29 Maggio 2018

“Sono condannata ad essere letta pochissimo… sono monomaniaca, come Emily”: dialogo con Jacqueline Osherow

C’è una oltranza in quello che scrive. Un oltrare, cioè un inoltrarsi nell’ultra, dissezionarai dagli altri, incunendosi negli altrove. In un articolo pubblicato su Poetry Society of America, scrive: “Emily Dickinson non è soltanto il più grande poeta mai prodotto dagli Stati Uniti, è il più vivo degli ammonimenti. La sua vita ci dice che, certo, puoi scrivere grandi poesie in America, ma se vuoi pubblicarle dovrai scrivere le tue poesie da solo, piegare le pagine e legarle con lo spago. Forse sono perversa, o l’esempio della Dickinson mi ha fatto il lavaggio del cervello, ma penso che questa marginalità sia la forza della poesia americana. Non puoi ricavare nulla scrivendo poesia in America, se non la poesia stessa, e questo basta a renderci – come Emily – una forza sufficientemente monomaniaca interessata soltanto alla straordinaria possibilità che può scaturire da una pagina bianca”. La latitanza dalla fama come potenza, l’invisibilità come visione, l’inutilità come guadagno. La pagina bianca come unico senso. La ‘mania’ come strategia di vita. Jacqueline Osherow, classe 1956, insegnante alla University of Utah, è tra i grandi e riconosciuti – tra i premi importanti: il Guggenheim Fellowship, l’Ingram Merrill Foundation – poeti degli Stati Uniti, oggi (qui una sua scheda). Ma dei riconoscimenti se ne fa poco. Pratica l’oltranza. Coltivando una poesia alta, raffinatissima, che non ambisce alla facilità ma alla verità (per lo meno, lirica). Autrice di sei libri in versi (da Looking for Angels in New York a Dead Men’s Praise e Whitethorn: Poems), pubblicata un po’ ovunque (dal New Yorker alla Paris Review), Jacqueline traduce l’esempio – folgorante, fosforico – della Dickinson temprandolo ad altre letture e tradizioni: da Dante, l’incommensurabile (la Osherow ha desti legami con l’Italia, anche un po’ idealizzati), ad Anna Achmatova, da Willa Cather a Isaia, il profeta biblico, che elettrizza i suoi versi. Portandoci in un aldilà della storia, la poesia è l’essenza della lotta – come la Dickinson, il poeta, nella sua stanza, in esilio dal potere, si incide direttamente sulla carne del tempo.

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Lei è Jacqueline Osherow

Com’è nata la poesia dentro di te? Quali sono le tue influenze letterarie?

Credo che la poesia nasca dalla poesia. Credo che volessi comporre perché non ricordo un momento in cui io non sia stata, almeno un po’, sotto l’incantesimo della poesia. Riesco ancora a udire le filastrocche di Mamma Oca nella voce di mia madre, quella dolce cantilena e le loro trame strampalate: “Una vecchietta che vive in una scarpa? 24 merli cucinati in una torta? Un piatto è scappato con un cucchiaio?”. Anche se avevo solo tre anni, sapevo che certe cose erano impossibili, cionondimeno la mia fantasia ne rimaneva ammaliata; continuavo a sperare che il mio ambiente domestico mi sorprendesse. Poi c’era A Child Garden’s of Verses di Robert Louis Stevenson. Quanta pena ho provato per il povero bambino che, “in estate” doveva “andare a letto quando ancora il sole era alto”, almeno fino a quando – a vent’anni – ho scoperto che in Scozia, in giugno, il sole tramonta verso le 11 di sera. Ciò che però mi ha influenzato di più, probabilmente sono stati i salmi che sentivo in sinagoga, sia in Ebraico sia in Inglese; anche se dubitavo di avere “mani innocenti e cuore puro”, sicuramente pensavo che fosse un ideale al quale tendere… La poesia che c’è nella Bibbia è sicuramente la mia più grande influenza; ogni settimana vado a cantare in sinagoga. (Poche persone in Utah sanno intonare gli inni tradizionali). Chiaramente mi sono innamorata anche della poesia Inglese in ogni sua possibile forma. Quando avevo 11 o 12 anni, mentre cercavo nomi di autrici donne nella pachidermica antologia delle Grandi Poesie Inglesi – che mio padre aveva regalato a mia madre quando ancora si stavano corteggiando – ho incontrato la mia inesauribile buona sorte: Emily Dickinson, che ancora considero la più grande poetessa d’America. Poi, mentre imparavo lo spagnolo ho perso la testa per García Lorca, mentre al college fu il momento di Yeats e Keat … Andavo pazza per l’interpretazione del mio insegnate, Robert Lowell, di “Notizie dall’Amiata” di Montale, anche se poi l’ho rivalutata una volta imparato l’italiano. L’italiano mi ha fatto conoscere Leopardi (altrimenti completamente intraducibile), Petrarca (persino Chaucer non è riuscito a tradurre i suoi 14 versi con meno di 21) e (non ci sono aggettivi adeguati a qualificarlo) Dante – sono rimasta scioccata quando, con la mia vicina di casa che faceva l’uncinetto, ho visto alla tivù (poggiata in bilico sul frigorifero) Vittorio Gassman che recitava Dante su Rai Uno. Ho adorato Byron per la sua onestà, il suo humor e la sua schietta spavalderia… e Frank O’Hara per (come lui stesso dice) per il suo “dar di matto”. Ad un certo punto ho scoperto i poeti russi del XX sec. Achmatova e Mandel’stam probabilmente sono i miei preferiti. Poi il polacco Zbigniew Herbert e il turco Nazim Hikmet. Nel mio cuore c’è un posto di riguardo per le lingue che non parlo: sei costretto ad immaginare una qualche inaccessibile ma, al contempo, perfetta idea platonica della poesia.

Ho letto un articolo in cui sei stata molto severa nei confronti del ruolo della poesia negli Stati Uniti. Cito: “Non solo l’America non ha tempo per la poesia, ma non ha nemmeno nessun interesse per essa, né le attribuisce alcun valore. Essendo immateriale e non pragmatica, la poesia, è per definizione non funzionale all’obiettivo primario del paese”. Potresti argomentare più approfonditamente: che valore ha la poesia nella società americana contemporanea?

Forse la mia definizione di poesia era troppo limitata quando ho scritto questo pensiero. Forse ricordavo ancora nitidamente l’Italia, dove un grande pubblico avrebbe ancora guardato un attore leggere una poesia vecchia di 700 anni in televisione, e tutti i miei amici – nessuno dei quali era uno scrittore o un insegnate di letteratura – potevano recitare dozzine di poesie. Mentre negli Stati Uniti nessuno legge poesie tradizionali in televisione e in pochi sanno citare anche solo un verso. D’altro canto, c’è la musica hip hop. L’America brama la poesia. Ultimamente ho sentito dei versi durante la lezione di ginnastica in palestra. Mi hanno colpito tantissimo: scopro che sono di Chance the Rapper.

Is you is or is you ain’t got gas money?                   Sei tu o non sei tu che non hai i soldi per la benza?
No IOU’S or debit cards. I need cash money.       Non faccio credito e non prendo il POS. Voglio i soldi adesso.

Ogni volta mi stupisce. C’è ogni tipo di espediente poetico nei versi rap. L’America produce due tipi di poesie: poesie popolari e poesie che invece ci impiegano tantissimo per raggiungere i lettori. Il XIX secolo ne è la prova. I nostri due più grandi autori erano diametralmente opposti: Whitman, i cui libri andarono in ristampa una miriade di volte, ed Emily Dickinson, che non pubblicò quasi niente da viva. Per quanto ammiri Whitman, preferisco di gran lunga la Dickinson, quindi penso di essere condannata ad essere letta pochissimo.

libroIn Italia, l’immaginario popolare è fondato sulla fiction e sul cinema Americano. Quali sono i tuoi rapporti con i romanzieri statunitensi? E con la cultura Italiana?

In questo preciso momento storico, secondo l’opinione di tutti, il nostro più grande traguardo culturale sono le serie tivù. La gente ne va matta. Dicono siano innovative, brillanti. Quanto a me… io non le guardo, non mi piace stare chiusa in casa a guardare la televisione. Tuttavia, amo andare al cinema e vengono ancora dati grandissimi film americani, i classici degli anni ’30 e ’40 (con Cary Grant, Katharine Hepburn, Clark Gamble, Jean Arthur e Jimmy Stewart) li ho nel cuore. Leggo romanzi in continuazione; Philip Roth è l’autore che più ammiro – una volta, sotto un lampione, stavo crepando dalle risate per “Lamento di Portnoy” nonostante avessi perso un autobus che passa ogni ora e stava pure piovendo. Anche The Song of the Lark di Willa Cather – su una strana donna americana che diventa artista – è prevedibilmente uno dei miei preferiti. La cultura italiana è stata cruciale in un momento (per me) cruciale. Sono stata per la prima volta in Italia quando studiavo al Trinity College di Cambridge per la mia laurea magistrale, durante le vacanze invernali del 1978. Dico sempre che è stato per me, come passare dal Medioevo al Rinascimento. Volevo arrivare a Roma, ma non sono riuscita ad andar via da Firenze. La meravigliosa arte del rinascimento italiano è stata una rivelazione per me. Ci sono ritornata durante la pausa primaverile. Poi, qualche anno più tardi, il proprietario del condominio nel quale vivevo a New York, mi ha offerto dei soldi per andarmene – voleva demolirlo per costruire un grattacielo – e così mi sono trasferita direttamente a Firenze. La cultura italiana che ho “sposato” era vecchia centinaia di anni, ma l’ho sposata ugualmente – per davvero. Ancora oggi ritorno a Firenze tutte le volte che posso e continuo a credere che ciò che ho trovato lì sia la più consistente prova materiale della capacità del genere umano di compiere imprese straordinarie. Nonostante tutta questa grandezza, Firenze ha ancora bisogno di arte, di coprire le proprie strade di poesia, di ornare con le parole di Dante ogni scorcio da lui descritto. È inimmaginabile che ci sia un bisogno quasi vitale di poesia quando già c’è così tanta arte! Firenze mi ha dato il coraggio per diventare una poetessa. L’Italia è in ogni mia poesia, dal mio primo libro, in cui paragono la mia pancia gravida al ‘cupolone’ del Brunelleschi, al mio ultimo libro, nel quale mi chiedo come dev’essere stato per un monaco vivere in una cella affrescata da Beato Angelico. Per quanto siamo distanti dalla cultura italiana contemporanea, io, come ogni donna negli Stati Uniti che legge un poco (mamma, sorelle e figlie incluse) abbiamo divorato la trilogia napoletana di Elena Ferrante e lo stesso accadde con il quarto volume non appena l’hanno tradotto in inglese. Personalmente, adoro anche il cinema italiano. Due titoli in particolare sono Padre Padrone e La Notte di San Lorenzo dei fratelli Taviani. La recente scomparsa di Vittorio mi ha resa molto triste.

Credi che la poesia abbia un dovere etico? Che valore ha la poesia oggi, nell’epoca di Trump?

Oh – questa è una domanda molto complessa. Devo dire di non aver letto molto di Ezra Pound, che era un genio assoluto, perché era un fascista. Apprezzavo l’opera di Gottfried Benn, ho fatto qualche ricerca su di lui e quando è venuto fuori che è stato il più grande poeta nazista – ho deciso di non addentrarmi oltre. Quindi devo ammettere che per me è molto difficile approcciarmi ad autori, e parlo di quelli vissuti più o meno nel mio stesso periodo, la cui etica era così deplorevole. Non ho mai letto una singola parola di Norman Mailer perché da adolescente l’ho visto comportarsi in maniera disgustosa con Kate Millet (una scrittrice femminista) durante un talk show. La me stessa di 13 anni ha pensato “per quale ragione al mondo dovrei mai leggere qualcosa scritto da una persona così terribile?” e la me stessa di 61 anni sta ancora aspettando di ricredersi.

Ma questo non c’entra niente con l’eticità delle poesie stesse. Adoro Isaia: riesce a combinare immagini e liriche direttamente con insegnamenti etici (Isaia 1: 17-18 imparate a fare il bene; cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova. ‘Su, venite, e discutiamo, dice l’Eterno; anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come la neve quand’anche fossero rossi come la porpora, diventeranno come la lana). Ancora una volta, ciò che contraddistingue la poesia è la sua abilità di affermare concetti opposti nello stesso momento; in senso stretto, questo andrebbe contro l’etica in sé per sé… e penso sempre che, qualunque regola si possa stabilire, ci sarà sempre qualcuno di più geniale in grado di romperla. Io eviterei qualsiasi tipo di divieto in poesia. Detto ciò, le poesie che sto scrivendo in questo momento, sono indirizzate direttamente alla politica. L’attuale situazione in America è talmente tragica e scioccante che è impossibile da ignorare, perfino in poesia. Il mio modello è Anna Achmatova. Ha scritto liriche incredibili nella sua gioventù, ha vissuto in un periodo in cui bisognava avere un’attenzione particolare e lei ne è stata all’altezza. Guarda “In luogo di una Prefazione” dal suo capolavoro Requiem. Negli anni ’30 molte persone aspettavano in fila fuori dalla prigione di Lubyanka. Aspettavano ore solo per avere notizie dei propri cari, amanti, genitori, figli o fratelli. Si è chiesta “Puoi descrivere questo?” e si è risposta “Io posso”.

foto JacquelineCredi che la poesia si possa insegnare? Hai vinto molti premi letterari: cosa significano per te i premi?

Attualmente ricopro la carica di direttrice del Programma di Scrittura Creativa all’Università dello Utah e ho insegnato scrittura creativa, così come letteratura, per almeno 30anni. Quindi se non pensassi che almeno qualcosa della poesia possa essere insegnato, sarei una persona profondamente disonesta. Per quanto dubiti che una laurea in poesia sia necessaria per diventare un poeta – a proposito di questo, quando ho raccontato che lavoro faccio ad una mia vecchia amica polacca, lei in tutta risposta mi disse, “Non credo che né Goethe né Schiller siano andati all’università per imparare a poetare” – credo comunque che possiamo offrire ai nostri studenti un’ottima proposta. Possiamo presentargli la più vasta gamma di componimenti che ci sia; li spingiamo a dare il massimo per migliorare le proprie opere, li aiutiamo a capire cosa fa per loro e cosa no, a distinguere i trucchi dai veri momenti d’ispirazione, ad ascoltare, a essere recettivi, a rendere ogni poesia al meglio possibile. Certamente insegniamo la tecnica e l’utilizzo delle forme. Ho detto poco fa che un genio creativo può rompere ogni regola col suo estro; tuttavia, alcune norme generali risultano molto utili nella maggior parte delle volte. Noi crediamo di poter aiutare gli studenti ad arrivare ai loro obiettivi più velocemente ed è una grande responsabilità. Sono terrorizzata dallo scoraggiare involontariamente uno studente a perseguire una buona idea che però ancora non è ben visibile sulla carta. Ho anche paura di insegnare agli studenti come risolvere i propri problemi semplicemente mostrandogli come io li risolverei. Non sono certa che il mondo abbia bisogno di me, ma sono assolutamente sicura che non ha bisogno di due me. Per quanto riguarda i premi, posso dire che la poesia è un business molto isolato: come ho già detto, i poeti come me sono molto poco letti in America. Quindi, accolgo i premi con piacere semplicemente perché sono la prova concreta che qualcuno ha letto e addirittura valutato quest’effimera cosa per la quale ho dato tutta me stessa. Tuttavia, credo improbabile che chi scrive ciò che sarà ritenuta la miglior poesia dei nostri giorni sia la stessa persona che ha vinto molti premi. È impossibile valutare accuratamente l’arte a noi contemporanea. Tendiamo troppo spesso a confondere il nostro investimento personale, l’importanza dei dettagli all’interno delle nostre vite, con la magnificenza. Solo quando i particolari specifici smettono di avere importanza si può veramente stabilire se un’opera è grande o meno. Eccezion fatta per Yeats, Eliot, Montale e Neruda, i grandi poeti del XX sec. non hanno mai vinto il Nobel. Penso per esempio a Rilke, Mandel’stam, Achmatova, Cvetaeva, Garcia Lorca, Hikmet, Auden o Celan.

A cosa stai lavorando adesso?

Ho appena consegnato il manoscritto del mio nuovo libro. La mia sosia al Tempio di Krishna, che uscirà in primavera. Attualmente sto lavorando ad una serie di lunghi componimenti su Berlino, dove ho trascorso 3 mesi durante il mio anno sabbatico proprio l’anno scorso. Avendo scritto così tante poesie sull’olocausto (i miei figli sono la terza generazione di sopravvissuti), ho sentito che era arrivato il momento di fare i conti con la Germania, dove ero già stata per soli 3 giorni nel più completo disagio. La prima di queste poesie, Città Ideali, si serve dei tre dipinti commissionati da Federico da Montefeltro (uno esposto ad Urbino, uno a Baltimora ed uno a Berlino) per paragonare la Berlino di oggi, così come gli Stati Uniti, con la Città Ideale del rinascimento (che Urbino sembra – almeno in senso fisico – essere); il secondo componimento guarda alla Porta di Ishtar, nel Pergamonmuseum, attraverso il filtro del Salmo 137 (“Sui fiumi di Babilonia”) e procede attraverso il tempo, l’esilio e l’oppressione per giungere all’odierna crisi dei profughi; un terzo brano parla dei sensi di colpa di un’anziana signora che ha vissuto la sua adolescenza durante la guerra. Sto lavorando anche ad un secondo progetto: una serie di componimenti brevi (villanelle) che cercano di arrivare alla diffusione dell’immagine poetica in Cina, in cui ho passato un mese del mio anno sabbatico mentre visitavo mia figlia, che insegna lì. Il titolo provvisorio è: “Ponendo una domanda alla Primavera” in un Padiglione nell’antico giardino di Suzhou.

(servizio di Davide Brullo, traduzione di Giacomo Zamagni)

*

Bianco su Bianco

dopo Kazimir Malevich

È il genere di quadro che non posso sopportare –
un quadrato bianco e storto su uno sfondo bianco –

l’ennesima incarnazione estetica
di quell’impero fasullo, ancora nudo,

che si lecca via lo sporco nei suoi vestiti inesistenti;
ho vissuto a Firenze – dove i dipinti respirano –

ho visto come la materia inanimata
(l’oro polverizzato, le gemme tritate

e l’albume mescolato con il colore duraturo)
possono diventare emozione pura,

come maestri, dopo maestri, dopo maestri
hanno desiderato una volta di malta umida e fresca

così che il profano possa durare
accanto al sacro, l’impalpabile.

Perché dipingere un quadrato bianco e storto
su uno sfondo bianco quando puoi andare

ovunque, quando puoi abbracciare ogni cosa?
Se il mondo ci ha delusi, un dipinto almeno

potrebbe offrirci la sua totale estasi.
Mi interessava, ne fui catturata

c’era dentro un po’ di me (anche se la mia materia
era meno pregiata, parole invece di preziosi)

o almeno mi sono consumata nel tentativo;
ero un’esperta sognatrice e sognai,

e per questo sono andata avanti tanti anni.
Ma anche la più accanita fra le sognatrici

deve, prima o poi, vedere
che il mondo va avanti senza lei

nonostante la lusinghiera intrusione
ed è magra l’illusione che

nella sua gloria si mostra come menzogna.
Tra l’altro, ho sprecato poesie su poesie.

Pensa a tutto la ricchezza che ho abbandonato
incolta, l’inattesa

ma chiara lealtà fra le cose,
come una presenza, di questo suo accordo, segni

proprio dentro al mio campo visivo
ed io non riesco mai a disfarmene:

l’anno in cui la neve tardò ad arrivare e la montagna
divenne improvvisamente una roccaforte di ermellino

bianca sul dorato residuo dei pioppi
(è l’inclinazione della luce invernale che determina

il colore del loro manto e non la neve)
o una passeggiata in giugno – che c’è? – cinquant’anni fa,

il versante della montagna un haiku visibile:
cinque capre di montagna sull’ultimo angolo innevato

e le avrei lasciate lì, abbandonate.
Fino a quando, casualmente vagando sono

entrata nella stanza sbagliata del MoMa, ho girato intorno
ad un quadrato bianco e storto su uno sfondo bianco

e c’erano anche le mie capre di montagna sulla neve
anche Kazimir Malevich le ha viste,

come il bianco brama il bianco, come ciò che è storto
desideri avidamente un ambiente congeniale

dove perdersi per poi, nel nulla, scomparire.
Quegli stordenti ermellini in quell’anno senza neve

erano luci al neon su raffazzonati tappeti di foglie d’oro,
esaltanti da vedere, ma prede ideali

anche per il più guercio dei predatori.
Meglio attaccarsi ad un limpido e bianco suono

seppur irrilevante, impercepibile.
Una persona si deve accontentare di ciò che ha.

Un quadrato bianco su uno sfondo bianco, storto.
Cinque capre di montagna sull’ultimo angolo innevato.

Jaqueline Osherow  

*

 

How was poetry born in you? What are your literary influences?

I suspect that poetry is born of poetry, that I wanted to write poems because I couldn’t remember a time when I hadn’t been at least a little under their spell. I can still hear Mother Goose nursery rhymes in my mother’s voice, with their charming singsong and extremely curious subject matter. An old woman lived in a shoe? Four-and twenty blackbirds were baked in a pie? A dish ran away with a spoon? Even at three years old, I knew such things were impossible, but my imagination was nonetheless captured; I kept hoping my own place setting would surprise me. And then there was Robert Louis Stevenson’s “A Child’s Garden of Verses.” How I pitied the poor little boy who, “in summer” had “to go to bed by day,”until, in Scotland in June in my early twenties, I discovered that it didn’t get dark until nearly eleven o’clock.   But probably most crucial were the psalms I heard in synagogue both in Hebrew and English; though I doubted that I myself would ever achieve “clean hands and a pure heart” it certainly sounded like a mode of being to strive for . . . .

The poetry of the Bible is surely my greatest influence; I chant it weekly in synagogue. (Few people in my adopted Utah know how to do the traditional chanting.) But of course, I fell in love with all kinds of poetry in English. At around eleven or twelve, searching for women’s names in the fat Great English Poems anthology my father had given my mother when they were courting, l found – to my lasting good fortune — Emily Dickinson, whom I still regard as America’s greatest poet. Learning Spanish, I fell in love with Lorca. In college, Yeats and Keats. . . . I was wild about my teacher, Robert Lowell’s “imitation” of Montale’s “Notizie dall’ Amiata,” but liked it a good deal less once I’d learned Italian . Italian then brought me to Leopardi (utterly untranslatable) Petrarca (even Chaucer requires 21 lines to translate his 14 ) and (there are no adequate adjectives) Dante, whom I was astounded to hear recited (watching with my neighbor, a seamstress, on the small television perched on the refrigerator in her kitchen, recited by Vittorio Gassman on Rai Uno. I’ve come to adore Byron for his honesty, humor and sheer bravado . . and Frank O’hara for (as he describes it)” go(ing) on” his “nerve.” At some point I was introduced to the 20th century Russians – Akhmatova and Mandelstam are perhaps my very favorites — the Polish Zbigniew Herbert, the Turkish Nazim Hikmet. There’s a special place in my heart for poems in languages I don’t speak: you get to imagine some inaccessible but perfect Platonic ideal of a poem. . .

I read an article in which you are very strict about the role of poetry in the US. I quote: ‘Not only doesn’t America have time for poetry, it doesn’t have any interest in it, nor does it place any value on it. Being immaterial and impractical, poetry is, by definition, antithetical to the American main chance’. Explain me better: what is the value of poetry in modern American society?

I think I was perhaps too limited in my definition of poetry when I wrote that.  Perhaps I was still remembering Italy, where a huge audience would watch an actor read nearly seven-hundred-year-old poetry on television and all of my friends – none of them writers or teachers of literature teachers – could recite reams of poetry.  No one recites traditional poetry on American television and few people can call up a line from a single traditional poem. On the other hand, look at hiphop music. America clearly craves poetry. I’m crazy about a recent lyric I heard in a dance class at the gym; it turns out to be by Chance the Rapper)

Is you is or is you ain’t got gas money?
No IOU’S or debit cards. I need cash money . . .

It gets me every time. There are all kinds of ingenious rhymes and lyrics in rap music.

America produces two kinds of poetry: popular poetry and poetry that takes a long time to get to readers. The 19th century exemplifies this. Our two greatest poets were polar opposites – Whitman whose books went into many, many printings and Dickinson who published almost nothing in her lifetime. Much as I admire Whitman, I greatly prefer Dickinson. So I guess I’m doomed to be very little read.

In Italy, the popular imagination was founded by fiction and American cinema. In what relationship are you with the writers of American novels? And what relationship do you have with Italian culture?

Right now, judging from what everyone says, our greatest cultural achievement is long-form television. People are wild about it. They say it’s innovative and brilliant. Me? I haven’t seen it, just don’t like sitting in the house and watching television. I love, however, to go to the movies and there are still some great American movies being made, though the classics of the thirties and forties (think Cary Grant, Katharine Hepburn, Clark Gable, Jean Arthur, Jimmy Stewart) are probably the closest to my heart.

I’m always reading novels; Philip Roth is the living American novelist I admire most – I remember laughing out loud at Portnoy’s Complaint under a streetlamp in the rain, having missed a bus that only comes once an hour. Willa Cather’s The Song of the Lark – about an unlikely American woman’s becoming an artist – is not surprisingly also a great favorite. Italian culture was crucial to me at a crucial time; I first went to Italy on winter break, 1978 from Trinity College, Cambridge, where I had a post-graduate scholarship. I always say that, in this way, I personally got to experience the move from the middle ages to the Renaissance. I was supposed to go on to Rome but never made it. I simply couldn’t leave Florence. The great art of the Italian Renaissance was a revelation to me. I went back for spring break. Then, a few years later, I got some money to move out of a rent-stabilized New York apartment whose new owners wanted to tear it down and build a skyscraper. I took the money and moved to Florence. The Italian culture I embraced was several hundred years out of date – but embrace it I did. I still return as often as I can and continue to regard what I find there as the the best material evidence that human beings can achieve wondrous things. And yet, Florence still felt the need to cover its streets with poetry, to put Dante’s words on every spot he wrote about. Imagine needing poetry when you have such great art! Florence gave me the courage try to become a poet. Italy is everywhere in my poems, from my first book, in which I compare my pregnant belly to the Florence cupolone to my last book in which I wonder how it felt to be a monk i living in a cell frescoed by Fra Angelico . . .  As far as contemporary Italian culture goes, I, like every woman in America who reads at all (including my mother, sisters and daughters) inhaled Elena Ferrante’s Naples trilogy and then the final, fourth novel as soon as it was translated into English. I also love Italian movies, especially the Taviani brothers’ Padre Padrone and La Notte di San Lorenzo. I was very sad to learn of Vittorio Taviani’s recent passing.

Do you think poetry has an ‘ethical’ task? In the Trump era, what value can poetry have?

Oh – this is such a complicated question. I must say I don’t read much Ezra Pound, genius though he was, because of his fascism. When I admired a poem by Gottfried Benn, looked him up and found a description of Benn as the greatest poet who who had been a Nazi” I decided I would go no further. So I must admit that, at least for those who lived close to my own time, I find it hard to engage with art by people whose ethics are despicable. I’ve never read a word by Norman Mailer, because I saw him behave disgustingly to Kate Millet (a feminist writer) on a television talk show when I was in my early teens. My thirteen-year-old self simply asked why on earth I would want to read a word written by such a person. And my sixty-one-year-old self has yet to change her mind.

But that is not the same as saying that the poems themselves must be ethical. I do adore Isaiah, who pairs exquisite imagery and poetics with direct ethical prescriptions (take 1: 17-18: Learn to do well; seek judgment, relieve the oppressed, judge the fatherless, plead for the widow. Come now, and let us reason together saith the Lord: though your sins be as scarlet, they shall be as white as snow; though they be red like crimson, they shall be as wool.”)   Still, the great distinction of poetry is its ability to make opposite statements simultaneously; strictly speaking, this would get in the way of ethics . . . . And I always think, with art, that whatever rule you make, you can always find some genius who will brilliantly break it. I’d avoid proscriptions for poetry . . That said, the poems I’m writing now directly address politics. The current situation of the United States is so dire and shocking that it’s impossible to ignore, even in poems. My model is Anna Akhmatova. She wrote brilliant personal poems in her early life, but when she lived in times that required immediate attention, she rose to the occasion. Take her “Instead of a Preface” to her masterpiece, Requiem. In a long line of people waiting, for hours, in the cold, outside the Lubyanka Prison in the 1930’s for news of their partners, parents, children and siblings, she’ asked   “’Can you describe this?’/And I said, ‘I can.’”

Do you think poetry can be taught? You have won many poetry prizes: what value do you give to the prizes?

I am currently director of the University of Utah’s Creative Writing Program and have taught creative writing, as well as literature, for almost thirty years.  So if I didn’t think at least something of poetry could be taught, I would be a very fraudulent person.  Much as I recognize that a degree in poetry is hardly necessary to becoming a poet -An elderly Polish friend , upon hearing what I did for a living, said, “I don’t think Goethe and Schiller went to university to learn how to become poets” – I believe we can do a great deal for our students. We can introduce them to the widest possible range of the great poetry that already exists; we can push them to make their work better and better; we can help them to see what is working for them and what is not; we can teach them to distinguish gimmicks and tricks from truly inspired moments, to listen, to pay attention, to make every poem as good as it can be. We can certainly teach technique and and the uses of form. I’ve said elsewhere that a genius can break any rule brilliantly; still, some general principles are extremely useful a fairly high percentage of the time.   I think we can help students get where they are going faster. It is a great responsibility. I am terrified that I may unwittingly discourage a student from continuing on with a great idea that hasn’t quite appeared yet on the page. I’m also worried about teaching students to solve their poems’ problems merely as I would solve them. I’m not at all sure that the world needs one of me, but I’m absolutely positive it doesn’t need two.

As for prizes, well, writing poetry is a very solitary business; as I’ve already said, poets like me are very little read in America. So of course a prize is most welcome simply as evidence that someone has read and even valued this flimsy item to which I’ve have given everything I have. But I think it is most unlikely that the person writing what will ultimately be regarded as the best poetry of our time is the person winning the prizes. We simply can’t accurately evaluate the arts of our own moment. We’re too likely to confuse our own personal investment, the relevance of the details to our own lives, with greatness. It’s only after the specific particulars cease to matter that one can tell whether a work is great or not. With notable exceptions (Yeats, Eliot, Montale, Neruda) the greatest poets of the twentieth century did not win Nobel Prizes. Think of Rilke, Mandelstam, Akhmatova, Tsvetayeva, Lorca, Hikmet, Auden, Celan. Not one was awarded a Nobel Prize.

What literary work are you working on now?
I have just handed in the copy-edited manuscript of my new book, My Lookalike at the Krishna Temple, which is due out in the spring. I’m currently working on a series of long poems about Berlin, where I spent three months on sabbatical last year. Having written many poems dealing with the holocaust (my children are third-generation survivors), I felt that it was time to deal with Germany itself – where I had previously spent a total of three extremely uncomfortable days. The first of these poems,, Ideal Cities, uses the three paintings commissioned by Federico de Montefeltro (one hangs in Urbino, one in Baltimore, one in Berlin) to get at present-day Berlin, as well as the United States, in comparison with the ideal Renaissance City (which Urbino still seems – at least physically – to be); the second looks at the Ishtar gate in the Pergamon Museum through the lens of Psalm 137 (“By the rivers of Babylon”) and moves through time, exile and oppression to get to the present-day refugee crisis; a third deals with the guilty memories of an older woman who was a child and adolescent during the war. My second project is a series of short lyric poems (villanelles) attempting to get at the pervasiveness of the poetic image in China, where I spent a month of my sabbatical, visiting my daughter who teaches there. It’s temporarily entitled “Putting a Question to the Spring,” after the “Putting a Question to the Spring” Pavilion in an ancient garden in Suzhou.

 

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