“Ti scrivo per dirti che la poesia è viva e sorgiva”. Una lettera a Boris Pasternak
Poesia
Giorgio Anelli
Ho conosciuto Stefano Simoncelli nel maggio del 2012 a Lugo alla mostra di Daniele Ferroni I volti e le parole, leggeva lì alcune poesie da Terza copia del gelo che era uscito fresco di stampa in quei giorni. I suoi versi mi hanno attraversato e sono rimasti impigliati dentro di me. C’erano dei suoni, delle parole, delle immagini che non se ne sono più andati, che mi ritornavo in mente come un mantra anche nei giorni successivi a questo incontro. In quel preciso momento ho capito di aver sfiorato un poeta vero, una voce che non si può più scordare e che riconosceresti anche tra anni. Lo scriveva Sereni, che Stefano ha conosciuto bene, che “non c’è alcun verso che basti se domani tu stesso te ne scordi”. In questi versi di Vittorio Sereni per me sacri ho riconosciuto Stefano Simoncelli, qualcuno i cui versi non si possono scordare.
Questo accade perché i testi di Simoncelli possiedono limpidezza formale, pulizia e una apparente semplicità che non è in alcun modo semplicismo. La poesia di Stefano è un dialogo costante tra sé stesso e le presenze che hanno abitato la sua vita o che ancora la abitano, i cari amici e parenti scomparsi, i personaggi particolari e appunto introvabili del suo Hotel degli introvabili. È una poesia fortemente comunicativa e orizzontale nell’accezione di trasversale: è in grado di arrivare a tutti a prescindere da età e vissuto personale. Assume quel valore universale che la poesia dovrebbe sempre avere, rendersi quindi comprensibile senza essere banale, vera fino alla ferita e alla commozione più completa. Per Stefano la poesia è una cosa sacra e come tutte le cose sacre queste fanno parte della tua vita ma non le possiedi, non le puoi trattenere. Ti visitano, come ti visitano in sogno i morti, arrivano solo quando è veramente necessario. È una torcia pronta a esplodere di luce e che viene accesa da qualcosa che non appartiene all’uomo, che va custodita e curata. La cura delle parole infatti sarà poi il lavoro principale per ottenere quella freschezza, quella semplicità del dire e quella spontaneità che è propria della poesia di Stefano Simoncelli.
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La questione principale è dire il vero, non mentire mai a sé stessi. Stefano lo fa: parla dei suoi morti, della sua vita, delle cose che ha vissuto sulla sua pelle come il ricovero in ospedale. C’è un unico filo verticale tesissimo che è la straordinaria coerenza tra persona, uomo e poesia; questo è un valore fondamentale quanto raro che pregiudica la buona riuscita del testo. Simoncelli nella sua voce poetica è coerente con la sua persona, è un essere umano diretto e vero fino alla sfrontatezza e alla commozione insieme. Stefano parla a noi come se stesse parlando a sé stesso, con la stessa innocenza e la stessa durezza, ma anche con la stessa profonda pietà.
Leggendo i libri di Stefano pubblicati rigorosamente dalla PeQuod, sua fedele casa editrice dal 2004, anno in cui dopo un lungo silenzio di quasi quindici anni ha ripreso a scrivere, a oggi sembra a una prima lettura che tutto questo lavoro poetico sia un unico grande dialogo interrotto e continuato a più riprese solo dalla necessità pratica di spezzare in volumi questo racconto. Lo dice Simoncelli stesso che alla fine si scrive sempre la stessa poesia perché il nucleo che abbiamo dentro può essere contaminato ma ha una parte perfettissima e centrale che appartiene a noi e solo a noi. Quella parte è la voce del poeta, quella che ha permesso a me di riconoscerlo come tale, una voce unica e irriproducibile. L’evoluzione c’è ed è quasi impercettibile; Stefano ad esempio lentamente si abbandona a una prosa poetica calibratissima, lasciando a volte indietro quella verticalità che gli appartiene per una necessità di narrazione più forte, poiché per certi racconti il verso non basta e c’è l’urgenza di continuare sulla stessa riga mantenendo anche qui intatta la voce, tenendo sempre quel ritmo preciso che è alla base della sua poetica. La sua poesia ha la caratteristica di ospitare come in una casa altre presenze, altri uomini e donne, è una poesia abitata che vive di interni domestici o limitrofi della casa, di flussi di presenze vive o morte. Una poesia che si interroga incessantemente sulla propria esperienza individuale senza prendere però alcuna deriva egoica, così comune invece alla poesia contemporanea, e ringraziando chi si è avvicinato ed è stato anche solo per poco nella sua vita.
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Venendo all’ultimo libro Residence Cielo la poesia di Stefano fa un grosso salto, si libera completamente da ogni possibile ancora che la tratteneva dalle correnti. L’urgenza del dire è molto più importante della paura, del timore di ripetersi. Il bisogno di lasciare le poesie come figli è fortissimo e diventa bisogno necessario, consegnarli quindi al mondo e lasciarli finalmente liberi. Ma non c’è mai un grande salto poetico senza un salto umano a mio avviso e infatti questo libro arriva con irruenza nei mesi a seguire di un lungo e faticoso ricovero in ospedale, di una convalescenza trascinata e imposta. Per un uomo energico come Stefano l’immobilità della parola, la sua incapacità temporanea di pronunciarla, di compiere semplici gesti quotidiani, la forzatura di una degenza sono frenate improvvise dell’esistenza, è qualcosa che crea un blocco e poi si libera come la piena straripante dei fiumi dopo un lungo e ininterrotto temporale e rompe tutti gli argini. Ecco che da questa esperienza potenzialmente tragica esce l’impeto della comunicazione, di una poesia che assume il valore assoluto di testimonianza umana di vita vera, vissuta, mai negata e mai nascosta. Una testimonianza umana che diviene poetica perché per i poeti, per chi ha quella torcia interiore sempre pronta ad accendersi, il verso è l’unica forma onesta e possibile di comunicazione. Una poesia questa ultima che è ringraziamento: essere ancora qui a colmare un debito aperto con la vita.
Clery Celeste
*In copertina: Stefano Simoncelli; photo Sandra e Urbano Fotografi