29 Novembre 2024

“Non sono degna del mondo”. Nota intorno a un poema di Ilaria Palomba

Le parole hanno un tempo, non resistono alla vita. Dimenticate come la polvere, diventano il suolo del cosmo, scompaiono dall’orizzonte. Sono fatte di carne.

Sono creature divine, in fine.

Ogni parte della nostra esistenza ricuce frammenti. Tutto è nel frammento, invisibile agli occhi, alla mente, alle mani. Tutto rimane impresso e appaiono i giorni solo dopo il loro tramonto.

Che sia la notte il dominio di ogni convenzione, la regola che fa tacere il tempo durante il suo manifestarsi, il cappio che rende insalubre il sonno, il riposo prima del suo eterno.

A chi va reso il silenzio? A noi stessi, alla memoria degli assenti, al ritrovo delle luci che festeggiano il loro accendersi, il loro farsi umane? Nulla potrà indicare la risposta.

Siamo i custodi di un nome che si fa lama, tagliente aguzzino, filo invisibile che non lacera il volo, al contrario lo rende infinito.

Siamo il tempo di un volo, il battito delle palpebre come ali sciolte sotto un sole ignoto.

Siamo morte e poi vita, come fosse profezia raccontare un’altra parte di noi, segreta, circonflessa tra sillabe che danno inizio e termine al nostro vissuto.

“,,,,,,,,,,,,,,
 Non sapremo mai di questo svanire
non sapremo l’implacabile morte
il crollo dell’embrice sulla lingua
in te il padre perdeva e il reale

sbrindellava le voci – tutto il corpo –
la tua forza si estingueva nel volo”.

Quale peso ha il dolore? Quale è la misura del suo farsi carne e sguardo, pensiero e respiro?

È accanto ad un tempo senza dimensione che si anima il dolore, senza ombra e senza luce, in una luminosa assenza di parola che ne possa tracciare un percorso.

Quanti modi di aprire gli occhi ci sono? Ora uno, ma no, due tre quattro, tanti, quanti gli angoli feriti del corpo, dell’anima.

Un breve volo può non finire mai. Ha il tempo di una preghiera ripetuta fino alla soglia di un volto sconosciuto. Basta metterci una t, un volo si fa volto. La prima lettera di tempo trasforma un volo in un volto.

E tutto si adagia nei rumori nuovi dei letti accanto, in un isolato morire di un altro tempo.

Ma non si rinasce se non si è già vissuto, senza dire, nel silenzio di un tempo sconosciuto. Non si rinasce se il miracolo non ha lasciato i suoi semi nel letto abbandonato.

Ritrovarsi in un corpo spezzato è ritornare all’infanzia degli arti, lasciarsi guidare alla vita dalla voce del padre.  Senza fuggire, ma con dolore, parola colma di aghi e di suoni.

Non serve mentire per ritrovare la luce, serve uno sguardo che penetri nel buio della stanza. Uno sguardo che resti sulle pareti fino al risveglio dei sensi.

La sublimazione del dolore ha diverse forme. “….Restare sempre indietro mentre vi guardo voltarvi” è l’inizio del nuovo cammino, il movimento che diventa preghiera, gesto che annulla ogni Dio conosciuto e si fa parola nuova, silenziosa e senza violenza.

Imparare a parlare da sé, senza avere l’esempio della voce è come incontrare la vita nascosta che correva parallela al tempo. Il tempo che aspettava un piccolo volo.

Farsi parola d’altri poeti, nell’attesa di essere il proprio creato. Aspettare con la pazienza dell’ascesi   di essere la parola per gli altri. Essere poesia, atto che crea, che nasce, che diventa, essere vita prima del nome. Essere vita nel nome. Rinascere dal proprio utero, come un miracolo del verbo, chiedere perdono a nessuno degli assenti. Inchinarsi davanti “ai volti ricomposti degli altri, ai loro occhi…..” è trovare “l’infinitezza fatta a pezzi”.

I numeri hanno il loro senso, come nel giorno trentatré.

L’inizio di una alleanza con il proprio dolore, con le ferite che si fanno sudario e ritornano intatte. E perenni.

Come un martirio che si libera dalla pena, e trova nel foglio l’impronta che sublima il distacco dalla morfina e dal “regno dei precipitati “.

Ritorna lo sguardo sul risveglio, sul ritrovo degli sguardi in un angolo della stanza, lungo i corridoi, nelle sale d’attesa dove si ricompongono le memorie spezzate.

Torneremo alla vita in silenzio”, nel giorno sessantasei le parole si perdono.

Lento ogni suono si sottrae all’ascolto prima di essere voce nuova, voce che rincorre il tempo del salto e ne abbatte i confini, lascia al corpo i segni della storia e del dolore.

“Cosa se non il margine?
Nessuna presenza.
Voce gracile dall’altra parete.
Non sono degna del mondo,
ma prendo l’amore sognato,
ne faccio una culla
e non chiedo
di svegliarmi.
La veglia è guardare
in fondo al corpo,
riconoscersi insaturi,
rivelarsi orrori.
Preferisco nascondermi
e non lasciar essere
l’assenza, mia gemella”.

Una densità di senso e di sensi che incanta la parola. È l’esito del tempo del volo e il suo nutrirsi, del tempo del volo e il suo dormire. È il giorno 81.

È il tempo delle parole finite, per lo sfinimento della ricerca, l’introvabile varco che narra il colore definito dalla vita e non dalla mente.

Lasciarsi andare lungo le navate della Basilica, nello spazio dei chiostri, ritrovare la geometria dell’esistenza, la tela su cui imprimere Ilaria, il suo suono nuovo.

Nico Mauro

*Questa nota è scritta per il libro di Ilaria Palomba, “Scisma”, Les Flâneurs edizioni, 2024

*In copertina: un’opera di David Lynch

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