03 Febbraio 2020

“Ci fu un tempo in cui Dio non aveva nome”. Isacco di Ninive, l’eremita amato da Dostoevskij e da Battiato, nostro maestro

Nei ‘Karamazov’ appare, a un certo punto, la “raccolta dei detti e dei sermoni del ‘nostro timorato padre Isacco il Siro’”. Proprio quello, che passa avventato e inavvertito, è il cuore del romanzo, da cui esplode il pensiero di Dostoevskij, che bisogna penetrare il peccato per assistere alla luce, che dagli inferi non si può fuggire, occorre accarezzarli, sondare i desideri del mostro, leccare il fango.

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Il cuore del pensiero di Dostoevskij si riassume in questa frase, pronunciata dal monaco Tichon nei Demoni, e replicata in formule analoghe in quasi tutti i romanzi di D.: ““Peccando, ogni uomo pecca contro tutti gli altri e ogni uomo è in qualche modo colpevole dei peccati altrui. Non esiste un peccato individuale”. Nel numero XXVII dei Discorsi ascetici (cito dal testo a cura di M. Gallo e P. Bettiolo, edito da Città Nuova nel 1984), così dice Isacco il Siro, cioè Isacco di Ninive: “Io, poi, dico che anche quelli che sono battuti nella Gheenna sono tormentati dai colpi della carità… È turpe che uno pensi che i peccatori nella Gheenna sono privati dell’amore per il Fattore. La carità, infatti, è figlia della scienza del vero, che confessiamo essere data a tutti in modo universale”. Il bene è anche dove non crediamo che sia.

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Di Isacco si sa nulla: è dall’irriconoscenza che s’irradia il suo pensiero; è dal nugolo del nulla che ci giunge il genio. Vissuto nel VII secolo, nato nell’attuale Qatar, fu detto vescovo di Ninive dal catholicos Giorgio, ma rifiutò il ruolo di istruttore delle genti, preferendo la solitudine, l’eremitaggio, la cinghia del rapporto intimo con Dio. Così dicono. Dice l’agiografia: “Infine fu privato della luce (degli occhi) e i fratelli mettevano per iscritto il suo insegnamento e lo chiamavano ‘secondo Didimo’, perché era mite, dolce e umile e la sua parola era piena di tenerezza”.

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L’ispirazione di Isacco è tanto luminosa da farci svanire. Proprio così: se lo leggi, il recinto di cemento della casa scompare, degli uomini amiamo perfino le meschinità, il nostro ego si riduce all’eco di una luce, annunciata millenni fa. “In ogni via di santità c’è per Isacco come componente essenziale un’esperienza che può qualificarsi come follia. Il santo è colui che non conosce né misura né vergogna, perché queste realtà non sono compatibili con l’amore”, scrive Sabino Chialà, straordinario studioso di Isacco, in un libro decisivo, Dall’ascesi eremitica alla misericordia infinita. Ricerche su Isacco di Ninive e la sua fortuna (Olschki, 2002). Al pensiero, fa seguire una citazione da Isacco: “L’amore non conosce la vergogna. Per questo non sa darsi una regola o un ordine alle sue membra. È naturale per l’amore il non vergognarsi e il dimenticare la sua propria misura”. L’icona del ‘folle in Cristo’, un canone nel grande romanzo russo da Tolstoj a Pasternak, è letta con ulteriore tenerezza.

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Quando studiai Isacco, mi sembrò ovvio radicare un eremo nella bolgia di Milano e perfino pensare a una rinuncia radicale, che consentisse alle nuvole di farsi scelta e pergamena. Il professore di letteratura cristiana antica, Remo Cacitti, a cui mostravo i primi esempi di incursione nei Salmi, chiamò un esperto di padri siriaci da Roma, dalla ‘Sapienza’. L’esame durò tra la casa del prof e l’aula universitaria. Continuò, intendo, per qualche ora. Ero magnificato – il voto non mi diede soddisfazione (ma forse occorre sferzare l’orgoglio con una insidiosa umiltà). D’altronde, c’era il richiamo, radicale – “Che l’uomo cerchi Dio con tutta la sua forza e si affretti alla ricerca di lui in modo totale, al punto da non esitare neppure a spogliarsi della sua vita, deponendola a motivo dell’amore di lui” – e quell’ostinazione a non sgravarsi del male, la scelta di incaricarsene: “Non odiare il peccatore, noi tutti siamo debitori. Piangi di lui. Perché lo odi? Semmai, odia i suoi peccati. Prega per lui, per essere simile a Cristo il quale non si adirava con i peccatori, ma pregava per loro”. C’è qualcosa di ingenuo e di feroce, in Isacco.

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Il discorso sul peccato giunge a tensioni insopportabili per i cristiani da gita al lago: “Egli innalza colui che agisce empiamente e bestemmia; solleva la polvere inanimata rendendola creatura gloriosa, intelligente e razionale… Dov’è la geenna che ci può far soffrire?… Questa è la retribuzione dei peccatori: invece di retribuirli con la giustizia, egli li retribuisce con la resurrezione; al posto dei corpi che hanno calpestato la sua legge, egli li riveste della gloria della perfezione”. Le Edizioni Studio Domenicano hanno raccolto i Discorsi ascetici di Isacco, da poco, nella traduzione di Maria Benedetta Artioli e il testo critico di Marcel Pirard.

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In uno degli album più belli di Franco Battiato, Giubbe rosse (1989), che sistema le registrazioni del tour per teatri legato a Fisiognomica (1988), appare Isacco di Ninive. È citato nella canzone Mesopotamia, appare in un groviglio di versi, questi:

…dormo spesso dentro un sacco a pelo
Perché non voglio perdere i contatti con la terra

La valle tra i due fiumi della Mesopotamia
Che vide alle sue rive Isacco di Ninive

Che cosa resterà di me?
Del transito terrestre?
Di tutte le impressioni che ho avuto in questa vita?

La canzone, Mesopotamia, è la rielaborazione di un’altra, Che cosa resterà di me, scritta da Battiato per l’album Dalla/Morandi (1988). Costantemente Battiato cita Isacco tra le sue letture. Mi domando perché non si parli di Isacco di Ninive in tivù, ovunque, perché ogni sua frase ti azzoppa e ti gloria: “Questo mondo è la palestra della lotta e lo stadio della corsa; e questo tempo è il tempo del combattimento. E il luogo del combattimento e il tempo della lotta non sono soggetti a una legge”. Ma forse esistono parole che possono risuonare soltanto se si fa grotta del proprio corpo, alcova per il lume della propria bocca?

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“Ci fu un tempo in cui Dio non aveva nome, e ci sarà un tempo in cui non ne avrà”. Arpionato qui, dove non si sa chi chiama, chi è chiamato, e il cenno sbanda gli alfabeti, l’esigenza di aggettivare. (d.b.)

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Anche se ci fu un tempo in cui la creazione non esisteva ancora, tuttavia non ci fu un tempo in cui Dio non provava amore per essa; poiché, anche se essa non era venuta all’esistenza, tuttavia per Dio non ci fu un tempo in cui la creazione non era nella sua conoscenza.

Il bene è posto nella natura dell’anima così come il fuoco è posto nella natura delle pietre e del ferro; esso ha bisogno di chi lo muova, e questo è la grazia di Dio e l’esortazione dell’uomo.

Sii fedele alla lettura, nella quiete, per essere sospinto nello stupore, in ogni tempo.

L’uomo che non conosce se stesso è un uomo perduto.

Vuoi tu conoscere l’uomo di Dio? Impara a discernere dal suo continuo silenzio, dal suo pianto e dalla sua assiduità con se stesso.

Se tu ami la verità, sii amante del silenzio… Il silenzio ti unirà a Dio.

L’uomo che è giunto alla conoscenza della propria debolezza, è giunto al fondo dell’umiltà.

Colui che è scosso dai peccati, passerà anche per luoghi spaventosi, senza inciampo; e nel tempo della tenebra, in se stesso troverà luce.

Non ti dispiaccia di morire a causa di quelle cose per cui vuoi vivere.

La perfezione della vita è il morire di una morte volontaria.

Non può avvicinarsi a Dio se non colui che si allontana dal mondo. Migrazione però: io non parlo di distacco dal corpo, ma dai suoi desideri. Questa è la virtù: essere, nel proprio pensiero, vuoti di mondo.

La solitudine ci rende partecipi della mente divina e, in poco tempo e senza ostacoli, ci avvicina alla limpidità di pensiero.

L’umiltà nasce dalla conoscenza di Dio e di se stessi.

Sii un perseguitato e non uno che perseguita. Sii un crocefisso e non uno che crocefigge. Sii un oltraggiato e non uno che oltraggia. Sii un calunniato e non uno che calunnia. Persegui il bene e non la giustizia. La giustizia è estranea alla condotta del cristianesimo: non se ne trova menzione nell’insegnamento di Cristo! Sii amico di ogni uomo, e solitario nel tuo pensiero. Unisciti alla sofferenza di ognuno e nel tuo corpo sii lontano da ognuno. Non rimproverare nessuno e non correggere nessuno, neppure coloro le cui condotte sono molto cattive.

*I brani sono tratti da: Isacco di Ninive, “Un’umile speranza”, Edizioni Qiqajon, 1999, a cura di Sabino Chialà

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