19 Aprile 2019

“Ingenuo, a tratti piagnucoloso, geniale, ha scritto un libro affascinante come un’auto schiantata”: Kurt Cobain secondo Jim Carroll

Nel 1994 Jim Carroll scrive “8 Fragments for Kurt Cobain”, una ballata poetica, istoriata sul suicidio del frontman dei Nirvana. “Genio non è cosa generosa o generica”, attacca il grande Jim, che in Kurt vedeva l’altro se stesso, l’ennesimo angelo malato, maledetto da un talento troppo grande, dilaniato dalla droga e dalla fama. Il primo dicembre del 2002, Jim Carroll firma per il “Los Angeles Times Book Review” una recensione ai diari (“Journals”) di Cobain. Il titolo del pezzo, che proponiamo nella traduzione di Andrea Bianchi, è “The Man Who Sold the World”.

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Anche se c’è sagacia e sale in frasi lunatiche come “se leggi, giudicherai”, chissà se l’uomo che state per conoscere nelle pagine dei diari di Kurt Cobain sarà, quando arrivate alla fine, ancora contento di aver pubblicato questo volume. Affascinante come un’auto schiantata: per quel che mi riguarda desidero che solo la musica sopravviva alla sua morte. In quanto leader dei Nirvana, Cobain ha dimostrato di essere tra i musicisti più innovativi nella storia del rock. Certamente ha energizzato di nuovo il genere quando stava rimescolandosi nel frangente heavy-metal degli anni Ottanta, quello dei capelli tinti, per capirci. Più di altre cose, la sua rabbia, la sua foga… era lui, genuino. Questi suoi diari lo tirano tutto fuori. Sono incazzati, tristi, lamentosi, ingenui e spezzano il cuore e sono sempre genuini.

E la cosa non basta. In queste lettere senza data, poesie, testi di canzoni in varie bozze, mentre impreca contro i media, negli scenari per i suoi video, con odio senza necessità per la politica, e con furore sociale, cartoons, disegni schematici di chitarre e diversi elenchi (ancora e ancora ripete la lista del suo album favorito, alla nausea), non si mostra mai senza coerenza di scrittura, e solo a tratti tanto che solo il fan più devoto vorrebbe percorrere questi materiali, con tutta la loro densità pericolosa. Nelle sue scritture la stessa passione e rabbia delle canzoni, solo senza musica, e non trovi qualità emotive, il “registro interiore” di Henry Miller – a dare ai pezzi un loro flusso, una loro cresta di intensità.

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Quando scrive lettere ad amici, di solito musicisti e compagni, è dolce, entusiasta e generoso quando elogia i lavori degli altri. In una lettera licenzia il primo batterista dei Nirvana – Dave Foster – e si mantiene su uno stile commerciale e quasi apologetico. Quando scrive di sé, di solito è difensivo o capzioso – oppure si fustiga. “Devo imparare daccapo la lingua inglese. Pare che io sia insincero perché ci metto troppo a prendere decisioni. Questo modo di scrivere lettere è solo feccia perché manco di personalità. Sono ossessionato dal fatto di essere uno stupido pelle-e-ossa”. L’ultima riga è tema costante quando parla di sé. Fin da piccolo scriveva le stesse cose sulla magrezza, diceva che il suo corpo poteva stare in una gamba dei pantaloni… Libro incredibile, questo, che contiene selezioni da 20 taccuini lasciati in una piccola cripta sin dal suo suicidio nel 1994. Cobain nelle pagine non chiarisce il suo processo creativo, questo non lo fa. Vediamo solo le canzoni sulla pagina; niente spiegazioni. Certo nella tradizione rock da Bob Dylan fino a qui, spiegare un testo è lo stesso che spezzare il cuore duro del diamante – non abbiamo una visione nitida della mente di Cobain che arriva fino a quelle precise parole che sceglie – un aneddoto descrive sotto quali condizioni scriveva o quel che lo portava di forza a trovare le parole: “Le mie canzoni sono una montagna di contraddizioni. Sono divise tra opinioni sincerissime e sentimenti che tengo io solo e poi è tutto sarcasmo e spero – obiezioni umoristiche tendenti al cliché – ideali da bohéme che sono esauriti da anni. Dico. Mi piace essere sincero e passionale ma devo anche divertirmi e agire come un inetto, come un cazzone”.

Questo è quanto quando si arriva allo sguardo interiore nelle canzoni. E ancora, è carino vederle stampate, rovesciate al di fuori a partire dalle bozze – sciatte e con pochissimi cambi di varianti, una cosa sorprendente. Probabile che siano state riscritte a partire da frasi che prima erano state annotate su fazzoletti e carte per avvolgere. Non danno quel sentimento di prima bozza. Più avanti nel libro, i fan dei Nirvana rabbrividiranno quando leggeranno: “Nei mesi tra ottobre 1991 e dicembre ’92 ho riempito quattro taccuini con due anni all’altezza della poesia, con scritture personali e testi di canzoni che tempi diversi mi hanno rubato da dentro. Due cassette da 90 minuti, tutte a chitarra nuova e pezzi vocali per canzoni nuove – danneggiate in un incidente idraulico, e lo stesso vale per due delle chitarre, le più care, le favorite. Non sono mai stato un tipo prolifico così che quando monta su la creatività, monta su: end of it. Mi ritrovo a scarabocchiare su piccolissimi taccuini di infima carta e questo comporta che una parte molto esigua del mio scrivere si mostri nella sua vera forma. Colpa mia ma la cosa più criminale-irrispettosa-indesiderata che abbia provato in questi anni non sono le esagerazioni dei media su gossip dolorosi, ma semmai lo stupro dei miei pensieri personali squarciati fuori dalle pagine che compongo quando sto in ospedale o durante i trasferimenti aerei o le permanenze alberghiere e via così… Mi avete stuprato più violentemente di quanto potrete mai pensare”.

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Quando parla della sua ricaduta nell’uso quotidiano di eroina una volta tornato dal suo secondo tour in Europa insieme a Sonic Youth, si difende così: “Ho deciso di usare l’eroina [termine generico quando parla di droga] su base giornaliera a causa di una malattia allo stomaco che continua a protrarsi, ne ho sofferto negli ultimi cinque anni e mi ha portato – letteralmente – al punto che volevo farla finita… Ogni volta che mando giù un boccone di cibo provo qualcosa che mi tortura, mi brucia, è doloroso, nauseante, qui nella parte alta del mio stomaco più interiore”. Poi continua a descrivere le trafile gastrointestinali patite dall’inizio di questo disordine, i 15 dottori che ha consultato e i 50 tipi di farmaci tentati contro l’ulcera . “Unica cosa che funzioni, l’oppio pesante”, scrive.

Questa malattia allo stomaco che descrive in un altro diario con sintomi meno drammatici rimase incurata, fino al suicidio. In questo periodo di uso quotidiano, continua a dire, mentre gira per tour in ogni paese non ne salta nessuno (sembra perfino impossibile), e in fondo avrebbe incominciato a uscire dall’intossicamento per poi affrontare la malattia di stomaco. A un certo punto, pesava meno di 50 chili e non riusciva a mangiare, scoprì una droga sperimentale che alleviava il dolore per nove mesi senza avere effetti oppiacei. E presto, in ogni caso, ricadde nel desiderio di abbreviare il bruciore nella sua mente e nel suo stomaco e tornò all’eroina.

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Dubito che leggesse molti libri. Era tristemente di poche parole, dolorosamente timido e tutto ripugnanza per se stesso. Cobain disprezzava gli hippies per aver fallito nella loro originaria missione rivoluzionaria. Questo è stato il lamento di molte generazioni anteriori, ma è un poco scioccante quando comprendi che un uomo capace di tanto genio musicale potesse essere così ingenuo e a tratti piagnucoloso. Anche qui, comunque, la sua sincerità sbuca fuori all’improvviso. Non ci interessa se e quanto fosse giovanilistico, querulo o brillante a vuoto – impossibile trovare una lacuna, uno iato tra i testi e l’uomo con la penna in mano.

Una delle pagine più eloquenti arriva verso la fine del libro, benché sembra esser stata scritta molto prima: “Buona, ho suonato il tamburo rullante nella band della scuola, durante questo periodo non reggevo quello stare a imparare come si deve, quel leggere la musica a spartito, aspettavo solo che arrivasse l’eccentrico in prima fila per apprendere ogni singola canzone, poi semplicemente lo copiavo. Riuscivo a far bene senza dover mai leggere a spartito. Mi ha preso 5 anni, poi ho intuito come fossi ritardato a livello ritmico con quel tamburo e come batterista, quindi ho preso dei fucili di mio padre e li ho venduti, ho usato i soldi per prendere in prestito la mia prima chitarra elettrica a sei corde. Ho imparato ogni cosa che mi serviva in una settimana di lezioni che poi è stata in fin dei conti la celebre conoscenza musicale di loiue, le corde di louie E A B”.

L’ironia del giovane Kurt che vende i fucili del padre per prendersi i soldi della prima chitarra è cosa ovvia, non ci tocca davvero. Di fatto, il lettore troverà un bel numero di passaggi in questo libro che sono o ironici o premonitori della sua morte. Questo poi è strano perché lo stesso Cobain, almeno stando agli scritti che abbiamo visto, aveva pochissima ironia e ancor meno humour. Quest’ultimo è quasi inesistente nel libro e potrebbe essere la cosa più triste lì dentro, lì dentro lo stesso Kurt. Se Cobain fosse riuscito a filtrare tutti questi materiali pesanti, giustificati o solo immaginari, con una sorta di humour, forse avrebbe potuto evitare l’ultimo scambio: le sue chitarre per una fucilata.

Jim Carroll

Gruppo MAGOG