17 Novembre 2017

Gabriele Tinti scatenato. Sono inchiodato al cesso della tracotanza (e il mio maestro è Mike Tyson)

Mettere tenda tra le oltranze, dimorare sui picchi, avere l’assoluto nella tasca dei jeans. Questa è la poesia. Emergenza, rischio, knock out. Il resto è colpi di piuma sul proprio ombelico. Gabriele Tinti è una inquietudine fin dal nome. Gabriele Tinti, infatti, è stato un capace caratterista del cinema italiano, con un centinaio di film nello zaino, diretto, tra i tanti, da Steno, Pasquale Festa Campanile, Carlo Lizzani, Joe D’Amato, Carlo Vanzina, e tra i tantissimi – tutti – ha recitato con Totò, Charles Bronson e Walter Chiari. Questo Gabriele Tinti, però c’entra nulla con Gabriele Tinti il poeta onnivoro, ondivago, irrequieto. Una cosa c’entra, però. Il cinema. Ma a questa vengo dopo.

Haber
Aleesandro Haber legge Rovine di Gabriele Tinti (courtesy Dino Ignani)

Gabriele Tinti ha la barba, gli occhiali, gli occhi che sembrano dipinti da Antonello, sono placidi e feroci come pietre. Gabriele Tinti, questa è la didascalia del sito personale, impeccabilmente in inglese, is an italian poet and writer. Ha cominciato, prepotentemente, a scrivere di boxe, in The Way of the Cross (Allemandi, 2012), ma a me, personalmente, il colpo a mozzare il respiro, kappaò estetico, è arrivato con Last Words (Skira, 2015), quando Tinti ha raspato le parole, ultime, letali, lucide, terribili, dei suicidi. Fotografie possenti di Andres Serrano, testi di Derrick De Kerchove e di Umberto Curi, e una idea poetica micidiale: la poesia è sempre parola ultima, è sempre indagine della morte, è sempre con un polso nell’aldilà. Il libro è diventato un piccolo cult e Tinti ha cominciato a dare fastidio. Perché? Per due ragioni. Primo. Non scrive poesie sciocche per intrattenere il pubblico. Secondo. Non appartiene alla massoneria dei poeti ‘laureati’, viaggia in direzione contraria, la sua. L’ultimo progetto poetico di Tinti, che si tramuterà in un libro Skira l’anno prossimo, si chiama Rovine. Dopo aver dato voce alla rovina umana – i boxeur – e all’uomo rovinato – il suicida – Tinti dà voce ai frammenti mutilati dell’arte antica, alla castrazione del ‘classico’, all’abbagliante disfacimento. I testi di Tinti, per capirci meglio, potete ascoltarli sabato 18 novembre, ore 16, al Museo dell’Ara Pacis. Legge Alessandro Haber. E qui veniamo all’altro ‘carattere’ di Tinti – che lo lega a quell’altro Tinti. Il cinema. La dizione. La dedizione della voce. Tinti lavora con i grandi attori, dona i suoi testi all’ugola dei grandi. Se con Haber il rapporto e consolidato (vedete il video qui), Tinti ha stretto alleanza attoriale con Silvia Calderoni dei Motus, con Franco Nero, con Luigi Lo Cascio, con Joe Mantegna (che è quello de Il Padrino. Parte III) e con Robert Davi, che è quello che ha fatto I Goonies, 007 vendetta privata e un mucchio di altri film. Tra l’altro, Tinti ha portato le sue Rovine un po’ ovunque dal ‘Paul Getty’ Museum al Metropolitan di New York al British Museum. La poesia s’inoltra nella rovina per predisporre la resurrezione. (f.s.)

 Intanto, “Rovine”. Da dove è nata l’idea, perché?

Rovine è una serie di miei scritti, di poesie, di saggi che nasce da un grande senso di perdita, da quella visione che fin da Esiodo dipingeva la primitiva forma di esistenza come un’età dell’oro in confronto alla quale le fasi successive non sono altro che stadi di un’unica, prolungata, Caduta dalla Grazia. ‘Anche il bello deve morire’ diceva Schiller con così tanta, in qualche modo, verità. Difficile dire qualcosa d’altro. Con Rovine ho rischiato, provando a farlo”.

Poi. Nei tuoi libri, di solito, segnali una oltranza. Un al di là della poesia. Di fatto, lavori sempre setacciando rovine. Penso al ciclo su Arturo Gatti e sull’epica atroce del pugilato, e a quel libro sublime e crudele, “Last Words,” in cui hai allineato le parole ultime dei suicidi. Le parole vere. Sarchiate da Internet e da materiali digitali disparati. Come mai questa tensione, del dolore e del delirio?

“Perché non c’è poesia al di fuori del dolore. Hai ragione: la mia scrittura muove dalle rovine, attraversa i cimiteri, fiuta le ferite, le tracce di ciò che è scomparso. Nasce dal ricordo dell’antico e dal disprezzo del presente. Credo proprio che Baudrillard abbia avuto ragione quando affermò che l’arte ‘sarà forse stata solo una parentesi nella storia dell’umanità’. La mia poesia è ricerca di quella traccia, tentativo contro il mestiere, il compitino, contro il gioco linguistico cui s’è ridotta, per cercare di farla tornare, se mai sia possibile oggi, a cantare tragicamente, a essere preparazione alla morte, corpo a corpo coi morti, divinizzazione degli antenati, glorificazione del fallimento, trasfigurazione dell’orrore ultimo”.

Come giudichi il mondo della poesia italiana recente, della cultura in generale? Che poesia è possibile oggi, nel mondo impoetico, quello dei poeti che si misurano in cricche e accrocchi?

“La poesia in Italia, e non soltanto qui ma in particolar modo qui, regno della cricca, agonizza in quanto confinata da un pregiudizio linguistico in un genere letterario. Si è ovunque sostanzialmente rimosso il significato primario di creazione, composizione, della parola poiesis. Si è dimenticato che la poesia nasce con Ermes che era un ladro, un rapitore, un mistificatore astuto. La poesia nasce con lui, nel momento in cui crea la lira come mezzo di protezione contro gli incantesimi pericolosi accompagnandone il suono con il canto a celebrazione del proprio ego e della propria genìa. La poesia nasce come canto quindi non come scrittura. Dopo Ermes, così ci narra il mito, la lira passò ad Apollo ed infine ad Orfeo per poi venire posta da Zeus tra le costellazioni in quanto nessuno, secondo gli immortali, era più degno di possederla. Ecco, la poesia finì lì e a noi non è rimasta altro che una profonda nostalgia per un’età mitica in cui questa riusciva a cantare davvero, un’età in cui efèbi, bardi – presto destinati a scadere in rapsodi ed infine negli scribacchini quali noi siamo divenuti – utilizzavano la parola viva con voce divina. Certamente sopravviviamo. Altri ne verranno ‘poiché la terra ne crea ancora come ne ha sempre creati’ (Goethe). Ma non possiamo più dire di essere gli stessi. Credo davvero che il tempo della grande poesia sia passato. Ogni arte ha avuto la sua epoca di splendore. Adesso è il momento del cinema”.

Più specificamente: quali sono i tuoi ‘maestri’, di ieri e di oggi? Ad esempio, non posso non notare, anche in “Rovine” (ho ascoltato la sconvolta, sublime lettura che ne ha dato Alessandro Haber), una vocazione ‘teatrale’ del tuo lavoro, una poesia epica nel senso ‘sonoro’ del termine. Spiegaci.

“Il poeta delle origini era un cantore. Certamente non scriveva e quando nel periodo tardo lo fece, lo fece destinando i suoi testi all’attore. Egli era colui che venne affiancato e poi sostituito dai profeti fino alla separazione disgraziata delle arti d’oggi e alla degenerescenza della proliferazione dei generi letterari. Ho bene presente tutto questo e so che non è più possibile tornare indietro. Tuttavia penso e affido ogni volta i miei testi alla scultura vivente dell’attore, al kolossos capace di fornire nuova voce a ciò che è oramai irrimediabilmente scomparso. Mi chiedi poi quali siano i miei maestri. I miei riferimenti più vicini sono Mike Tyson, Arturo Gatti, Sonny Liston, John Huston, Paul Zanker, Walter Pater, Walter Friedrich Otto. Ma in definitiva penso che l’unica possibilità per il vero poeta sia rivolgersi contro se stesso come avvertiva Niezsche”.

E ora, poeta abituato al sottosuolo, alla rovina e alla morte, alla vita e al dilemma, a cosa lavori, dove ti trascina per i capelli la Musa?

“Son sempre qui, al solito, inchiodato al cesso della tracotanza, ammalato di tutto, coi nervi sempre contratti per riuscire a mormorare una qualche canzone. Le prossime saranno un libro con Roger Ballen, una nuova collaborazione con Andres Serrano e un film da regista che sto pensando per il motivo che ti dicevo prima: mi sento prigioniero della letteratura. Per quello ho bisogno di vederla in azione, di coinvolgere gli attori. Dopo Rovine, il libro con Ballen è il prossimo che realizzerò. Sta venendo fuori un dramma reso attraverso le trascrizioni delle conversazioni che ho avuto in Sudafrica con alcuni dei personaggi ritratti da Roger nel suo splendido Outland. Sto restituendo le parole delle persone incontrate nella loro spontaneità, mettendole assieme limitando il mio intervento, riducendo l’artificiosità autoriale. Come nel teatro di Beckett in questo mio lavoro non c’è una trama, una narrazione ma una serie di conversazioni fini a se stesse. Pure, mentre nelle sue opere la finzione teatrale e letteraria si svela senza ambiguità appunto come pura finzione, in questo mio testo il dramma nasce dalla realtà, si rapprende e sviluppa dall’esistenza così come questa si presenta. È più crudo, più brutale di tutto quanto è stato fatto in passato; è, se vuoi, meno letteratura o meglio una letteratura che continuamente attenta a sé stessa. Un po’ com’è stato in Last words. Di tutto il resto e di questo libro non voglio parlare troppo però”.

*

Per gentile concessione, pubblichiamo alcuni testi da Rovine.

 

ESIODO

 

“(Mio padre)…prese dimora presso l’Eliconia, in una misera borgata,

ad Ascra, trista d’inverno, penosa d’estate e non mai piacevole”

(Le opere e i giorni, 634 sgg.)

 

Ritenuto a lungo dagli archeologi il ritratto di Seneca, il frammento bronzeo della Villa dei Papiri restituisce l’immagine di un anziano poeta lirico, probabilmente Esiodo. Capolavoro della ritrattistica ellenistica qui lo scultore abbandona completamente la tradizione estetica classica per evocare la passione e l’energia del poeta presente persino in un corpo provato dalle sofferenze di un vivere quotidiano modesto. Nel busto si riconosce un rimando all’iconografia dei contadini e dei pescatori, come a voler significare che anche in un emarginato, in un uomo segnato dagli stenti e dalla fatica, può risiedere un grande spirito. L’uomo in là con gli anni, trasandato, concentrato, alla ricerca della giusta parola, sembra appunto rimandare a Esiodo, al “vate contadino che le muse elessero poeta mentre pascolava le capre sull’Elicona e che condusse una vita di incessante lavoro, di preoccupazioni e delusioni” (Paul Zanker, “La maschera di Socrate”).

 

Ultimo dei poeti

scolpisci l’irreparabile

 

sei pronto a tutto

incidi le parole.

 

Impaziente scaldi

antiche ferite

 

il canto ribolle

nelle tue vene.

 

Chi devi chiamare?

Chi vuoi incendiare?

 

Più nessuno t’aspetta

nessuno che t’offra

 

un rifugio sicuro.

Soffochi di solitudine

 

cominci ad appassire.

«Allora forza!» – gridi –

 

«fatemi a pezzi!

Lasciatemi morire!».

#

Prepara la messe della notte il poeta

contadino, affina il fiuto, prova la gola.

 

Tu seguilo se puoi, tendi l’orecchio.

Tra poco il gelo abbraccerà la sera

 

e non ci sarà più verso buono per noi.

Da nessuna parte fuggiremo questa

 

sventura. Vorresti piangere ma le lacrime

frenano sulla tua scorza di bronzo.

 

Sei triste lo so, in te abbaia soltanto

l’angoscia. Stringi più forte tutto quel buio,

 

non lasciartelo sfuggire. S’estinguerà

in memorie e silenzio, in poche righe.

 

 

OMERO

Il ritratto di un uomo anziano, dai lunghi capelli cinti dal cercine e dalla barba folta, giunto fino a noi in numerose copie costituisce un ritratto retrospettivo di Omero. L’intenso volto, l’aura di un’immagine sovraumana che da questo trapela, mi ha sempre fatto provare una profonda nostalgia per un’età mitica dell’arte e della poesia in cui questa riusciva a cantare davvero, un’età in cui efèbi, bardi utilizzavano la parola viva con voce divina.

 

Un vento freddo raggela ogni parola.

La terra ci attira a sé. «Dove sei?»

 

chiamiamo inutilmente. A tastoni cerchiamo

dove trovarti nello sproloquio dei poemi,

 

dei secoli nostri, di quelli passati e di quelli

a venire. «Dove sei?». Dopo di te arranchiamo

 

con le gambe spezzate lungo questa ferita

che lascia tracce poco profonde. Sparito!

 

Sparito! Piangiamo il canto che non sappiamo

più cantare, noi ai quali è dato soltanto cadere.

 

Gronda sangue l’alloro dei poeti, illumina

appena quel po’ di buio che possa bastare.

Gruppo MAGOG