Lì dove i morti sono tenuti in gran conto, anche per i vivi c’è speranza (Imre Kertész)
Nelle vie, nelle case, nei palazzi di Firenze ho incontrato un sogno, o meglio, ko incontrato il mio sogno di un mondo adeguato all’uomo (Ágnes Heller)
Budapest, dicembre 2019. Una mattina calda e luminosa, nel rigido inverno ungherese, l’ideale per una passeggiata sulla riva del Danubio. Sul lato di Pest procede la teoria dei palazzi aristocratici, dei lampioni eleganti, delle panchine accoglienti, delle aiuole curate, mentre il fiume scorre placido e solenne, e i ponti sono sospesi nell’aria azzurra, a disegnare un paesaggio incantato. Ogni giorno nella imponente piazza del Parlamento si celebra il rito del cambio di guardia e delle foto dei turisti davanti alle statue degli eroi d’Ungheria, davanti alla bellezza dei luoghi. Belli nonostante i loro mostri, di cui accanto al Parlamento, nel tratto compreso tra il ponte delle Catene e il ponte Margherita, sul bordo della banchina del fiume, vi è testimonianza, con un singolare monumento dell’Olocausto: scarpe in bronzo dell’epoca, femminili e maschili, “usate”, disposte a caso, come appena lasciate dai piedi che le calzavano, un’installazione realizzata dal regista Can Togay con lo scultore Gyula Pauer, per ricordare l’eccidio degli ebrei rastrellati nella notte dell’8 gennaio 1945 dalle Croci Frecciate (il partito filonazista e antisemita che sotto Ferenc Szálasi governò l’Ungheria dall’ottobre 1944 al gennaio 1945), uccisi dopo aver dovuto togliere le scarpe (erano utili ai vivi e non certo ai morti), legati a tre per volta e gettati nel Danubio. Poco più in là una lastra, anch’essa bronzea, infissa a terra, e datata 16 aprile 2005, richiama il 60º anniversario della Shoah nel Giorno ungherese della Memoria e ricorda il 16 aprile 1944, quando incominciava la ghettizzazione degli ebrei ungheresi, con la costruzione, in maggio, del ghetto (uno dei più ampi tra i ghetti nazisti, e uno tra quelli costruiti più tardi, di cui oggi rimane un muro nel vivacissimo e centrale quartiere ebraico di Budapest, dominato dalla splendida Sinagoga Grande). Davanti a quel memoriale, i turisti, ma non solo, si fermano a deporre fiori, lumini e ciottoli, a scattare foto e a mettersi in posa per gli immancabili selfie.
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Il ricordo dell’orrore è più accettabile in una giornata di sole, resa gioiosa dall’atmosfera natalizia. Eppure, era appena passato il Natale quando il fiume, che dovette sembrare spettrale, ingoiava i cadaveri di quei cittadini ebrei, mentre le urla di vittime e carnefici arrivavano agli abitanti delle “case protette” che si affacciavano sul fiume e in cui l’italiano Giorgio Perlasca, nell’inverno tra il 1944 e il 1945, faceva rifugiare quanti più ebrei riusciva a salvare. Il comasco Perlasca, fingendosi, per una serie di vicende, console spagnolo (in realtà si trovava a Budapest per motivi di lavoro ma aveva militato nel Corpo Truppe Volontarie durante la guerra civile spagnola, a fianco dei nazionalisti di Franco e parlava perfettamente lo spagnolo), riusciva a ottenere “lettere di protezione” (protezione diplomatica, nel caso di Perlasca, garantita dal governo spagnolo, cui si aggiungeva quella dei governi svedese e svizzero), recandosi audacemente a Buda, nel quartiere della Fortezza, dove si trovavano i ministeri in cui andava a stringere rapporti con le alte cariche ungheresi dell’epoca. Cinquemila ebrei vennero così salvati (tra essi anche Giorgio Pressburger, lo scrittore ungherese naturalizzato italiano), ammassati in edifici ancora oggi rintracciabili grazie ai numeri civici, in strade il cui nome di allora è cambiato, mentre è ancora lì lo storico hotel Astoria, tra i viali Károly e Kossuth Lajos (lo stesso in cui si acquartierò il comando della Wehrmacht) che all’epoca ospitava al sesto piano gli uffici della Saib, la ditta per cui Perlasca lavorava (commerciava carni dall’Est Europa in Italia). E a Budapest, Perlasca è ancora ricordato dai monumenti che gli sono dedicati: un busto davanti all’Istituto Italiano di Cultura, nella centralissima via Bródy Sandor, la stessa che fu teatro, il 23 ottobre 1956, di uno dei focolai della rivoluzione, e un monumento nel cortile della Sinagoga Grande che lo ricorda tra i Giusti delle Nazioni.
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In quel terribile anno 1944, il quindicenne liceale Imre Kertész, che sarebbe diventato Premio Nobel per la Letteratura 2002, figlio di genitori divorziati, della media borghesia ungherese, si recava, con altri sedici compagni della sua età, a Csepel, nel distretto XXI di Budapest, per lavorare presso la raffineria di petrolio Shell. Già da alcuni anni le restrizioni discriminatorie del regime Horthy avevano ridotto gli ebrei budapestini ad una condizione di inferiorità (la stella gialla, le classi ebraiche, il divieto di possedere la radio, la perdita del lavoro, l’obbligo di coabitare insieme ad altre famiglie), ma proprio il reggente Horty aveva, fino a quel momento, impedito le deportazioni dei cittadini di Budapest, purché non superassero i confini della città. E così, fu proprio quella sorta di rilassamento psicologico, di sentirsi comunque ebrei” privilegiati”, cittadini della nobile Budapest al contrario di quelli della provincia, a far credere alla gente (che peraltro in gran parte, compreso Kertész, non aveva mai sentito il nome di Auschwitz) di sopportare e continuare a vivere senza pensare di poter finire su un treno merci e da lì in un campo di sterminio. Fino a quando, nel marzo del 1944, i tedeschi occuparono l’Ungheria e a Budapest arrivò un ufficiale di alto rango delle SS di nome Adolf Eichmann, accolto con onore persino dal Consiglio ebraico. Perciò, un giorno all’alba la gendarmeria, il cui ambito non si estendeva a Budapest (dove invece agiva la cosiddetta “polizia azzurra”), accerchiò la città e ne mise sotto controllo i confini amministrativi; quel giorno la polizia, di cui si avvalse la gendarmeria, arrestò tutti gli individui che portavano una stella gialla che oltrepassavano i confini di Budapest, che fossero eccezionalmente autorizzati a farlo oppure no. Fu così che Imre venne catturato insieme ai compagni – tutti ragazzini tra i quattordici e i quindici anni – e deportato ad Auschwitz. Vi sopravvisse, fu liberato a Buchenwald, e dopo tredici anni dal suo ritorno a Budapest, fu pronto per scrivere “Essere senza destino”, «con l’intenzione di portare a termine la catastrofe di Auschwitz».
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Il protagonista, Köves György, è un adolescente che, come Kertész stesso, aveva dovuto diventare, durante le lunghe vacanze estive, per disposizione delle autorità competenti, apprendista manovale presso la raffineria petrolifera Shell, e che, catturato, finiva ad Auschwitz. “Essere senza destino” (da cui è stato tratto nel 2005 un film per la regia dell’ungherese Lajos Koltai, la sceneggiatura di Kertész, le musiche di Ennio Morricone e Daniel Craig nel ruolo del soldato americano) viene raccontato dal punto di vista di György, detto Gyurka, uno sguardo bambino, che registra tutto con un racconto straniato, con la «voce furtiva, in un certo senso vergognosa della sua stessa insensatezza, la voce di un desiderio sommerso quanto ardente: poter vivere ancora un pochino in quel bel campo di concentramento», perché – scrive Kertész –, «nelle dittature ogni uomo è trattato come un bambino e tenuto in uno stato di ignoranza e bisogno». Perciò il Gyurka del romanzo racconta l’“inavvicinabile” come un succedersi di momenti “ordinari” della “quotidianità” verso la morte, momenti in cui «persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità». “Naturale”, che in un campo di sterminio ci fosse almeno un forno crematorio, “naturale” che, una volta liberato da Buchenwald, sporco e sgradevole com’era, salisse su un autobus per “tornare a casa” e venisse fermato per non avere il biglietto, mentre provocava fastidio all’anziana signora che sdegnata si voltava dall’altra parte a guardare fuori dal finestrino, “naturale” che anche gli altri che non erano stati in un campo di sterminio, si lamentassero perché anche loro avevano cercato di sopravvivere.
E “naturale” che «con un simile peso non si potesse cominciare una vita nuova» (così dice Gyurka nelle pagine finali di “Essere senza destino”). Eppure, la vita doveva ricominciare, come apparve chiaro a Imre nell’attimo in cui dalla stazione ferroviaria Nyugati uscì, “libero”, nella piazza omonima, tranquilla nella luce del tramonto (che un tempo si chiamava piazza Berlino e più tardi piazza Marx, oggi Nyugati).
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Tornato in Ungheria, Imre, come racconta in Dossier K., piombò nel mezzo di una società “singolare” nel cui ambito dovette fare in fretta le sue scelte, a rivedere la sua identità (cosa che uno scrittore, e per di più ungherese, fa continuamente, perdendola dopo averla rintracciata). Insomma, tra persone morte (il padre, i compagni, i nonni materni, anche loro finiti ad Auschwitz) e vuoti enormi (senza più casa, inesistente quella paterna di via Baross, momentanea quella della madre, risposatasi), s’iscrisse al partito comunista. Una cosa “naturale”, non certo per redimere il mondo. Per diventare cosa? Un ingegnere, un medico, o altro, come desiderava la madre (donna di fascino e dalla grande personalità, che quando lui era sparito ad Auschwitz, aveva osato presentarsi alla Gestapo per averne notizie, poi in fuga dalla fabbrica di tegole di Óbuda dove lavorava e dove i carichi erano già in direzione per Auschwitz, quindi rifugiatasi nel ghetto dove si salvò). «Non esiste assurdità che non possa essere vissuta» dice nelle battute finali Gyurka, «il prezzo da pagare è accettare qualunque punto di vista». Così fece Imre e per un po’ di anni, senza alcun progetto di vita davanti, vivendo giorno per giorno, e facendo un po’ di tutto, si appassionava alla lettura e al giornalismo, cominciando anche a scrivere di notte… Ebbe poi la “fortuna”, nell’epoca di Rákosi, di essere “semplicemente” licenziato nel 1951 dal giornale in cui lavorava (allora il licenziamento coincideva con l’arresto e qualche pretesto di conflitto politico), di essere assunto in una fabbrica e quindi di ritornare a fare “l’intellettuale senza impiego”, con collaborazioni giornalistiche sporadiche, in un tempo in cui viveva ancora in «un mondo di fantasmagorie, nell’assurdità più totale, esiliato nella mancanza di serietà», una condizione strana, se non pericolosa («le dittature trasformano gli uomini in infanti, in quanto non permettono loro di compiere le loro scelte esistenziali, privandoli dello splendido peso della responsabilità personale»). Fino a quando un giorno, in una situazione kafkiana, in un corridoio a L in una casaufficio delle Ferrovie di Stato Ungheresi (doveva scrivere un articolo sul motivo per cui i treni facevano ritardo) prese coscienza di sé, della volontà di scrivere. Intanto aveva conosciuto per caso in un bar Albina, quella che sarebbe diventata la sua prima moglie per quarantadue anni, che gli chiese di essere ospitata nella stanza in cui Imre viveva all’epoca, perché uscita dal carcere della Polizia Segreta Sovietica (era stata arrestata nell’epoca Rákosi, per non aver commesso nulla, poi liberata durante il breve governo di Imre Nagy), aveva trovato il suo appartamento occupato e non aveva più dove dormire. Iniziarono la loro vita insieme, in un appartamento in subaffitto, Albina da borghese benestante fu ridotta a fare l’autista (per la “fortuna” di avere la patente) di autocarri per il trasporto di latte e verdure, che scaricava all’alba fermandosi negozio per negozio, ma in seguito per un “miracolo” burocratico, le fu restituito l’appartamento (di 28 metri quadrati) in via Török dove si trasferirono e vissero per quarant’anni. La svolta avvenne quando dopo la lettura di Morte a Venezia di Thomas Mann e poi di Lo straniero di Camus e Il processo di Kafka, Imre capì una volta per tutte che «la letteratura è uno sconvolgimento abissale» e che in quello sconvolgimento, nella sua vita segreta, voleva vivere, anche se ci voleva molto coraggio «per far uscire dalle mani» un libro. E così, nel 1960, tredici anni dopo la liberazione, decise di scrivere Essere senza destino, che ebbe prima vari rifiuti da diversi editori, e rimase inedito fino a quando fu pubblicato nel 1975, ma fu quasi ignorato e sarebbe stato dimenticato nello «scantinato magiaro» se la Germania non lo avesse pubblicato e non ne avesse decretato il successo (in Italia sarà Feltrinelli a pubblicarlo nel 1999).
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Per decenni in Ungheria il nome di Kertész rimase quasi sconosciuto, e per decenni lo scrittore abitò il silenzio. Non “lo fecero fuori” negli anni in cui era assai attiva la Casa del Terrore (quartier generale della polizia politica sia nazista che comunista, dove avvenivano le torture e le esecuzioni, oggi visitatissimo monumento-museo nell’elegante viale Andrássy), perché – ricorda Kertész –, erano distratti. Eppure quegli anni di sistema del terrore kadariano (il “regno” di János Kádár si affermò dopo che Imre Nagy che aveva animato il governo liberale e democratico post rivoluzione 1956 e che aveva aiutato Kádár a uscire di prigione, venne condannato a morte), se come scrittore si correva il rischio di finire nel meccanismo dell’annichilimento, quegli anni furono anni creativi: e se vivere dopo Auschwitz era imbarazzante perché essere sopravvissuti, essere diventati un’eccezione, provocava la nausea (che portò alcuni intellettuali come Amery, Celan, Levi a darsi il suicidio), fu proprio la scrittura che, sublimando l’idea latente del suicidio, divenne «l’unica maniera per restare in rapporto con l’offesa profonda subita». Così scriveva nel romanzo-saggio-diario Lo spettatore, lo stesso spettatore/Kertész che guarda un Secolo infelice (altro suo scritto) che per vivere si dedica alla traduzione (Canetti, Wittgenstein, Freud, Nietzsche), attività simile allo stordimento da alcolismo, a scrivere pièce teatrali, commedie e lavori leggeri apolitici, e quindi alla scrittura “segreta” per sentirsi a casa, lui che si riteneva un esiliato in patria. «Scrivo per sentirmi a casa, affinché almeno per un attimo possa sentirmi di nuovo a casa, pur nella nostra fuga dall’inumanità, dall’alienazione, dall’esilio: una casa che per me significa la vita e la morte».
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E venne il 1989, con la caduta del Muro di Berlino (il regime kadariano era durato fino al 1988), il brutto anatroccolo stava diventando un cigno e dopo qualche anno ebbe la “fortuna” di essere tradotto (come altri ungheresi) in Germania, dove a Berlino diventerà di casa, soprattutto dopo il Nobel, e trascorrerà lunghi periodi insieme alla seconda moglie Magda. «Propriamente – diceva Kertész – non ho ricevuto in nessun luogo tanto affetto quanto me ne ha dato quella Germania dove vollero uccidermi. Berlino divenne la vita, Budapest l’esilio». Prima del Nobel non ebbe mai nessun effetto sulla cosiddetta letteratura ungherese (anche la lingua era esiliata, come recita il titolo di un altro suo scritto), poi, insieme al riscoperto Sándor Márai, proprio l’interesse nato intorno a Kertész ha fatto rivalorizzare autori come: Pèter Esterhàzy, Istvàn Orkeny, Agota Kristof, Magda Szabó. Imre trascorse l’ultimo quindicennio della sua vita tra viaggi e conferenze, sempre insieme a Magda, benché diffidasse delle celebrazioni e si rammaricasse che gli orrori vissuti e i suoi conflitti si risolvessero, suo malgrado, in letteratura, in un fatto estetico. Molti luoghi della memoria, tra i quali l’Holocaust Memorial Center di Budapest, nella via Páva, una vecchia sinagoga trasformata in museo della memoria e centro di ricerca dagli architetti István Mányi e Attila Gáti (una costruzione asimmetrica fortemente simbolica) e inaugurata nel 2005, lo onorarono del loro invito, ma egli cercava di sottrarsi perché riteneva che Auschwitz si era trasformato in un evento musealizzato, globalizzato. Eppure, insieme a Magda si recò con l’Accademia Tedesca di Cracovia ad Auschwitz-Birkenau dove visse in silenzio una situazione grottesca: quando un collega accademico tedesco gli si gettò piangendo tra le braccia, quasi a chiedergli una sorta di assoluzione, Kertész fuggì verso l’uscita vergognandosi profondamente di quell’escursione con la quale gli sembrava di offendere i morti. Ma poi, per il suo carattere dolce e cortese, non rifiutava di raccontare malinconicamente l’avventura della sua vita e ricevere premi (in Italia ricevette il Premio Flajano 2001 e il Premio Grinzane 2009). A Budapest si spense, dopo una malattia, nel 2016, vivendo anche «il disilluso coraggio della vecchiaia», come diceva il suo amico Márai, nella «grandezza della preparazione alla morte».
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Nello stesso inverno tra il 1944 e il 1945, in cui Kertész era in quel “bel campo di concentramento” e il comasco Giorgio Perlasca batteva le strade di Budapest per cercare alloggi di salvezza per i “suoi” ebrei, in quello stesso anno Ágnes Heller (nata nel 1929 come Kertész) la filosofa budapestina, allieva di Lukács, morta nello scorso luglio 2019 mentre nuotava nel suo amato lago Balaton, si trovava nel ghetto di Budapest, dove era entrata a 15 anni, con la famiglia di intellettuali non praticanti (padre ebreo austriaco, uomo di legge, ma anche pianista e cultore della filosofia e dell’arte), dopo essere stata privata della sua casa e delle colte abitudini di borghese benestante. Il padre Pál, un giusto oltre che fine intellettuale, s’impegnò in prima persona a salvare vite di ebrei in fuga, così, mentre Ágnes e la madre Angyalka rimanevano nel ghetto, un giorno non tornò a casa perché caricato su un’auto della Gestapo, e deportato ad Auschwitz, dove fu ucciso nel gennaio del’45. Ágnes ricordava bene la domenica 19 marzo 1944 in cui le truppe tedesche occuparono militarmente l’Ungheria: la mattina si seppe dell’occupazione e il pomeriggio la giovanissima Ágnes aveva prenotato un posto per un concerto di Stravinskij. La madre si arrabbiò, il padre, invece, le disse di andare pure, perché pensava che fin quando si era in vita bisognava sfruttare al massimo il tempo e le occasioni. E Ágnes rimase un’ottimista anche nel ghetto, benché nel ghetto stesso la solidarietà- raccontava- era scarsa, e regnavano ugualmente sia invidia e gelosia, che momenti di forte empatia, e benché i piani di Eichmann fossero di deportare tutti gli ebrei ungheresi nell’arco di tre mesi, ma da Budapest ne venne deportata solo la metà perché intanto l’armata russa aveva bloccato la strada per Auschwitz.
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Quando arrivarono i sovietici fu per Ágnes, come scrive in I miei occhi hanno visto, «la giornata più felice della sua vita: la liberazione dal nazismo». Ma capì presto che liberazione non vuol dire libertà, che è gravosa, fragile, e si accompagna a gravi responsabilità, come sostiene Lévinas. La Repubblica Popolare instaurata in Ungheria, che sarebbe durata con vari rivolgimenti fino alla caduta del muro di Berlino, fu salutata con entusiasmo dai giovani marxisti, allievi, come la Heller, di György Lukács. Lo aveva conosciuto nel 1947 al primo anno di università, quando era iscritta nella facoltà di fisica e di chimica. Un giorno un suo fidanzato di allora la portò a una sua lezione: non aveva nessuna idea della filosofia, ma bastò una lezione per «rimanerne soggiogata ed essere presa in ostaggio dalla sua parola». Si capiva che nelle sue lezioni rimaneva attento a non oltrepassare certe linee dell’insegnamento; era un uomo del partito ed era controllato dal partito al quale la stessa Heller si iscrisse nel 1947, per una sorta di emulazione, e fino al 1949 aveva avuto un ruolo determinante nella politica culturale del partito comunista. Era subito nato un rapporto di grande amicizia tra il filosofo, uno dei massimi pensatori della filosofia moderna, e la giovane Ágnes che dal 1953 al 1956 divenne sua assistente all’università. Ma Ágnes, come il suo maestro, sentiva, tra delazioni e menzogne, tutta l’ambiguità e la falsità del sistema sovietico, mentre apprezzava la lucidità di pensiero del filosofo e la ricerca della verità, che virava verso un marxismo “umanistico”. Quando venne il 1956, e, con la rivoluzione, si respirava aria di riforme, Lukács, sotto il governo di Imre Nagy era divenuto ministro, ma in seguito, con la durissima repressione sovietica, il filosofo fu “ghettizzato” dal partito che lo considerava un eretico (del resto anche il suo realismo nella letteratura con il libro Teoria del romanzo del 1916 e il suo Storia e coscienza di classe del 1923, non furono mai riconosciuti dal partito). Così Lukács venne deportato in Romania, da cui poté tornare a Budapest nel 1957, anche se venne estromesso dal partito che gli impose di non pubblicare in Ungheria (fu poi pubblicato in Germania e anche in Italia, dove nel 1963 uscì il fondamentale Estetica).
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La Scuola di Budapest, che si formò tra il 1956 e il 1960 con un gruppo di amici filosofi fortemente influenzati dalla lezione di Lukács, era un circolo che credeva in un rinascimento del marxismo, una visione “umanistica” di Marx, con un Marx senza -ismo (da allora la Heller considerò ogni -ismo come una sorta di siero urticante), meno legato all’ideologia e più vicino ai bisogni della gente. La Scuola di Budapest, animata tra gli altri da Férénc Fehér, secondo marito della Heller, da György Markus, Mihály Vajda, e dalla stessa Heller, rimaneva marxista, ma si opponeva al sistema. Il Sessantotto fu un anno entusiasmante per la Scuola, un tempo di grandi attese, con la primavera di Praga e il maggio francese, anni di incontri internazionali e di contatti con Marcuse, Habermas, Fromm e Bloch, ma poi tutto precipitò con l’invasione della Cecoslovacchia, e il circolo budapestino fu sempre più isolato anche da parte di altri intellettuali e di persone comuni che – ricorda la Heller – «neanche ci salutavano più». Gli anni Settanta furono terribili, Lukács era morto nel 1971, e qualche mese prima di morire confessava alla Heller e agli amici con i quali si ritrovava per le vacanze estive in campagna in zone lontane dalla città, di essere «un’esistenza fallita»; per il resto, il terrore «era un fantasma che ti seguiva dovunque – diceva la Heller –, al lavoro, per la strada, tra le stesse mura di casa». La Scuola di Budapest era tenuta sotto osservazione e spiata, i filosofi furono giudicati sovversivi, inadatti al lavoro filosofico, antimarxisti, pericolosi per la società. E anche se Ágnes, che da tempo, lavorando alla sua Teoria dei sentimenti aveva rinunciato quasi completamente a Marx, vestiva l’ottimismo come sua abitudine, quando la polizia andò a fare un’ispezione nella sua casa, provò la stessa angoscia di quando la Gestapo aveva gettato tutto all’aria e li aveva portati nel ghetto. Emarginati nella società ungherese, l’unica soluzione era l’espatrio con il marito e il figlio, l’unico modo per vivere e muoversi nella filosofia: dopo vari impedimenti, la filosofa si recò prima in Australia, nel 1977, dove ebbe una docenza universitaria e scrisse tantissimo (anche su Lukács, la Scuola di Budapest e la rivoluzione del ’56), poi nel 1986 a New York, dove visse una vita intellettuale intensa e conobbe grandi pensatori, da Rorty a Cohen, a Butler, a Chomsky. Quando cadde il muro (intanto Kádár era morto nel 1989), la Heller con la famiglia poté tornare a Budapest, dove Ágnes ha vissuto in un luminoso appartamento sul Danubio nei pressi della piazza Boraros; subito dopo esservisi trasferiti, nel 1994, il marito morì, ma Ágnes non avrebbe mai perso la sua voglia di vivere, la gioia di stare a contatto con la natura, di continuare la ricerca di studio, di scrivere (da Marx a Una teoria della storia, da Male radicale a Morale e rivoluzione, da Paradosso Europa all’ultimo suo libro, Il valore del caso. La mia vita, Castelvecchi 2019), di viaggiare (adorava l’Italia e il Rinascimento italiano di cui ha scritto nel corposo saggio L’uomo del Rinascimento. La rivoluzione umanista, si fermò in Toscana, portava in giro la sua lezione sulla democrazia e venne anche a Messina nel 2013), e di incontrare gli altri (l’amicizia era per lei sacra), come dimostra il fatto che, benché novantenne, amava ancora regolarmente nuotare, mentre era in vacanza con amici nella località di Balatonalmádi, sul lago Balaton.
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Non si può vivere la libertà nello stesso luogo in cui si è vissuta la prigionia, dicevano sia Kertész che la Heller, eppure sono tornati a Budapest dove hanno terminato i loro giorni, e oggi riposano, il primo nel cimitero monumentale di Kerepesi, la Heller nel grande cimitero ebraico di Kozma. Si conoscevano (la Heller era presente ai funerali di Kertész, onorati dal governo e da Viktor Orbán), da ragazzi condivisero il sentimento di sentirsi esclusi dal futuro, amavano la Arendt, e osservavano gli avvenimenti del terzo millennio: i nazionalismi che sono la forma effimera dell’odio e della distruzione universali, l’“incanto quotidiano del male”, l’idea che Auschwitz è il grande fallimento dell’Europa intera e che attiene alla natura umana più che a Hitler. Concordavano sul fatto che «Auschwitz è stato un evento religioso». Ma non nel senso comune del termine. Ma nel senso che Hitler si sentiva un dio. Il suo scopo era l’annientamento totale degli ebrei, perché egli stesso voleva uccidere Dio e farsi, lui, Dio. Quando ci si chiede dove fosse Dio per permettere tutto questo, i laici Kertész ed Heller osservavano che bisognava lasciare in pace Dio e che invece bisognava chiedersi dove fossero gli uomini: come poteva Dio che è infinito occuparsi di un fatto finito come lo sterminio degli ebrei?
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Si dovrebbe indagare – pensavano – perché il mondo si odii così tanto e per quale motivo si diriga con tanta foga verso la distruzione. È terribile quanto la trasmissibilità estetica della violenza continui a valere. In genere si è soliti dare la colpa alla cosiddetta storia, come se fosse una forza divina, estranea all’uomo, anzi un potere che divora l’uomo. e invece è l’uomo stesso l’unico colpevole delle azioni. Secondo loro anche il nome Olocausto (così come scrive il filosofo Giorgio Agamben nel suo libro Quel che resta di Auschwitz) è un’espressione infelice (negli anni Sessanta non esisteva ancora), un eufemismo che analizza un fatto da un unico lato e cerca di dare un senso a ciò che appare completamente insensato. Il fatto è Auschwitz, che può continuare in ogni luogo e in ogni tempo. Attenzione – dicevano – a dare una lettura semplicistica dell’Olocausto (inevitabile ormai usare questo termine) che potrebbe commuovere in maniera superficiale anche chi sarebbe il nuovo carnefice. Troppi film (Kertész non amava Schindelr’s List di Spielberg e apprezzava invece La vita è bella di Benigni perché – diceva – solo così si può raccontare l’“inavvicinabile”), troppe celebrazioni, troppa retorica. Oggi, se non si compiono gli sforzi necessari per restarne lontani si rischia di essere tutti “nazisti”, perché l’antisemitismo è subcosciente (tenuto a bada per lunghi anni, «sgorga a fiotti come lava che sa di zolfo dalla palude dell’inconscio» scriveva Kertész) e gli istinti stupidi e omicidi dei fondamentalismi (anche quelli degli ebrei) hanno dimostrato che l’uomo non è affatto cambiato dall’età della pietra. Attenzione ai fascismi di tutti i giorni (l’espressione è di un film del 1995 del regista sovietico Michail Il’ič Romm), perché il fascismo si rigenera, come forma aperta, come desiderio delle masse e di chi sta al potere. Del resto la liquidazione del comunismo ha portato allo sbilanciamento del dondolo: se non c’è più comunismo, viva il nazismo. Che banalità, che luogo comune! (ancora Kertész).
Patrizia Danzè
*In copertina: Imre Kertész ha ottenuto il Nobel per la letteratura nel 2002