Saint-John Perse, che pure è considerato un “poeta per poeti”, non amava la compagnia dei poeti. Semplicemente, quei manieristi della vita, autori di un colossale maniero in verbi, audaci nell’indossare la giacca del ‘maledetto’ o l’uniforme del conforme, non avevano nulla da dirgli. Conosceva la riconoscenza – verso André Gide, Valery Larbaud, Jacques Rivière, ad esempio –, indizio di prepotenza aristocratica; a Paul Claudel non domandava lumi sull’arte del poema: era affascinato dai suoi viaggi, in qualità di ministro plenipotenziario, tra Cina, Brasile e Giappone. In particolare, dal 1916 al 1921, durante gli anni diplomatici a Pechino, Saint-John Perse si circonda di sinologhi, avventurieri, scopritori di testi sacri e di miti defunti, studiosi di canoni buddisti, vagabondi che praticano il taoismo. Dialoga con Marcel Grenet, autore de Le pensée chinoise, e con il linguista, archeologo ed esploratore Paul Pelliot; ospita nei suoi alloggi Lucien Lévy-Bruhl, autore de La Mentalité primitive: è affascinato dal primordiale e dal remoto, dai deserti di pietra e dai lacerti di civiltà sommerse, con l’arguzia dell’autodidatta, privo delle fatue eccitazioni del teosofo.
Tra gli interlocutori prediletti da Saint-John Perse spicca Jacques Bacot, geografo, etnologo, orientalista, che aveva varcato più volte, dal 1904, le frontiere del Tibet. Il suo libro più noto, Le Tibet révolté (1912; di cui qui traduciamo alcuni passi), aveva contribuito a forgiare la leggenda del viaggiatore solitario, capace, con insolita scaltrezza, di inseguire le tracce di monasteri in disarmo, di rotoli gonfi di formule magiche, di sogni scaturiti dalla preghiera e dal mito. Jacques Bacot veniva da una ricca famiglia di manifatturieri; l’Asia si era impossessata del suo destino, a 27 anni partì per Lhasa e il Tonchino: per mesi di lui non si seppe nulla. Riuscì a trovare, scrivendo, uno stile nobilitato dalla curiosità, da una indifesa indifferenza verso la cronaca; Bacot, micidiale narratore, fiancheggiava il prodigio:
“Qual è dunque il fascino formidabile di questo paese a cui torna, di continuo, chi lo ha appena intravisto? Per ritrovare le sue montagne e le sue genti, attraversiamo il mare, i vasti regni, la Cina, sul dorso di lenti cammelli e di muli. Solchiamo deserti ghiacciati e montagne spaventose, il caos degli abissi, cime levigate dal freddo assoluto dei cieli. Le case sembrano covi, segrete, brulicano di preghiere, odorano di burro rancido e di incenso. Questo è il Tibet dei monaci e dei pastori, proibito agli stranieri, isolato dal mondo e tanto prossimo al cielo che l’occupazione naturale dei suoi abitanti è l’inno e la lode. Non è nemmeno Oriente, questo, l’Oriente dei cortili, dei giardini e dei bazar: in Tibet la vita è confinata tra fortezze e monasteri… In Tibet le grandi città sono monasteri in cui i monaci dispensano la giustizia, riscuotono le tasse, stampano i libri, commerciano, battono moneta e fanno la guerra. Nel Tibet la gente pensa e parla come al tempo di Omero; al cospetto del Tibet, la Cina appare banale, costretta in organismi e organizzazioni simili alle nostre. Per questo torniamo a questo popolo attratto dall’ignoto, che ignora il resto del mondo”.
Negli anni, Bacot organizzerà spedizioni in Indocina, in India, in Himalaya; nel 1936 è eletto direttore di studi tibetani presso l’École pratique des hautes études; dal 1945 è presidente della Société asiatique. Le Tibet révolté, il suo libro più vero, spiazzante, è tra le rare fonti usate da Saint-John Perse per scrivere Anabasi. Bacot muore a Parigi nel 1965; la sua figura è viva, fiamma perenne, nell’editoria italiana: la traduzione e la cura della Vita di Milarepa – “prima fra tutte (e insuperata)” – ora in catalogo Adelphi (edita, di volta in volta, da Bompiani e da Mondadori), è ancora la sua, così come La vita di Marpa il Traduttore (sempre Adelphi).
Intrattenne un legame epistolare con l’esploratrice Alexandra David-Neel; fu amico di René Daumal, Louis Massignon, Pierre Teilhard de Chardin. Gli fu devoto il poeta Victor Segalen. Introdusse in Francia gli studi sul buddismo di D.T. Suzuki e scrisse un libro divulgativo su Le Bouddha (1947). Tuttavia, deprecava la moda del buddismo all’occidentale, “artificiale e standardizzato, privo di linfa”, le conversioni artificiali, per il gusto, a go-go. Affascinava la sua capacità di mimetizzarsi nei meandri d’Oriente, la flessuosa eleganza, in Francia, il modo in cui alternava la divisa accademica agli scarponi inzaccherati di fango, il cameratismo e la stretta severità. Amava gli spazi assoluti e la demonologia tibetana: non si lasciò obnubilare. La sua isola del tesoro, per così dire, era la Terre promise des Tibétains, la terra promessa in cui il Tibet – stretto tra le ingerenze cinesi, le ingiurie russe e i patti, rapaci, con il British Raj – risorgerà continuamente dalle sue rovine.
“Pochi anni prima della spedizione inglese a Lhasa, un grande lama chiamato Song-gye Tho med, il Buddha a cui nulla resiste, si è messo, secondo le istruzioni dettate dai libri, sulle tracce della Terra promessa. Accompagnato dai monaci del suo monastero, ha impiegato cinque anni per farsi strada tra montagne aspre e impenetrabili foreste di bambù. Scoprì un paese immenso, mai visto, velato di foglie e di fiori. Oggi vive ancora lì, in una provincia di tende. Un migliaio di famiglie lo inseguirono nei primi anni della guerra cinese. Molti morirono nel viaggio, per le febbri e il morso dei serpenti. Alcuni hanno fatto ritorno. Dicono che al termine della valle si erge una rupe in cui è scavata una caverna: lì vive un dio dal corpo umano e la testa di toro. Chi lo guarda muore all’improvviso… Disperatamente, anch’io vorrei trovare la Terra promessa, anche se non dovessi mai più tornare, anche se moriremo tutti, come temono i miei amici tibetani, che vivono nell’era della favola, dove la storia è vinta dalla leggenda”.
Ci vuole un’infanzia perpetua per investigare il viaggio: il Tibet è come Atlantide e l’antica terra degli Iperborei, è come una profezia e un racconto di Stevenson. Ci vogliono braccia robuste e occhi propensi al miracolo.
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Il Tibet in rivolta
Il Tchraker lama [Vajradhara Drakkar] finora si è dimostrato filo-cinese: potrebbe cambiare idea. La sua politica non gli permette più i lucrosi tour nel territorio cui era abituato: la regina di Gānzī lo ucciderebbe. Si dice sia a corto di soldi; accorto, ha ancora l’apparenza dei ricchi. Certi lussi sono indispensabili in Tibet per garantirsi un’autorevolezza sociale, di qui i suoi trenta inutili cavalli bianchi. Gli regalo un tappeto indiano, facendogli intendere che ho bisogno di libri di storia, libri rari, che potrei far ricopiare vincendo l’attaccamento che i tibetani hanno verso i loro testi sacri. Non vado io nel piccolo monastero, invio Adjroup.
Il Tchraker lama lo tiene con sé tutto il giorno, lo interroga in merito alla mia missione, sul mare, sulle coste, sulla Francia. Il mare, che ignorano, confonde la mente dei tibetani. Immaginano la riva del mare come il limite del mondo, l’orlo su un abisso senza fondo, diviso tra acqua e aria, scaturigine delle tempeste. Oltre l’oceano, esistono altri mondi abitati da uomini bianchi e audaci, capaci di guidare navi: uno di questi sono io.
I tibetani a cui ho detto che la Francia è collegata via terra al Tibet sono rimasti profondamente stupefatti. Mi hanno chiesto la ragione del nostro viaggio via mare, dunque i discendenti dei lama sono venuti verso di me, nel cortile, hanno afferrato i nostri muli, siamo saliti, insieme, in processione, al santuario rosso. Questi lama risultano “malvagi” da qualche anno, come lo sono i vicini di Gānzī: tuttavia, sono gli stessi di sempre. Solo una politica fatua li divide, non durerà più a lungo di un’effimera. Non esistono differenze di intensità, ma di opportunità. Il Tchraker lama, ad esempio, è reso inquieto dal Talé lama, mi chiede dove si trovi. Dicono che sia nel nord e abbia intenzione di entrare in Russia. Che strana figura quella di questo dio errante che viaggia con un seguito di migliaia di monaci, servitori e bestie, compiendo escursioni che farebbero invidia al più esperto dei nostri esploratori. È riuscito misteriosamente a vincere la morte, l’ampiezza del potere dei suoi occhi dicono sia prodigiosa. È un capo autoritario e crudele. Dicono abbia recluso un proprio ministro in una pelle di yak appena scorticata, e poi esposta al sole. Il restringimento della pelle interrompe la circolazione del sangue e garantisce un soffocamento senza requie, tremendo.
Il Tchraker lama mi ha dato delle pillole magiche che consentirebbero di scomparire e di trasmigrare, attraverso i corpi, da un luogo all’altro. Sono composte di canfora e della carne di un certo Buddha vivente al quale, ad ogni luna piena, viene rimossa una striscia di carne dal braccio. Basta un mese perché la ferita si rimargini. Nelle mie mani, ovviamente, le pillole perdono ogni facoltà prodigiosa. Adjroup e Puguin sono così assertivi che mi spiace fare la figura del miscredente. Adjroup dice di avere avuto alcune di quelle pillole: le mangiò avidamente, senza diluirle. Erano fatte di canfora e della carne di un mostro marino con la testa di bimbo. Adjroup, che è stato lama pôn-bo, ha percorso le vie magiche. Si è fatto cristiano di recente, in seguito a una lite, sfociata in omicidio, che lo ha costretto a fuggire da Tsarong. I concittadini volevano ucciderlo. Allora, si è ritirato tra i lama, si è tagliato i capelli, si è dato alla magia. Durante il sacerdozio, durato due anni, ha conservato la fede cristiana e, per riparare al male arrecato, ha battezzato in segreto bambini in pericolo di morte. Da allora, ha bruciato ciò che adorava, a tal punto che in Francia, durante una fiera, ha voluto mettere alla prova un prestigiatore che supponeva alleato alla magia nera.
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Il 7 settembre, con il pretesto di non riuscire a dormire in un villaggio in cui cinquanta cani abbaiano tutta la notte, mi sono accampato sulle alture presso la strada che porta a Nyarong. Ritirerò i bagagli all’ultimo momento, così non si insospettiranno per la mia partenza. Ho portato con me due donne: una addomestica il fuoco, l’altra cura il pascolo. Così vuole la tradizione. Ho licenziato Tchanchié, un uomo vile. Per vendetta, ha tagliato le cinghie della sella ed è scomparso. Ci aveva ingannato riguardo alla sua forza, al suo valore. Si vanta di essere stato un brigante, un ladro. Ma i briganti sono guerrieri, combattono.
Nonostante ciò che dicono i missionari, i criminali sono rari e questo è un paese pressoché privo di polizia. In due anni di viaggio sono stato derubato soltanto di un cucchiaio, per altro da un soldato cinese incaricato di proteggermi dai ladri. I missionari, come tutti gli esulti, idealizzano la propria patria. Certo: se sospendiamo l’esercizio dei tribunali e dei gendarmi per otto giorni, gente come Tchanchié se ne approfitterebbe per ricavare una fortuna in poco tempo; e in chissà quali torbidi, caos e barbarie sprofonderemmo… Una civiltà non misura il proprio progresso dalla capacità con cui reprime, ma dal fatto che relega il reprimere a pratica inutile. E pensare che ci sono nazioni tanto sconsiderate da ostentare con orgoglio il proprio esercito di polizia!
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10-14 settembre. In due tappe arriviamo a Markang. Il coraggioso capo ci dà un caloroso benvenuto. Il corriere, che sarà la nostra guida, parte come per un lungo viaggio, con una sciabola alla cintura, un reliquario nella collana e finimenti d’argento e corallo. Piove, e la terra, spugnosa, è piena d’acqua. Dietro la mia tenda, l’altipiano si estende in un’infinità di zolle d’erba circondate dall’acqua. Camminiamo saltando da una all’altra, ogni passo è uno sciabordio. Ai piedi della mia tenda zampilla acqua, che pare scaturire dal suolo.
Di giorno, il vecchio capo mi invita con Adjroup a cacciare marmotte: conosce i luoghi esatti e le esatte strategie. Ha i modi di un gentiluomo, è affabile senza essere servile, ha il tono disinvolto di chi ci pare di conoscere da sempre. Non è un tibetano ordinario. Lungo la strada chiacchieriamo. Non crede che il mio terzo tentativo di raggiungere Rounon vada a buon fine ed enumera le ragioni per cui il Governatore rifiuterà il permesso di accedervi. La cittadella conta un centinaio di famiglie e il suo distretto è l’ultimo rifugio in caso di invasione. Merkang è l’avamposto di questi luoghi tanto radicali. Dalla sua casa isolata in una piana deserta, il vecchio capo vigila il confine e governa su novemila famiglie – o meglio, come dicono, tende – di pastori. Il capo mi assicura che il Governatore, qualora mi rifiutasse a Rounon, scriverà una lettera in grado di accreditarmi presso altri capi tribù, senza che mi arrestino.
Mi racconta che il re di Nyarong ha combattuto a Lhasa contro gli inglesi, e che dispone di fucili russi. Lui stesso lo ha affiancato: da lì ha raggiunto Dardjeeling e Calcutta. Gli europei non lo sorprendono.
Lungo la strada incontriamo una brava donna che guida le mandrie di Merkang. Si scusa con tale volubile grazia che ci mettiamo a ridere. È raro che il viaggiatore e il nativo ridano all’unisono, di solito ridono l’uno dell’altro. Quanto a me, non colgo alcuna dissimiglianza, se non nel vestire, tra quest’uomo e un francese. Vivendo da solo tra tibetani, la differenza razziale scompare con una rapidità che mi stupisce. L’abitudine me li fa scoprire anche fisicamente simili a noi, e moralmente identici: ridiamo e piangiamo per le stesse cose. Solo i passanti, i passeggeri, i disattenti, che valutano la superficie, credono che gli asiatici abbiano un cervello costruito diversamente dal nostro. I costumi, l’educazione e le religioni hanno dato alla stessa anima aspetti diversi. Con un compagno di viaggio, le impressioni sono meno estreme. I punti di confronto sono ravvicinati, ogni critica è un confronto. Quasi ci si stupisce che il lutto vesta di rosso a Venezia e indossi il bianco in Cina.
Quando si viaggia da soli, si finisce per essere influenzati dal paese di cui si è imparata la lingua. La vita in Europa pare un sogno lontano, una vita precedente vissuta in un altro mondo, di cui mi stupisco di conservare ancora bagliori di memoria. La personalità è divisa. Il francese ha fatto un passo indietro e lascia il posto a un indigeno, seduto sulla seggiola del mio cuore. Scopro, così, di non temere la morte, di non indignarmi per una tortura, ma di credere nel destino, di temere, improvvisamente, gli dèi e la loro perseverante presenza.
Jacques Bacot