07 Febbraio 2025

Per sopravvivere al secolo del pensiero unico. Ovvero: leggendo Lobo Antunes a Lisbona

Nel cuore della capitale lusitana, la piazza del café “A Brasileira”, reliquario sacro di Fernando Pessoa, è gremita di gente che si lascia immortalare accanto alla statua del poeta – al tempo, dicono, alquanto schivo, e oggi facinorosamente eletto attrazione di punta dal turismo di massa. A pochi metri, un artista di strada, con in braccio la sua Stratocaster contusa, velocizza una nenia popolare di João Gilberto. E mentre il cielo si allunga negli infiniti colori del tramonto oceanico, un senza tetto si avvicina al mio tavolo, mi chiede spicci e sigarette, per poi ritrarsi mesto in un angolo della piazza: estrae dalla tasca un tozzo di pane e lo spezzetta sulla calçada portuguesa, il lastrico pietroso che esalta la luminescenza naturale della città. Attratti dall’odore della fortunosa libagione, stormi tempestivi di piccioni e di gabbiani ci si avventano sopra in uno smanacciare ventoso d’ali, nel tentativo di sedare i morsi della fame nemica. 

Solo allora, quando il senzatetto regala il resto del pane all’implacabilità dei volatili, mi illudo che debba esser stata una scena simile a ispirare uno dei gloriosi passi di Spiegazione degli uccelli, quarto romanzo del polifonico scrittore – per fortuna o per sfortuna, ancora di nicchia in Italia – António Lobo Antunes. Appena un attimo prima che il senzatetto, rancoroso, pesti il piede per disperdere l’assembramento dei pennuti, immagino il cadavere di Rui S., protagonista del libro, ai primi chiarori dell’alba, riemergere sulle rive del Vouga dilaniato anch’esso dai becchi di quegli uccelli anonimi e spietati, il cui volo, per chi è castigato come l’essere umano alla gravità, non avrà mai vera spiegazione.

“L’estuario cominciò a sprofondare lentamente nel sonno, allo stesso modo in cui due voci si mescolano: all’inizio era solo la laguna immobile e senz’anima dell’acqua, la lingua saburrale della sabbia, i pini in frantumi nella nebbia, le poche barche e la città in fondo, imprecisa come gli occhi dei ciechi, ma poi gli uccelli, i gabbiani e le anatre e i volatili senza nome del Vouga gli invasero le gambe e le braccia, gli divorarono le prugne marce dei testicoli, gli graffiarono con le zampe l’interno della pancia, gli si posarono sulle spalle, sui reni e sulla schiena, gli beccarono il sogno confuso in cui si dibatteva (sua madre che covava un uovo enorme, con dentro lui e le sue sorelle, mentre giocava a carte con le amiche), e quando il primo stormo gli penetrò pigolando nella testa, si svegliò con una sensazione da naufrago nella schiuma delle ossa, e un sapore di limo nella bocca aperta per un grido senza suono.”

Saldo il conto al tavolo e raggiungo, pochi metri più in basso, su Rua Garrett, la “Livraria Sá da Costa”, una delle più antiche di Lisbona. Sommerso da cumuli di stampe d’arte, vinili del sassofonista svizzero Fausto Papetti e mappe topografiche dell’Angola coloniale, trovo un addetto alle vendite piuttosto giovane, in ginocchio davanti a uno scaffale al collasso per il peso dei libri. Domando se per caso abbiano una copia del volume in questione. Lui, rimessosi in piedi, con uno sguardo tra il sorpreso e il sospetto, mi domanda in un inglese meno stentato del mio: «No. Ma come fai a conoscerlo, se non lo leggono neanche più i portoghesi? Perché?! Ma perché è ostico, la gente lo trova indigesto». Esito, un istante di troppo. Ringrazio, lascio la libreria.

È vero, l’ossatura letteraria di Antunes è adamantina, a tratti impenetrabile: la ridondanza modernista delle immagini poetiche non teme di “perdere” il lettore, di affogarlo in circonvoluzioni sempre più ampie di pensiero che denudano via via il litorale occulto della vita; l’aggettivazione virulenta; il bouquet delle voci incessanti, innestate le une alle altre, molteplici al limite dello schizoidismo, rapide a rincorrersi, seminando qua e là le tracce di una trama vaga seppur costantemente presente, energica come la tonica in chiave a una sinfonia: Rui S., uomo incapace di prendere decisioni, deve risolversi a mettere un gravoso punto al suo secondo matrimonio. 

Semplice – a dirsi. Ma quali dubbi, tormenti e angosce, quali ripensamenti; quanta tensione può coagularsi, in assenza di un estuario di sfogo, dietro a una scelta simile? La malinconia preventiva del distacco di là da compiersi. Il pestifero senso di colpa, onnipresente davanti a un domani incontrovertibilmente ignoto. Quanta resistenza opporremmo a un cambiamento di tale portata nel corrispettivo reale di questa verosimiglianza romanzesca? Chiameremmo a raccolta anche noi, come il protagonista, la pletora di tutti i nostri spettri più cari? Risalirebbe alla graticola della memoria la fantasmagoria dell’infanzia, perduta chissà quando, o il compendio diaristico di tutti quei fallimenti eroici che hanno deturpato, significandola, la nostra stessa esistenza?

“Quelli sono cacatua, disse suo padre, quelli nibbi, quelle aquile, quelli con il becco lungo sono ibis, andavano insieme allo zoo per osservare gli uccelli da vicino, le retine feroci di cristallo, i piccoli artigli delle zampe, il modo in cui le penne si distribuivano sulle ali, le più grandi, le più piccole, la peluria chiara del petto, i corvi camminavano come noi sul suolo di cemento disseminato di escrementi e di gusci, le cicogne assomigliavano a un amico di mio padre che camminava sollevando tantissimo le ginocchia, i piedi degli struzzi, deformati da scarpe troppo strette, lo commuovevano, papà disse Ogni loro verso significa una frase specifica, siamo noi a non essere ancora abbastanza evoluti da capire certi linguaggi, certi cenni del capo, ad esempio, il disegno dei loro voli, Marilia tirò fuori dalla borsa un libro con la copertina sgargiante e si sedette a leggere sul materasso con l’aria rassegnata con cui lavorano all’uncinetto le mogli dentro alle automobili parcheggiate intorno agli stadi di calcio, le molle protestavano cigolando quando uno di loro due si sistemava meglio il cuscino.”

Fuori dalla libreria il tardo pomeriggio è sfumato nelle perplessità della sera. Costeggio i lampioni d’ambra, cercando la via più breve per raggiungere Alfama, il quartiere popolare dove mi si aspetta per cena. 

Cammino, sbaglio strada, più e più volte, ostinandomi a non ricorrere all’ausilio dell’infosfera. Chiedo dritte a un’anziana signora angolana. Mi indica una salita ripidissima, che a guardarla ho già il fiatone. Lei mi saluta sorridendo, con l’unico dente in bocca, e mi dice: «Viva bem sua vida». È dunque questo ciò che può accadere leggendo Spiegazione degli uccelli, d’imbattersi in un imprevisto atto di sovversione estetica: nelle galere psichiche di un mondo iper-controllato, può ancora accadere di perdersi – perdersi è meraviglioso, avrebbe aggiunto il compianto David Lynch. Trovarsi in una camera da letto, intrisa di un’atmosfera mortifera, insieme a Rui e sua moglie, per poi, poche frasi dopo, essere scaraventati indietro nel tempo, testimoni del sanguinario rimpatriare dei conquistadores lusitani o della tragica ferita inferta dalla dittatura salazarista, mentre il punto di vista dell’ente “parlante” si modifica a ogni capoverso, mentre si trasformano il tempo, la lingua e il luogo della narrazione, ora realistica, ora onirica, in una vertigine rapsodica simile in tutto agli intarsi barocchi degli azulejos, che vedo rivestire magnificamente ogni angolo dell’architettura della città.

“Un chiarore sporco modellava a poco a poco i contorni degli oggetti come un vasaio paziente, e cominciai a distinguere il tuo volto schiacciato contro il cuscino, un occhio, la bocca aperta, le rughe che formavano linee di parentesi sulle guance, la sagoma, ancora indistinta, del corpo. I vestiti appesi alle sedie sembravano oscillare al ritmo di un respiro misterioso, le pareti si dilatavano e si restringevano lentamente: La pulsazione delle mie tempie sul cuscino fa palpitare il mondo. Pensò di fumare una sigaretta, di leggere un libro, ma preferì mettersi a sedere sul materasso per vedere il mattino avanzare palmo a palmo sul pavimento, rivelare i difetti del legno, le frange del tappeto, i piedi arcuati e scrostati dei mobili: il giorno comincia sempre da questo malessere fisico, da questa strana nascita delle cose conosciute, dal tuo viso deformato che dorme.” 

Giunto in cima al suggestivo miradouro de Santa Luzia, osservo Lisbona, questa porta spalancata sull’America Latina; il Tago, in basso, un gigante addormentato che cela la sua forza nell’oscurità notturna e sulla cui schiena si riflette il lucore anemico delle stelle; così la prosa di Antunes riemerge ai miei occhi, imperfetta, certo, ma con dentro lo stupore di una galassia sognata sul pelo di quell’acqua scura, i cui bracci, devoti a una caotica frammentazione, tendono a un centro demiurgico che resterà per sempre inconosciuto.

Mi chiedo da quando non c’è più tempo per leggere, scrivere, riflettere, pensare in maniera critica? Far più niente che non sia piegarsi al profitto e alla spendibilità immediata, all’accidiosa legge di mercato. Cosa ne faremo di tutti quei libri perfetti, maniacalmente editati, cuciti su tematiche cool, che occupano militarmente gli scaffali delle librerie, che mortificano la diversità artistica e bistrattano i lettori, considerandoli alla stregua di utili idioti? Leggere Antunes (e i grandi che, per eccesso di personalità, oggi faticherebbero a esordire nei cataloghi editoriali – penso a Gadda, Proust, Ortese, Berto, Gombrowicz, Woolf, Joyce, Malaparte, Céline, Kristof, etc.) è irrobustire il proprio sistema immunitario, fabbricarsi gli anticorpi per sopravvivere al secolo del pensiero unico che viene, in cui il significante e il significato coincideranno ai limiti della tautologia; in cui non ci saranno più dibattiti, né controversie perché la democrazia liberale avrà raggiunto il massimo grado di perfezione. E tutti saremo salvi.

Si alza il vento sul miradouro. Non serve che qualcuno dispensi dottrine sulle ragioni del mondo: esso, come l’opera d’arte, basta a sé stesso. Per dirla con Jaques Derrida, di Antunes e dei suoi uccelli resterà al lettore non il significato, ma la provocazione di uno spostamento di significato, che altro non è che la chiave segreta della loro splendente seduzione.

Il telefono squilla: «Dove sei?». Se neanche la letteratura è più il luogo d’espressione artistica in cui eternare le imperfezioni che nel bene e nel male ci rendono noi stessi, allora rimane un solo proiettile nel tamburo della pistola chiusa sul fondo dello spirito collettivo – bisognerà utilizzarlo a dovere.

Inutile ribadire quanto tardi abbia fatto quella sera a cena.

Vincenzo Montisano

*In copertina: Tippi Hedren con corvo

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