L’immagine domina per eccesso di fascino. Una donna, d’irritante bellezza, che vaga per l’Afghanistan, come una principessa rea di un lignaggio pieno di pantere e paltò. I briganti non osano assalirla; il volto è leonino, saprebbe trarre latte da quelle rupi a ghigno. “Girava a cavallo per contrade primitive, lottando con la calura, la stanchezza, la febbre tropicale”. Da quel “romantico viaggio” intrapreso “per studiare i costumi e la natura” dell’Afghanistan, la donna, Larisa Rejsner, trasse un reportage, Afghanistan, appunto, che ebbe un abile fan in Angelo Maria Ripellino. Il libro, costituito da otto frammenti lirici, è stato in parte tradotto su “L’Europa Letteraria” (n. 3, giugno 1960); Ripellino ne parla con sfarzo, in un articolo (Rivalutata Larisa Rejsner), come sempre, pieno di meraviglie. Uno dei frammenti resi in fiammeggiante gergo italico da Ripellino, s’intitola Le vette, eccolo:
“Le vette. Le loro spalle inclinate, coperte di fiori appena visibili, ma fortemente e soavemente odorosi. I loro declivi luccicano di mica, malachite e marmo. Il vento che passa di qui è puro e freddo come acqua di sorgiva. Ma esse sono indescrivibili. Non ci sono parole nel linguaggio degli uomini per indicare come esse si levino di colpo in cielo, più temerarie di vessilli, più tranquille di tombe; gigantesche separatamente, e più grandi di un oceano, più grandi di tutto ciò che v’è di grande sulla terra, quando sono insieme.
Forse un grande poeta, trovandosi ad una di quelle altezze senza nuvole, sulle quali tranquille spaziano le aquile, vedrebbe ed esprimerebbe tutta la luce effusa sulle corazze metalliche delle pietre, questi veli leggeri di colore opalescente, perlaceo e cenericcio, dai quali la calura ed il sole si innalzano verso l’eternità, come fiori inauditi, e più lievi di meduse. Oppure un selvaggio, un eroe, un vincitore: guarderebbe emettendo il suo grido di guerra, questo ridente ruggito, incorporeo e voluttuoso, nel quale è tutta l’ebbrezza di chi vede una terra che si può possedere e tutto il rimpianto insaziabile di non poterla dominare in eterno”.
Eccelle nell’esagerazione e nella scrittura marziale, la Rejsner. In Afghanistan sarebbe dovuta andare con Osip Mandel’štam, l’antico amico, messo al giogo del suo fascino; scrisse che Larisa era, al contempo, determinata “come artiglieria pesante” e sinuosa, “danzava tra noi come un’onda marina”. La moglie, Nadežda, stranamente, parla di lei per sibili e sussurri.
Dal viaggio in Afghanistan, comunque, va tolto l’inclito romanticismo: Larisa aveva sposato Fëdor Raskol’nikov, comandante delle flotte del Volga, del Caspio e successivamente del Baltico durante la guerra civile, plenipotenziario in Afghanistan per conto dell’Unione Sovietica. Di fatto, Larisa agiva come alto membro dei servizi russi. Fu il marito a suggerirle di fare a meno di Mandel’štam, poeta già compromesso, nel tour afgano – quanto a lei, maldisposta ad accettare consigli, possedeva una certa astuzia politica.
Ha ragione – come sempre – Ripellino, però, quando pittura lo scarno ritratto della Rejsner, figura di immedicabile potenza, tutta ruggiti:
“La rivoluzione fu il suo elemento: il fuoco della lotta diede un’aureola di leggenda a questa donna giovane, bella, elegante, cresciuta nell’atmosfera idillica della casa d’un professore. C’era in lei il bisogno di rompere con le consuetudini, di vivere generosamente e senza paura in un’epoca che trasformò la Russia dalle fondamenta”.
Nata a Lublino nel 1895, studi a Tomsk, dove il padre, Michail Rejsner, insegnava diritto, aveva nobili ascendenze per parte di madre, Ekaterina, imparentata, alla lontana, con il mitico generale (e principe) Kutuzov. Ereditò da lì, probabilmente, Larisa, il carattere guerriero: bolscevica dal 1918, durante la Guerra civile fu soldato e commissario politico nell’Armata Rossa, con compiti di intelligence. Fiorirono favole sulla sua screanzata bellezza, usata per fini di partito: nel 1923 entrò illegalmente in Germania a fomentare le rivolte dei proletari tedeschi (che raccontò in Amburgo sulle barricate), diventando l’amante del rivoluzionario Karl Radek. In Cina si legò a Liu Shaoqi, sodale di Mao, futuro Presidente della Repubblica Popolare Cinese. Nella sua autobiografia, La mia vita, Lev Trockij la ricorda come
“la magnifica giovane che affascinò tanti cuori e passò come una meteora di fuoco sul cielo della Rivoluzione… Voleva sapere e vedere tutto, partecipare a tutto. In pochi anni diventò una scrittrice di vaglia. Dopo essere passata illesa attraverso il fuoco e l’acqua, questa Pallade della rivoluzione soccombette improvvisamente al tifo nei tranquilli dintorni di Mosca”.
Non ricorda, Trockij, gli inizi della sua Pallade pupilla. Larisa Rejsner amava la poesia, amò i poeti; credeva, probabilmente – idea non peregrina a leggere i fragorosi proclami di Vladimir Majakovskij e di Aleksandr Blok – che la Rivoluzione, in sé, fosse l’assalto dell’assoluto nella Storia, la possibilità di una vita autenticamente (cioè: violentemente) lirica. Idolatrata un po’ da tutti, giovanissima, la Reisner si unì a Nikolaj Gumilëv, formidabile tombeur, marito di Anna Achmatova. Pare che Larisa avesse un debole anche per la Achmatova (“Darei assolutamente tutto, tutto, per essere come lei”); in entrambe, nelle finiture del sangue, d’altronde, ricorreva lo stesso lignaggio marziale, da eredi di re guerrieri e di generali – probabilmente, avere ragione del marito le pareva una vittoria. Ma Gumilëv, d’indole indomita, fece presto a sostituire l’amante con molte altre; quanto ad Anna, i tradimenti la lasciavano indifferente. Quando la Achmatova le offrì la mano, un giorno come tanti, per conoscerla, Larisa pianse. “Perché mai, poi?”, ricorderà, più tardi, la poetessa, “Non sapevo che avesse una relazione con Nikolaj. E anche se l’avessi saputo, perché non darle la mano, a che pro?”. Quanto al resto, restò superiore: “Essere come me? Che idiozia. E per avere cosa? Tre finestre sulla Neva?”.
Quando i bolscevichi fucilarono Gumilëv, nel 1921, ne fu distrutta – per la viltà e i sotterfugi, più che tutto. L’anno prima, Larisa fu “l’ultimo invaghimento fuggevole” (Ripellino) di Blok. Voleva conquistarlo al partito, ma il poeta era disilluso, inerme, malato. Morì l’anno dopo, era agosto: i poeti lo portarono a spalle, “in una bara scoperta, inondata di crisantemi”. Pochi mesi prima, aveva detto ciò che bisognava dire ai colonnelli della rivoluzione, durante la cerimonia solenne per fare memoria della morte di Puškin:
“Non fu la pallottola di D’Anthes ad uccidere Puškin. Lo uccise la mancanza d’aria… Pace e libertà. Sono necessarie al poeta, perché egli possa disciogliere l’armonia. Ma ti tolgono anche la pace, anche la libertà. Non la pace esteriore, ma quella creativa. Non la libertà dei bambini o dei liberali, ma quella creativa, la libertà segreta. E il poeta muore, perché l’aria si fa irrespirabile; la vita ha perduto senso”.
Larisa non capì queste parole, Larisa non ebbe tempo di capire la generazione che ha dissipato i suoi poeti, come ha scritto Roman Jakobson. Morì di tifo, a Mosca, il 9 gennaio del 1926, ancora giovane – aveva trent’anni –, ancora bella, dunque in favore di leggenda. Il giorno dopo Boris Pasternak compiva 36 anni. Alcuni dicono che la Lara del Dottor Živago è calcata sull’ombra di Larisa Rejsner: la mente dei poeti è troppo labirintica per farne banale tassonomia e un libro non è una raccolta di figurine. Ad ogni modo, il poeta dedicò a Larisa una poesia, un suo personale esercizio di ammirazione, questa:
Alla memoria di Larisa Rejsner
Questo è il tempo del lamento, Larisa, perché io non sono la morte, nulla sono al suo cospetto. Avrei capito dai frugali frammenti di questi giorni senza cemento come si consolida una storia.
Con quanta cura ho esaminato i materiali! Gli inverni crollavano in truppa, le piogge scalciavano e le nevi, nei loro vasti cappotti, cullavano le città come bambini attaccati al seno.
Vagabondi squarciano la fatica del tempo. Carri segnano scie sulla strada. Gli anni affondano, hanno l’acqua alla gola, altri anni sbarrano il guado, sono inondazione.
Intanto, i nidi alambicco si vanno formando e la vita ribolle ostinata come sempre: i lampioni vegliano su chi lavora illuminano le parole, le stelle e la ragione.
Dimmi, ora: chi non è fatto di fiocchi di neve e di segreti di nebbia? Tutti siamo allevati da una bellezza in rovina: soltanto tu sei al di là di ogni lode.
Meraviglia modellata dalla lotta, soltanto tu sei balzata in avanti, come uno sparo, piena del tuo fascino. La vita può dimenticare un incantesimo? Tu sei la soluzione senza difetto, la cosa che va dritta al punto.
Fluttuavi come fumo, sei stata tempesta di grazia. Ogni singolo istante, fuoco che vive: e ogni cosa imperfetta perse il favore e ogni mediocrità allevò disgrazie.
Vaga, allora, eroina, nei recessi della leggenda. Quel sentiero non stancherà la tua corsa. Dilaga, alta, sopra i miei pensieri. Nella vastità della tua ombra l’opera respira con facilità.