04 Dicembre 2021

“The Power of the Dog”: dai profeti biblici ai cowboy di Jane Campion

Il potere del cane non è un grande film e non è un “anti-western”, come lo ha ribattezzato il “New Yorker”. Riguardo al genere – diciamo: western terminali – non c’è paragone con il barocco, onirico, sballato I cancelli del cielo (1980; dirige Michael Cimino) o con il lucido, commosso, violento film di Clint Eastwood, Gli spietati (1992). D’altronde, il romanzo di Thomas Savage (ottimo autore di genere), da cui dipende la pellicola di Jane Campion, non ha a che fare con Meridiano di sangue, il libro definitivo di Cormac McCarthy. Questione di altezze e di fango; interessante, semmai, far caso al fatto che il West americano pare una rotolo-rotocalco aggiunto al biblico Libro dei re: è sempre una vicenda di eredi, di fratelli, di promesse, di tradimenti, sopra cui incombe la cupa morale di un dio amorfo, morboso, cupo.

Il film, in ogni caso, va visto. Per due ragioni. La prima è il paesaggio, di estrema ruvidezza, paradisiaco per ostilità. Poi, i personaggi. Certo, Kirsten Dunst, la donna attorno a cui ruota la storia – angelica fino all’ubriachezza – non ha la potenza di altre eroine sbalzate nel cristallo da Jane Campion: non appare come Nicole Kidman, l’eterea Isabel Archer di Ritratto di signora (stregata da una presunzione d’intelligenza contraria al proprio destino, magnetica per distrazione); non è ineffabile, feroce, eccentrica, memorabile come la muta di Lezioni di piano, Ada (inutile non andare in amore per Holly Hunter). Eppure, il figlio di lei, Peter (Kodi Smit-McPhee), pallido, effemminato, placido e demoniaco (costruisce fiori di carta più belli del vero: dunque, adempie il creato ideandone un altro, opposto, immutabile), dinoccolato e vendicativo, è efficace. Benedict Cumberbatch (Phil Burbank) è attore pronto ad anomalie e metamorfosi (ne Il visionario mondo di Louis Wain fa un ruolo decisamente contrario); il suo viso ricorda Luca Orlandini, una personalità.

Dopo tutto, l’enigma del film è nel gheriglio del titolo. The Power of the Dog. Un gergo ipnotico. S’intitola così il romanzo di Thomas Savage, ma pure un romanzo di Don Winslow; James Ellroy, “Demon Dog of Crime Fiction”, era tentato di griffare nello stesso modo un suo libro. La ragione del titolo è placida. A un certo punto Peter, il ragazzo, sfoglia una Bibbia, gli occhi si fermano su quel versetto, ligneo, terribile: Deliver my soul from the sword; my darling from the power of the dog. Nel film – almeno per allusioni – si capirà che cosa s’intende per power of the dog e per my darling.

Il versetto è tratto dal Salmo 22, barbaglio di bava liturgica pronunciata nel momento estremo, penzolante dalla Croce, da Gesù; nella figura dell’eletto martoriato, sfregiato, sputato (“Ma io sono verme, non uomo, rifiuto d’uomo, disprezzo di genti/ Chi mi vede di me si fa beffe, ruota le labbra, scuote il capo”, 22, 7-8) si rivela Peter, chiaroscurale protagonista del film. Il mistero, semmai, è che “il potere del cane”, nella Bibbia che avete sul comodino, non c’è. Inebriante odore del tradurre: il versetto citato nel film è tratto dalla King James, la Bibbia di Re Giacomo, pietra d’angolo della lingua inglese, stampata nel 1611. La versione della Cei, per capirci, traduce così: “Libera dalla spada la mia vita,/ dalle zampe del cane l’unico mio bene”. Dal contesto si capisce che l’unico mio bene è la mia vita; i cani, alla luce del versetto superiore (“Un branco di cani mi circonda,/ mi accerchia una banda di malfattori”, 22, 17), sono i nemici del giusto, quelli che vogliono sbranarlo, divorandolo lontano da Dio. I cani, nel ring biblico, sono le bestie basse, emblema della pura fame, dell’aggressione priva di fierezza: i cani “ringhiano”, “divorano”, “sbranano”; “Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai” dice San Paolo ai Filippesi. David Maria Turoldo fa del Salmo un inno, canto offeso da balbettare a notte: “dalle spade accorri a scamparmi/ la mia carne, Dio, salva dai cani”.

Dunque, è una sfasatura, un errore aureo, quello che troviamo nella King James: the power of the dog è un’invenzione dell’esegeta colto da estro shakespeariano. Nella Bibbia ebraica curata da Rav Dario Disegni il versetto ha questa formula, contratta: “Salva dalla spada la mia persona, dai cani il mio corpo”; il grande Diodati traduce così: “Riscuoti l’anima mia dalla spada, l’unica mia dalla branca del cane”; Guido Ceronetti rende in questo modo: “Strappa al coltello la mia vita/ La mia unica alla mano del cane”. La Vulgata conforta la versione di Ceronetti: Erue a framea animam meam/ et de manu canis unicam meam.

Va detto che la King James riveduta modifica il versetto, toglie qualche allusione, ma mantiene “il potere del cane” (Deliver Me from the sword,/ My precious life from the power of the dog”); la New English Translation, invece, ruota in modo del tutto diverso: Deliver me from the sword./ Save my life from the claws of the wild dogs. La mitica Bibbia coordinata da John Wycliffe, spiega mantenendo l’ambiguo: God, deliver thou my life from sword; and deliver thou mine one alone from the hand, or power, of the dog.

Mesmerismo delle astrazioni: la “vita”, la “carne” diventa my soul nella KJ, le “zampe del cane” – o le mani – diventano “il potere del cane”, alla foce di my darling possiamo scorgere qualcosa di molto più vasto della nostra vita, del nostro corpo: il profilo di un’amata, l’etimo di un amore, il Graal di una sposa. Così, per scoscendimenti che paiono ascesi, la prepotente carnalità del canto biblico, tutto corpo, sangue e cani all’erta, pronti a sbranare, diventa un vertiginoso testo atto al teatro, dove c’è l’anima e la spada del cavaliere, la bella soggiogata dal potere del cane, simbolo delle forze oscure, sinistre, che bisogna combattere. Una livida vicenda dei deserti, di carovanieri corsari, di allucinazioni meridiane, di un Dio che pianta leggi, così, pare l’appendice di una storia arturiana. Nel West, naturalmente, quello stesso versetto, piagato da un’allusione obliqua, prende un altro significato ancora: il profeta diventato cavaliere, ora è cow boy. Che razza di viaggio ci fa fare un film, neppure indimenticabile…

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