria lenta deriva. E l’ingenuità si paga, sempre. È una litania che potrebbe essere il tipico pensiero di un involontario paria intellettuale qualunque, un perfetto sconosciuto, grazie ai buoni uffici dei colpi della vita. Un pensiero ripetuto infinite volte nei secoli dei secoli, e una libido tutta pletorica, scaduta nell’avventura dello Spirito a causa della sua fisiologica e metafisica incapacità di adattamento. Un altro sfigato, diranno i più. E forse anche il non riuscire a usufruire di se stessi, a esercitare l’ambivalenza dei propri appetiti e dei propri sogni, camminare per strada e avere una sensazione strana dentro, e capire che è dovuto a un senso di abbandono, e non perché non si abbiano amici, amore, lavoro, persone con cui comunicare, ma perché si sente l’abbandono che una parte di voi ha imposto all’altra, a come un giorno una vi abbia lasciato, impercettibile, poi plateale, per sottrarvi l’efficacia della vostra dote di illusioni.

Quando si è qualcuno, ma solitudine e disadattamento sono troppo profondi, e l’irreale diventa patria. Re Mida al contrario, si vive in un universo spopolato, nell’epilogo di un bruciato, di uno che non torna più. Nel misterioso refrain che aleggia come un nimbo sulla carriera di ogni artista, quando questi dispera che la sua dissennatezza venga mai consacrata. E l’artista consacrato è colui che conquista il diritto di rimanere bambino in un mondo di adulti, che si guadagna da vivere sulle macerie dell’infanzia altrui, con un gesto di immane prepotenza imperiale.

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Quando l’artista, personalità compromettente e compromessa, se mai ve ne fu, soprattutto oggi, non dovrebbe mai preoccuparsi della serietà del suo lavoro di fronte agli occhi degli altri, del suo gioco in quanto lavoro, mestierante. L’unica sua preoccupazione dovrebbe racchiudersi in questo frammento: “non ho tempo per lavorare”. In caso contrario dimostrerebbe solo un fatale complesso manovale, una contraddizione deteriore che solo nel genio è talvolta davvero fertile. Eppure la faccenda è complessa. Un conoscente romagnolo, e un “passionale da far paura” direbbe Nabokov, ormai passato a miglior vita, vittima di una early grave, un mimetico di Bukowski con i soldi di papà, sosteneva che la miglior cultura sia quella che si creano gli sfaccendati coi soldi, come lui, se hanno la sensibilità e l’intelligenza per costruirsela. Salvo rare e paradossali eccezioni, in generale è falso. Una pretestuosa giustificazione. Lo stesso Chinaski diceva cose molto istruttive, e feroci, su quegli artisti o poeti che non dovevano lottare per la vita nella loro creazione, su quegli artisti che vivevano con i soldi di mamma o papà, sulla mancanza assoluta dello stimolo del bisogno: “dal punto di vista della creazione, quelli che nascono avendo tutto a disposizione sono i più disgraziati, è una tragedia superiore.” Cioran

Quando una creatura anomala, un miracolo linguistico, inclassificabile, impossibile da annoverare tra i literary hacks o i plumitifs, si impone con la forza irresistibile della sua corroborante lucidità. E una linfa complessa scorre nuovamente nel pallido territorio delle idee. Un tono extra letterario, vitale, nel più raffinato degli stili. E uno stupefacente poeta della prosa appare, avvolto da una semplicità che turba. E qualcosa di esaltante aleggia nella cenere che la sua tragica ironia sparge sulla decadenza della nostra civiltà, sulle rovine della nostra irrimediabile nudità metafisica. Non fu mai un professore segnato dall’università, e neanche un letterato, in fondo, poiché non sfornò libri, ma al contrario un parassita sociale, uno che, rispetto alla logica produttiva del suo secolo, ha perso tempo come pochi altri: “Tutti i vantaggi che ho sui miei contemporanei derivano dalla mia mancanza di rendimento.”

Quando evocare continuamente la profondità, il reale e l’esistenza con la scrittura, benché onorevole, è certamente la patetica ossessione di una malinconia, e dunque di un’impotenza. L’epilogo di un naufragio consumato, statuario, a cui l’incontinenza verbale conferisce una parvenza di vita, di movimento, l’illusione di un sussulto organico. E tutto viene a noia, anche la profondità, quando questa diventa un refrain teorico senza smalto né ironia o pause e il genio naturale che la sorregge. Una profondità ininterrotta non solo rende impossibile la vita, ma è anche noiosa e molesta, come può esserlo una creatura petulante, e la profondità dei teorici e i semplici letterati.

Quando tutto ciò che si scrive è filosoficamente un aborto, inutile e anche il rifiuto a un rapporto organico con le parole, nonostante una decisa sensibilità alle analisi formali che soddisfano nella capacità che ha lo stile di sottoporre a un superiore sigillo i pensieri, l’avventura di scrivere potrebbe diventare interessante, ammesso che si abbia qualcosa da dire in proprio. E da qui, potenzialmente, risorse inesauribili, nostro malgrado.

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Quando si è completamente fuori dal mondo letterario, artistico o accademico, né d’altronde si aspira a entrarvi, uno dei possibili modi di ammettere di voler commettere il reato di scrivere, illudendosi di avere qualcosa da dire, è quello di mentire spudoratamente e sostenere con fermezza che si scrive solo per questa volta, del tutto eccezionalmente; che non si ambisce a fare lo scrittore o il critico, e meno che mai l’artista. Giurare e spergiurare, per superare l’imbarazzo di voler scrivere in un mondo dove tutti hanno qualcosa nel cassetto, e per scongiurare, anche se solo per un istante, le sottili rappresaglie degli specialisti della parola. E forse vi siete già rotti i coglioni di questa illusione, della scrittura, perché d’altronde la pensate così: non sono uno fottuto scrittore, né un filosofo né un artista, sono solo un monomane.

Quando la cultura e le lettere sono sterili, in fondo, vi educano a non indugiare sulla personalità, sul temperamento, sull’uomo vivente, sugli elementi troppo equivoci e sfuggenti, difficili da nominare e definire. A raffrenare la vostra bestialità! A vegetare nell’elogio del plagio, questa sconfessione dell’unicità e fiero osanna di una sentenza: “l’allevamento in serie esclude la produzione dei grandi caratteri… l’esercizio dell’artificiale impedisce l’emergere dell’eterno”. E, da qui, lo sprofondare nel “principio estetico dell’intertestualità”, un’idea molto diffusa nel nostro tempo, dominante, che ha origini illustri e diffuse nel Novecento. In W. Benjamin e nelle sue tesi contro l’idea di genio, ispirazione, creatività e mistero, che, secondo le stesse parole di un Benjamin ancora in preda a un pregiudizio illuministico, “nella storia hanno sempre condotto a un’elaborazione fascista delle opere dell’ingegno umano”. In Faulkner, che non fu affatto interessato a tali nozioni, ma innanzitutto alla scrittura come mero esercizio di artigianato, tecnica, che per lui costituiva il 90% del processo creativo. Se prevale questo mondo, il significato di una parola conta più della voce che la esprime, la voce di qualcuno e non di chiunque.

Quando Luca Ricci, uno scrittore di racconti che va per la maggiore, crede nelle scuole di scrittura creativa e ritiene plausibile la figura e l’intervento dell’editor nel processo creativo di uno scrittore, e afferma senza pudore che scrivere è innanzitutto “uno sforzo immane di logica”, di un labor limae, il frutto di una cultura e una conoscenza presa in prestito, convenzionale. E questa affermazione ha una sola conseguenza, il rovinoso primato della logica sull’intuizione. Il progressivo impoverimento della facoltà di produrre immagini. La convinzione che le più potenti espressioni creative ai nostri interrogativi sull’esistenza siano soprattutto il prodotto della fatica e dello studio cosciente. E privilegiare il momento del lavoro su quello dell’ispirazione. Il frutto di una semplice allegoria mondana, per ridursi a una tradizione ben nota: Mallarmé, Valéry, Faulkner. E una legione di analoghe creature. A vegetare in una metafisica d’artista in preda alle maglie di un mero nesso sintattico-logico. Nel territorio dei grammatici nell’anima. Tra coloro che abbandonano la vera vita per una fottuta letteratura umanista. La fuga dal reale verso la metafora, sublime allegoria.

Quando la calligrafia intellettuale subordina l’eccezione, la creatività individuale a orchestrazione di materiali e suggestioni già esistenti. A un ruolo di mero talento compositivo, per mettere sotto accusa ogni creazione spontanea e per giustificare e privilegiare: “il primato del procedimento e del mestiere a scapito del dono, un’invenzione sprovvista di fatalità, di ineluttabilità, di destino”. L’ottundimento del profondo. Estinzione del lirico. È solo allora che i pallidi  bibliomani scrivono compiaciuti: “Il testo tende a essere sempre meno emanazione inconfondibile di un unico soggetto, sempre più inter-testuale, ogni opera è sempre meno opera individuale e sempre più opera collettiva, sempre meno reale e sempre più virtuale, e il testo è – in ogni sua parte – citazione, anche là dove non si citi consapevolmente… il simbolo generazionale del copia-e-incolla, modello di una new wave di creativi indifferenti al diritto d’autore, sempre più sotterrato nell’era della Rete aperta, anarchica, anonima”, per concludere: “è anche l’estinzione della nozione tardo romantica dell’idea di originalità e di autenticità dell’opera letteraria, concetti che trovano sempre meno ospitalità nella nostra epoca post-contemporanea che fa della citazione, la commistione e il riuso dei testi altrui una delle risorse più diffuse della creatività.” Si scade nell’essoterico. Poi, molto dopo, quando quel che più conta sarà stato evirato, un flebile rigurgito d’anima scriverà sconsolato sulla stampa nazionale: “l’ispirazione ormai fa paura”, “manca la potenza in letteratura”, “poeti, vi accuso”, e dopo aver abbandonato per strada, o reso inoffensivo, il più importante, il meglio, il fetore di quell’energia che contraddistingue le personalità sovrane e il segreto impulso di ogni aspirante Impero.

Quando l’idolatria della citazione, o l’abuso della citazione, è una debolezza alla portata di coloro che posseggono un pensiero proprio. Esempio estremo di abuso e grandezza: i passages di Walter Benjamin. Per gli altri, la maggioranza, è solo lo specchio di un’assenza. Di un vuoto non dico di genio, ma almeno di vero talento. Linfa stagnante.

Quando sai che i libri di Carver passavano sotto l’ingombrante, ipertrofico, travolgente e schiacciante editing di Gordon Lish, il suo editor personale, e lo ridimensioni come scrittore, anche perché concepiva come plausibile l’esistenza e l’importanza delle scuole di scrittura creativa. Al contrario di Bukowski, che al college frequentò un corso di scrittura creativa, per uscirne poco dopo, sbattendo la porta, urlando: “Tutto quello che è stato detto qui dentro è una fottuta stronzata!”.

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Quando uno spettro si aggira da sempre nel territorio della creazione. Aleggia come una tara su ogni impresa creativa, dalla più sublime alla più infima, ormai “rosa dalla più sottile delle anemie”. Un complesso di inferiorità, per lo più dissimulato, in seno alla vita, e un’anomalia clamorosa. Tutti, infatti, soffrono dello stupefacente complesso di voler conferire un fottuto prestigio intellettuale alle loro creazioni e ai loro pensieri, perfino le porno star con velleità da maître à penser, le virago della letteratura erotica, con un’omologia assolutamente falsa, esilarante, quella di credere che l’intelligenza coincida necessariamente con il sapere, l’erudizione, il mondo dei dotti.

Quando ricordi quel giorno in cui, da giovane uomo sano e forte, pieno di vita, ti operasti di una semplice ernia, e fosti ricoverato, in via del tutto eccezionale, in terapia intensiva. Gli altri reparti erano pieni. E ricordi, a notte fonda, quel signore anziano, alto, nel letto difronte al tuo, ormai ridotto a uno scheletro, e all’improvviso assisti alle ultime convulsioni della sua vita, a lui in preda a un attacco ischemico, e alla stretta dell’inesorabile asfissia. Al suo dimenarsi, penosamente nudo, in un vorticare impetuoso di lenzuola, gambe e braccia, il contorcersi delle mani, le smorfie inaudite del volto, mentre invano le infermiere tentavano di contenerlo, e ogni catetere saltava via, come impazzito, spargendo su tutti loro merda e urine. Dopo, un assordante silenzio, e il suono netto, terminale, della linea piatta. Non una parola, solo i gesti asettici di una laica  composizione, dopo il passaggio dell’infame Signora. In fondo, spazzatura da deporre, da smaltire. E tu, con un atto di ingenua pietà, il giorno dopo decidi di trascrivere questo vortice di convulsioni con una fottuta poesia, a trasfigurare questo estraneo con un memento mori:

Conclusa l’avventura della nostra vita
ruotiamo la mano e chiudiamo le dita in un movimento di mezzo vortice
rapido, come un ventaglio che si chiude di colpo
una stretta, una ruga.

E pensi… a questo si riduce la poesia. A sublimare qualcosa di disgustoso, e dare un senso a quel che non ne ha. A far aleggiare un profumo di redenzione sul fetore della vita. Una devastante consolazione, che non ti ha mai consolato. Un’illusione affascinante, e una pseudo immortalità che non ti appartiene. A te, che non ti consideri poeta, e l’unica poesia che abbia mai osato scrivere da giovane, si riduce a questa:

You sink
statuary
“worn by everything ever desired”
the window watching you condensing air on its glass
in a raging winter
dressing the days, trampling same sidewalks
“a funeral in the brain”.

Ma, in fondo, lo sappiamo tutti.

“They say that… great beasts once roamed this world. As big as mountains. Yet all that’s left of them is bone and amber. Time undoes even the mightiest of creatures. Just look at what it’s done to you. One day… you will perish. You will lie with the rest of your kind in the dirt. Your dreams forgotten, your horrors effaced. Your bones will turn to sand. And upon that sand… a new god will walk. One that will never die. Because this world doesn’t belong to you or the people who came before. It belongs to someone who has yet to come.” Ed Harris, in Westworld.

“Everything is more complicated than you think. You only see a tenth of what is true. There are a million little strings attached to every choice you make; you can destroy your life every time you choose. But maybe you won’t know for twenty years. And you’ll never ever trace it to its source. And you only get one chance to play it out. Just try and figure out your own divorce. And they say there is no fate, but there is: it’s what you create. Even though the world goes on for eons and eons, you are here for a fraction of a fraction of a second. Most of your time is spent being dead or not yet born. But while alive, you wait in vain, wasting years, for a phone call or a letter or a look from someone or something to make it all right. And it never comes or it seems to but doesn’t really. And so you spend your time in vague regret or vaguer hope for something good to come along. Something to make you feel connected, to make you feel whole, to make you feel loved. And the truth is I’m so angry and the truth is I’m so fucking sad, and the truth is I’ve been so fucking hurt for so fucking long and for just as long have been pretending I’m ok, just to get along, just for, I don’t know why, maybe because no one wants to hear about my misery, because they have their own, and their own is too overwhelming to allow them to listen to or care about mine. Well, fuck everybody. Amen.

Now it is waiting, and nobody cares. And when your wait is over, this room will still exist… and it will continue to hold shoes and dresses and boxes and maybe someday another waiting person. And maybe not. What was once before you, an exciting and mysterious future is now behind you, lived, understood, disappointing. You realize you are not special. You have struggled into existence and are now slipping silently out of it. This is everyone’s experience. Every single one. The specifics hardly matter. Everyone is everyone. So you are Adele, Hazel, Claire, Olive. You are Ellen. All her meager sadnesses are yours. All her loneliness. The gray, straw-like hair. Her red, raw hands. It’s yours. It is time for you to understand this. Walk. As the people who adore you stop adoring you, as they die, as they move on as you shed them, as you shed your beauty, your youth as the world forgets you, as you recognize your transience, as you begin to lose your characteristics one by one, as you learn there is no one watching you and there never was, you think only about driving. Not coming from anyplace, not arriving anyplace, just driving, counting off time. Now, you are here. It’s 7:43. Now, you are here. It’s 7:44. Now, you are… gone. Die. … Everyone’s dreams in all those apartments. All those secrets we’ll never know. That’s the truth of it – all the thoughts nobody will ever know”.

Philip Seymour Hoffman, in Synecdoche.

Mettono in scena, alla grande, la maggior preoccupazione di ogni essere vivente. Il problema della morte, e il nulla del mondo. È questo quello che fanno la grande poesia e la grande arte e, nel farlo, danno un senso a quel che non ne ha: “le opere di genio… non trattando né rappresentando altro che la morte”. Leopardi

Luca Orlandini

*In copertina: l’autore dell’articolo

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