JEAN
Un primo piano di venticinque secondi. Lo sguardo in basso, poi a destra, dove qualcuno sta riportando le parole che le ha appena rivolto l’uomo prima di morire per strada, ai suoi piedi. «Ha detto che lei è schifosa». A questo punto, dopo qualche secondo di esitazione, lo sguardo è puntato dritto in camera, ed è come una trafittura per lo spettatore, sedotto definitivamente da quel volto scandinavo, dai lineamenti puri, con il sottile nasino all’insù, le labbra carnose, i capelli biondi e cortissimi (un capello sull’orecchio si muove leggermente al vento). Poi la sua domanda – «che cosa è “schifosa”?» – e mentre attacca il tema al pianoforte di Martial Solal, la ragazza si passa l’unghia del pollice sulle bocca, prima sul labbro superiore poi su quello inferiore – un gesto che lui, l’uomo che è morto, ripeteva più volte, imitando Humphrey Bogart –; un attimo dopo le labbra si schiudono appena, si ha l’impressione che stia per accennare a un sorriso, ma invece no, la bocca si chiude di nuovo e si vede solo il suo volto, misterioso, attonito, impenetrabile, che ci guarda, forse con un atto di sfida o forse no, non lo sapremo mai, perché non abbiamo nemmeno il tempo di domandarci che cosa vi si nasconda, che lei si volta, con un gesto deciso, repentino, offrendoci la nuca. E la scritta «Fin» la oscura per sempre.
Così si chiude il film d’esordio di Jean-Luc Godard, À bout de souffle, del 1960, il rivoluzionario manifesto della Nouvelle Vague (un corrispettivo di Roma città aperta per il neorealismo), ma anche il film con cui irrompe nella storia del cinema, accanto a Jean-Paul Belmondo, l’eterea e sensuale Jean Seberg, attrice americana dello Iowa, trasferitasi in Francia in cerca di fortuna, dopo due film hollywoodiani di scarso successo. Il primo, Santa Giovanna di Otto Preminger, fu un debutto traumatico. A soli diciassette anni fu letteralmente mandata al martirio non solo nel ruolo della Pulzella d’Orleans, ma anche come attrice, da un regista notoriamente dispotico e senza troppi scrupoli. Il film fu un clamoroso flop e Jean fu massacrata dai critici.
Anche il secondo, Bonjour Tristesse, riduzione del bestseller di Françoise Sagan, ancora con Preminger come regista, andò male, al punto da spingere l’attrice a rinunciare, a pensare di chiudere con il cinema. Ma un giovane critico francese la nota. Si chiama François Truffaut e così scrive di lei, all’uscita del film:
«Quando Jean Seberg è sullo schermo, vale a dire sempre, non si guarda che lei, tanto è graziosa nel suo più piccolo gesto, precisa nel suo più piccolo sguardo. La forma della sua testa, la sua figura, il suo portamento, tutto in lei è perfetto e il suo tipo di sex-appeal è del tutto nuovo sullo schermo».
E poco oltre:
«Jean Seberg con i suoi corti capelli biondo-cenere sul cranio da faraone, i suoi occhi azzurri grandi e i suoi lampi di malizia da ragazzo, porta sulle sue piccole spalle tutto il film».
Non sorprende, dunque, che due anni dopo, quando Godard scrive À bout de souffle, su un soggetto proprio dell’amico Truffaut, il regista esordiente chiamerà proprio Jean a interpretare il ruolo di Patricia, la studentessa americana che vende per strada le copie dell’“Herald Tribune”, amata da un ladro e truffatore che vuole portarla con sé a Roma, ma che alla fine viene denunciato dalla stessa ragazza, che lo vede morire, ucciso dalla polizia, sotto i suoi occhi.
La bellezza di Jean, il suo stile, la grazia androgina, il modo di vestirsi e di muoversi, trasformano subito l’attrice americana nella musa del nuovo cinema francese. Dopo questo film, ne girerà altri trentuno – molti trascurabili, alcuni decisamente brutti, accettati solo per motivi economici, altri interessanti, innovativi – ma nessuno replicherà il successo di À bout de souffle, perché nessun regista che l’ha diretta ha saputo cogliere meglio di Godard la sua solare umbratilità, quell’amalgama irresistibile di ermeticità e limpidezza: la presenza, i sorrisi, il buffo francese dal forte accento americano, tutto di lei in quel film illumina lo schermo. È una luce diffusa, che però ha anche una tonalità malinconica. E quel finale misterioso, ipnotico, è forse ciò che ha saputo spiegare meglio, anticipandolo, il destino tragico dell’attrice. Quel gesto di guardare dritto in camera, per secondi che sembrano infiniti, e poi di voltarsi dando le spalle, è, a riguardarlo oggi, la prefigurazione di un negarsi alla vita, un congedo nel buio di una dissolvenza.
Jean ha avuto, in effetti, un’esistenza tormentata, inquieta, costellata da frequenti depressioni. Il suo primo ricovero in una clinica psichiatrica avviene nel 1961. Due anni dopo divorzia dal primo marito, il regista François Moreuil, per sposare il celebre scrittore ebreo lituano Romain Gary, più vecchio di lei di venticinque anni, da cui aveva già avuto un figlio. Non fu un matrimonio felice, nonostante le apparenze. Gary definirà Jean «ninfomane e frigida»: un giudizio impietoso, tipico di una mentalità sessista, da guascone. Gary, che tradisce continuamente la moglie, non può sopportare che lei si comporti con la stessa libertà e per questo arriverà perfino a sfidare a duello Clint Eastwood, quando scoprì che aveva una relazione con la moglie (per sua fortuna l’attore rifiutò la sfida). Eppure, quel giudizio, in tutta la sua superficialità, coglie il paradosso di una personalità profondamente scissa, che sa dare e darsi tanto (anche sullo schermo) ma non sa o non vuole ricevere.
Jean è una donna tutt’altro che fragile, è forte, determinata, ma è una personalità spezzata da un senso di colpa opprimente, lascito familiare di un’educazione luterana. Per reazione, ha fatto della dépense, del perenne dispendio, la sua cifra artistica ed esistenziale. Così la passione per i diritti umani, da sempre coltivata, la difesa degli ultimi, diventa ossessiva quando inizia ad appoggiare la causa delle Black Panthers. Mette a disposizione la sua villa di Los Angeles per ospitare le riunioni dei militanti. Finanzia il movimento islamico afroamericano, donando tutto ciò che guadagna con i film. Intreccia una relazione masochistica, autopunitiva, con Hakim Jamal, cugino di Malcolm X, che la picchia e la sfrutta. Quando lui uccide un poliziotto, Jean non esita ad accompagnarlo in una fuga in Marocco. Sarà, questo impegno civile accanto alle Black Panthers – e il suo morboso soggiogamento sessuale per un balordo come Jamal – l’inizio dei suoi guai.
L’FBI comincia a tenerla d’occhio, a controllare i suoi movimenti, a intercettare le telefonate. La sospettano di attività sovversiva. Quando Jean rimane incinta di nuovo, nel 1970, i servizi segreti, che l’hanno saputo, sfruttano la notizia per orchestrare una campagna giornalistica denigratoria contro di lei: l’attrice Jean Seberg, una donna sposata, sta per mettere al mondo un figlio mulatto concepito con un leader delle Pantere Nere, scrivono i tabloid scandalistici. È una fake news, diremmo oggi, che ha ripercussioni gravi sulla psiche di Jean. L’abuso di psicofarmaci durante la gravidanza per tenere a bada l’ansia e la paranoia, provoca la nascita prematura della figlia Nina, che morirà pochi giorni dopo. Per dimostrare a tutti che è stata calunniata, al funerale Jean mostra in una bara trasparente il corpo bianco della neonata.
Da allora non tornerà più negli Stati Uniti, ma gli anni Settanta saranno una lunga sequela di cadute, sempre più in basso, verso il precipizio. L’attrice non supererà mai la morte della bambina, di cui si sente colpevole. Ogni anno, ad agosto, tenta il suicidio in prossimità del giorno del compleanno di Nina, o il giorno stesso, o in quelli di poco successivi, come in un rito espiatorio, per un intero decennio. Ci prova anche il 29 agosto 1979: durante la notte esce da casa – la casa di Parigi che divide con il quarto marito, Ahmed Hasni, un algerino violento che le ruberà tutti i soldi – con indosso solo un cappotto che le copre il corpo nudo, per non tornare più indietro. Trovano il suo corpo dopo dieci giorni, disteso sul sedile posteriore della sua Renault bianca, parcheggiata in una stradina del 16esimo arrondissement, avvolto in una coperta. Ha ingerito un intero tubetto di barbiturici con una quantità enorme di alcol, lasciando un biglietto al figlio Diego: «Perdonami, non posso più continuare a convivere con i miei nervi». Dopo un mese, si toglierà la vita anche Romain Gary.
Al contrario di Truffaut, Jean ha sempre dato più valore alla vita che al cinema. Per questo i suoi due film migliori, dopo À bout de souffle, sono stati quelli in cui ha potuto interpretare dei ruoli che assomigliassero alla verità della vita, della sua vita. Nel sottovalutato Lilith, con la regia di Robert Rossen (1964), è una giovane internata in un ospedale psichiatrico del Maryland. In Ondata di calore di Nelo Risi (1970) è Joyce, una ragazza americana che cerca di uccidersi con il gas, e per questo viene ricoverata in una clinica, assediata dagli incubi e dall’angoscia. Sono, entrambi, film in cui Jean affronta i demoni del disagio mentale, quelli che sta affrontando nella vita reale, e questa identificazione si avverte, si percepisce chiaramente, ed è, per lo spettatore, un’esperienza perfino perturbante. Ma è in un film sperimentale di Philippe Garrel del 1974, Les hautes solitudes, che Jean arriva a rompere qualsiasi filtro tra vita e finzione. È una pellicola d’avanguardia, nello stile di quelli che girava Andy Warhol, in bianco e nero, senza audio, senza didascalie, senza colonna sonora, solo spezzoni di immagini di tre donne riprese sempre in primo piano: Nico, la cantante dei Velvet Underground, Tina Aumont e Jean Seberg, appunto, che occupa la maggior parte del film. Lei è la vera protagonista, con la sua sola presenza, il suo volto senza trucco, i suoi primi piani lunghissimi, estenuanti, struggenti. Lei nel suo appartamento, nel suo letto, che fatica ad addormentarsi, si gira e si rigira, gli occhi spalancati nel vuoto, finché, lentamente, non prende sonno. Lei, davanti alla finestra, di spalle, la fronte appoggiata al vetro, che si volta, si passa le mani sui capelli spettinati, il volto esausto. Ancora e sempre lei, seduta per terra, nell’angolo di una stanza, o per strada, o di nuovo nel suo appartamento, in pigiama, in pelliccia, in cappello con la veletta, mentre fuma, o si pettina, piange, sorride, si dispera.
A differenza degli attori dei film di Warhol, che si comportano come se non ci fosse un obiettivo a riprenderli, qui Jean non dimentica mai di essere davanti alla macchina da presa, è sempre consapevole, cioè, dello sguardo dell’Altro: guarda fisso in camera, proprio come Patricia nel finale di À bout de souffle, ma sono passati diversi anni su quel volto e la luce nei suoi occhi azzurri si è spenta, si sono spenti quei «lampi di malizia». Jean è una donna piegata dalla sofferenza, ha il volto segnato dall’alcol e dagli psicofarmaci, e l’obiettivo ce lo mostra, impietoso. O meglio, è lei che si mostra, con coraggio, per quello che è. Denuda la sua anima. Distrugge la sua immagine di diva, l’immagine di qualsiasi divismo, per offrirsi inerme, alla verità, per affermare che la recitazione, in fondo, non è che uno stato dell’essere.
In questi primi piani, che la rassomigliano più che mai a un’attrice di un film di Bergman, si avverte tutto il peso di una vita insostenibile. Se Jean Cocteau diceva che il cinema è la morte al lavoro, per la Seberg di questi fotogrammi il cinema diventa piuttosto, in presa diretta, la vita al lavoro, con tutto il suo carico di angoscia. «Non so se sono infelice perché non sono libera o se non sono libera perché sono infelice» aveva detto l’attrice nel ruolo di Patricia. Quattordici anni dopo, Jean sembra non chiederselo più, poiché è troppo tardi anche per le domande: intrappolata nell’infelicità, con questi lunghi, muti primi piani, ci ha lasciato non il suo testamento, ma la dolente, disperata testimonianza di chi ha portato la vita e l’arte a diventare tutt’uno, in una devastante conflagrazione.
Fabrizio Coscia