Nell’anno in cui non si è assegnato il Nobel per la letteratura, si sono sbizzarriti. Segno, immagino, che l’evento culturale ormai è più importante del fatto letterario, che per giustificare la letteratura ci vuole un premio che la glorifichi.
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La neocostituita New Academy, per dire, crede di bonificare il Nobel ma ne adotta i criteri. Ad esempio, la ‘motivazione’. L’unica motivazione, per uno scrittore, non è forse l’opera? Ogni parola ulteriore non è superflua fino al grottesco? Ad ogni modo, presso la biblioteca di Stoccolma, il 12 ottobre scorso, è stata insignita del nuovo Nobel – si adotta il consueto logo The Laureate, manco fossimo in un film… e in effetti è così, è letteratura cinematografica – Maryse Condé, “una grande narratrice. La sua autorità appartiene alla letteratura mondiale. Nella sua opera, descrive le devastazioni del colonialismo e il caos postcoloniale in una lingua al tempo stesso precisa e travolgente”. Anche in questo caso, ho paura che abbia vinto il politicamente corretto in sugo svedese. Maryse Condé viene da Guadalupa, si fa grande nell’orrendo Occidente – studia alla Sorbona, insegna alla Columbia, ha casa a New York – e scrive romanzi di fervida efficacia – ricordo, molto bello, Le muraglie di terra, in Italia per Edizioni Lavoro. Brava è, senza dubbio; eppure, la ‘motivazione’ insiste su un dato ‘politico’ – il colonialismo – più che estetico: perché? Perché in Svezia, se non credono nella letteratura, continuano ad assegnare un premio letterario di risonanza mondiale?
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Anche all’altro capo del mondo, in Argentina, hanno deciso di inventarsi un Nobel ‘alternativo’. L’evento è andato in scena, un paio di settimane fa, al Malba (Museo de Arte Latinoamericano de Buenos Aires), alla presenza, tra gli altri, di Irvine Welsh, Anne Carson, David Leavitt, Catherine Millet, durante il Festival Internacional de Literatura Filba. L’idea però è più interessante rispetto a quella partorita dalla matrona Svezia. Il Nobel, a Buenos Aires, hanno deciso di assegnarlo a Jorge Luis Borges. In risarcimento. “La letteratura attuale è inconcepibile senza Borges”, dicono gli organizzatori. Una salutare ovvietà: pochi libri del Novecento hanno avuto una influenza pari a L’Aleph e a Finzioni, se togliamo l’opera di Kafka, il ‘monologo interiore’ di Joyce, i labirinti verbali di Proust.
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Come si sa, Borges è l’arcinemico del Nobel, la cartina di tornasole che squalifica l’attività culturale dei parrucconi di Svezia a dopolavoro per giovani marmotte appena alfabetizzate. ‘Nominato’ un tot di volte – nel 1956 la prima volta, poi ininterrottamente dal 1962 al 1966 – Borges viene ordinariamente escluso dalla lotta finale per il premio. “Dev’essere una sorta di ordine cosmico, una specie di simmetria, qualcosa come un rito: ogni anno mi nominano al premio, ogni anno mi dimenticano”, diceva Borges, “El humor de Borges era lo máximo!”, mi scrive la mia cara ‘Sole’ da Buenos Aires. La sottile perfidia del club svedese – perché continuare a sventolare davanti agli occhi della tigre blu una fetta di carne sanguinolenta che non azzannerà mai? – ha diverse motivazioni. Alcuni dicono che la questione fu politica – abbasso Borges il reazionario! – altri che i guru di Svezia non apprezzano la scrittura culturalmente così densa del cieco di BA. Le aule del Nobel come una cagnara di galletti, insomma.
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A BA, comunque, hanno avuto una buona idea, quella del Nobel postumo. D’altronde, un’opera per essere pienamente valutata ha bisogno di essere interrata nel tempo – ciò che oggi ci pare buono, domani, magari, è pessimo. A questo punto, io comincerei a premiare Franz Kafka, Anna Achmatova, James Joyce, Virginia Woolf, Marcel Proust, Herman Melville… Gli scrittori, voglio dire, devono tenersi a debita distanza dai premi, devono dubitare di ogni complimento: quando credi che la tua opera vale, è la volta che non vali più nulla. Il senso di frustrazione, di mestizia e di sudditanza agli eventi del caso; ma anche la vanagloria, la tracotanza, una innaturale e smodata ambizione, non agiteranno più lo scrittore obbligandolo al capolavoro, che è sempre l’ordalia di un dolore. I premi esistono perché una associazione di ricchi metta in pastoie dorate la libertà puzzolente e furibonda dello scrittore. L’unica forma consentita di stipendio, per galvanizzare lo scrittore, è una borsa di studio. Lo scrittore non vuole premi – queste sono le prime parole di Iosif Brodskij nel suo discorso di accettazione del Nobel: “Per una persona dedita alla vita privata, per uno che ha sempre preferito la sua dimensione privata a qualsiasi ruolo pubblico e che nell’esercizio di questa preferenza si è spinto piuttosto lontano – lontano dalla sua madrepatria, per non dire altro, giacché è meglio essere l’ultimo dei falliti in una democrazia che un martire o la crème de la crème in una tirannia – per un individuo simile trovarsi all’improvviso su questa tribuna è un’esperienza un poco imbarazzante e non poco impegnativa” – non vuole rotture di palle, vorrebbe essere messo nella condizione di fare ciò che sa: scrivere. (Davide Brullo)
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La mia ultima tigre
Nella mia vita ci furono sempre tigri. Così intrecciata è la lettura alle altre abitudini delle mie giornale, che in verità non so se la mia prima tigre fu la tigre di una stampa o quella, ormai morta, il cui ostinato andare e venire per la gabbia io seguivo, quasi stregato, dall’altra parte delle sbarre di ferro. A mio padre piacevano le enciclopedie; io sono sicuro che le valutavo dalle immagini delle tigri che mi offrivano. Ricordo ora quelle di Montaner y Simón (una bianca tigre siberiana e una tigre del Bengala) e un’altra, accuratamente disegnata a penna mentre spiccava un balzo, in cui c’era come un fiume. A quelle tigri visuali si aggiunsero quelle di parole: il famoso falò di Blake (Tyger, tyger, burning bright) e la definizione di Chesterton: “È un emblema di terribile eleganza”. Quando lessi da bambino i Jungle Books non smisi di addolorarmi perché Shere Khan era la cattiva del racconto e non l’amica dell’eroe. Vorrei ricordare, e non riesco, una sinuosa tigre dipinta dal pennello di un cinese il quale non aveva mai visto una tigre, ma senza dubbio aveva visto l’archetipo della tigre. Assai ragionevolmente ci si può chiedere: “Perché tigri e non leopardi o giaguari?”. Posso solo rispondere che le macchie non mi piacciono, al contrario delle strisce. Se scrivessi leopardo al posto di tigre, il lettore capirebbe immediatamente che sto mentendo. A quelle tigri della vista e della parola ne ho aggiunta un’altra che mi rivelò il nostro amico Cuttini nel singolare giardino zoologico che si chiama ‘Mondo Animale’ e che fa a meno di gabbie. Quest’ultima tigre è di carne ed ossa. Con evidente e atterrita felicità giunsi a questa tigre, la cui lingua leccò il mio viso e la cui zampa indifferente o affettuosa si soffermò sulla mia testa e che, al contrario dei suoi precursori, malodorava e pesava. Non dirò che questa tigre che mi sbalordì è più reale delle altre, giacché un leccio non è più reale delle forme di un sogno, ma voglio ringraziare qui il nostro amico e la tigre di carne ed ossa che i miei sensi percepirono quella mattina e la cui immagine ritorna come ritornano le tigri dei libri.
Jorge Luis Borges