
“Adoro andarmene”. Ritratto di Blaise Cendrars
Letterature
Marco Settimini

“Io non sono M.M.”: Marilyn Monroe, poeta
Poesia
Elisa Gonzalez
entrava quando lei era di turno. aveva imparato i giorni in cui sedersi e quelli in cui richiudere la porta. non ordinava mai da mangiare, non si erano mai parlati, solo il caffè. ma lei aveva imparato i gesti ripetuti: il pacchetto di sigarette sfilato al contrario dalla tasca. covava la Marlboro tra le dita, lasciando il cilindro sbriciolarsi, e beveva il caffè nel cappotto, compiuto nei due metri quadri tra la sedia e la parete di un tempo indeterminato, non pervenuto. parlava a qualcuno che gli era seduto davanti, sulla sedia vuota. aveva pensato che l’impalcatura sulla schiena fosse il bauletto dei lutti; poi con il tempo aveva capito che era la custodia delle ali di Hank; che sotto il cappotto fossero rannicchiate le ali di Hank. a volte si distraeva per qualche minuto per spuntare le ordinazioni o andare in bagno, e quando tornava con lo sguardo Hank era volato via. pagava sempre in anticipo, per poter sparire libero. Jeanne intuiva la costrizione degli arti slogati sotto il cappotto. si chiedeva dove, si dispiegassero. immaginava una strada. la strada. il Broadway Boulevard di notte. Hank avrebbe iniziato a correre tra i cordoli della soglia pista illuminata, sparite le insegne, i negozi, tutto il posticcio, le ali a mordere la strada nuda e correre urlare la sua voce disfarsi nello stridìo di un immenso rapace argentato e le ali a smuovere accanite immense e sollevare i piedi da terra nella sincronia di una macchina santa. il battito delle ali d’angelo è un coito cupo, serve un orizzonte verticale per sbrigliarlo in canto irrorato. salire come fosse l’ultimo atto. gli avventori non vedevano; entravano con le loro maschere, ognuno con la sua radioattività nascosta. c’era anche chi non era radioattivo, chi era solo ingombrante, inerte; nessun avvento, nessuna spada di rivelazione. Jeanne li riconosceva, gli alati, sul marciapiede; qualcuno si era seduto ai tavoli del diner, qualche cherubino. Hank era un arcangelo, lo aveva capito dalla prima volta; un mutilato dalla grazia, quella degli animali concentrati a morire. chi mastica non la vede, la grazia, e Hank non voleva farla vedere. quando il suo tavolo era occupato da altri, sgraziato, sembrava che tutto avesse smesso di respirare.
lei sapeva cos’è, Non respirare. « I live by the river/And I hide my house away/Then just like the river/I can change my ways/ ».tampax. croccantini.
Patrick aveva scritto sulla lavagnetta della lista della spesa. in casa eravamo tre. io, Patrick e la voce di Tim. a letto avevamo parlato della gatta della vicina. io, gli avevo parlato della gatta della vicina. di solito passava il pomeriggio sul vialetto del giardino ma quel giorno scorreva su e giù sul davanzale della cucina. scorreva e girava, scorreva e girava, danza strana. avevo aperto gli occhi alle tre, perché non riuscivo a respirare. il cuscino di Patrick era vuoto. il bagno era vuoto; la cucina era vuota; il garage era vuoto. il garage vuoto e ho pensato è andato ad ammazzarsi. ho aspettato sul dondolo in veranda fino alle sette, poi ho chiamato il 911, perché era andato ad ammazzarsi. mi hanno detto di aspettare. aspettare. e la sera ho chiamato. l’hanno trovato nel Passaic, a Newark. Patrick era un nuotatore. per non nuotare è entrato nell’acqua legato a un macigno di fentanyl. quando mi voltavo e vedevo che Hank era andato via mi si gonfiava in bocca il cuscino vuoto.
Jeanne faceva collezione di angeli. aveva allestito la credenza in cucina, un altare segreto per i giorni difficili, e chiudeva le ante. angeli di vetro, di legno, di zucchero, provenienti da luoghi estremi e paralleli. le promozioni di Walmart, i girotondi a fisarmonica delle feste di compleanno, le statuette del presepe di Natalino.
Nat era arrivato a Paterson nel 1959. veniva da una città dell’Italia dove si fanno i confetti. suo padre montava il presepe tutti gli anni, per ringraziare il Signore di aver fatto nascere l’ultimo figlio lo stesso giorno suo. si faceva il presepe per cacciare gli spiriti maligni e purificare la casa per l’anno nuovo. Nat conosceva i nomi degli alati di ogni sfera, perché ognuno aveva un compito diverso, diceva. ogni 25 dicembre a mezzogiorno mi regalava uno dei suoi angeli di cartapesta, gli intermedi. prima di andare mi metteva in mano una manciata di confetti e me la richiudeva con le due mani. per la protezione dell’angelo, diceva.
non c’era differenza tra Hank e il suo angelo all’uncinetto o in pasta di pane. lo aveva sistemato sul comodino, su un letto di rose. era cosparso di chiara d’uovo; al buio riluceva, tra i petali secchi. un’altra cosa che Jeanne sapeva fare era imparare poesie a memoria. lasciava cadere i suoi santini alla fermata della corriera, in fila alla posta, tra i tavoli del diner: Withman, Cummings, Williams, Sexton, Dickinson, Waldman. se Hank non fosse stato un angelo sarebbe stato un poeta, uno di quei poeti da crocicchio, come quelli del cerchio magico di Ginsberg. anche lei ogni mattina restaurava la sua maschera. si truccava alla luce del bagno, ghiaccia come le pareti. a volte usciva con un occhio più spesso dell’altro e si rifaceva la matita in corriera. quando il cuore non c’era per alzarsi, per vestirsi, il rossetto di carta vetrata le incideva i tratti di un’estranea. poi tornava il sole nel muro, cuore e rossetto assortiti. appuntava gli eventi di Hank del giorno prima appena si alzava, alle quattro, inseguendo gli ultimi fuochi del sonno, prima che i talenti svaniscano con l’aculeo del giorno. scriveva al presente, retrodatato.
14 febbraio
tiene il bicchiere del caffè con le due mani; non lo tiene mai con le due mani, mai.
12 aprile
non trova l’accendino; strofina i piedi uniti. non lo trova; tiene le braccia ferme sul tavolo.
23 maggio
esita, prima di sedersi; come una vertigine.
14 giugno
oggi è arrivato tardi; il suo tavolo è occupato. aspetta in piedi; senza casa.
7 ottobre
è la prima volta che lo rivedo dal 14 giugno. forse era in vacanza dai figli. o in ospedale; mi è venuto così, l’ospedale.
se gli avessi recitato Cummings sarebbe andata diversamente?
9 ottobre
ho provato, a dirgli qualcosa. chiedergli se volesse mangiare, chiedeglielo io.
non mi viene cosa mangi, dove. forse per strada, e non c’è nessun figlio. forse qualcuno è morto.
non vuole mangiare.
non saprò dove mangia di nascosto.
11 novembre
fa sempre lo stesso numero di passi per andare al suo tavolo.
stretti, per farne dodici esattamente.
con chi è venuto mentre lavoravo ancora al Walmart?
15 novembre
estrae un origami dalla tasca. è un cigno.
depone l’amuleto sul tavolo.
18 novembre
una manciata di castagne appassite.
le immagino nel cestino di una cucina che era abitata.
23 novembre
appunta qualcosa su un pezzo di carta. mi accorgo che lo ha lasciato sul tavolo.
è per me. è per me?
tra poco il tavolo sarà di nuovo occupato. non voglio rubare.
strofino le mani sui fianchi. è ancora lì, dono immeritato.
mentre mi avvicino, dai tavoli mi guardano; una vergogna mia.
mi sono seduta sull’altalena per leggere.
scrive spezzettato «Would you hide my fears and never say ‘Tomorrow I must go’».
tengo la carta appallottolata. non respiro, col cuscino vuoto.
lo sa anche lui che significa Non respirare.
1 dicembre
mi guarda più a lungo del solito.
da un po’ di tempo gli porto il caffè senza che me lo chieda.
lo sa che ho preso il foglietto.
ora abbiamo una vena in comune.
Ieri era l’8 dicembre.
scrivo ieri, al futuro.
ho visto quel giovane entrare e raggiungerlo al tavolo.
ha aspettato che si sedesse, e basta.
il giovane chiede lo stesso caffè.
Hank ascolta e fuma.
11 dicembre
ha portato dei vecchi ritagli di giornale. li posa sul tavolo.
il suo ospite è in ritardo; entra apprensivo e inizia a leggere.
Hank gli chiede di lasciare i ritagli sul tavolo.
li ritiro senza patemi; prendo confidenza, ma accorta.
La Voce Italiana di Paterson, 17 febbraio 1973.
una donna e una bambina morte nel Passaic.
Rose Maloni, nata a Newark il 24 luglio 1943.
Gwendaline Maloni, nata a Paterson il 12 ottobre 1969.
Rose. moglie di Anthony Maloni.
Gwendaline. figlia di Anthony Maloni.
Hank si chiama Anthony.
non c’è, l’alternativa; non è mai esistita.
glielo ha dato Rose, il Valium. per una madre un calmante non è una droga;
è per chiedere perdono di stare sole in mezzo all’acqua.
tenuta addosso mentre svaniva.
Patrick invece se ne è andato orfano, con la sua pietà.
avrà trovato il bagno vuoto anche Hank.
la luce fioca non pretende il cuore sul pezzo.
conto lentamente, per togliermi da lì.
12 dicembre
mi chiede il nome. come un suono d’infanzia tra i lupi.
dopo Rose e Gwendaline ha bruciato tutti i nomi.
non mi dice il suo, sa che ho un mio alfabeto.
15 dicembre
gli porto il caffè; mi guarda con quello che gli resta e dice JEANNE.
non so dove lo pronuncerà, fuori da qui.
il giovane apprendista ha portato un registratore. per il rumore della grazia.
come se si potesse trattenere.
non avrebbe ottenuto nient’altro da Hank. non si discorre, con Hank.
Hank non conversa; non tende a nulla; si consuma in pace,
come il cilindro; come la parete; come lo scorrimento.
non ci sarà nessuna voce nel registratore.
il ragazzino potrà solo impregnarsi di odore di grazia; preciso indelebile di morti acerbi.
odore di fondamenta.
otturati gli orifizi, sigillati i vestiti, sgorga dalla pelle, dai capelli, dalle unghie, l’odore, colla insolente. coibenta i muri, i mobili, i bicchieri; tatua l’ultimo letto. una sera lo aveva sentito spillare mentre scendeva le scale, il tempo che una luce fendesse la parete del soggiorno. nel lampo aveva rivisto Sarah James sui gradini di legno della veranda. le aveva detto che il padre la toccava; da quando ne aveva otto, sei anni solo-sopra. che sua madre lo sapeva che non era niente le aveva detto sua madre.
mi aveva guardata sorridendo con l’incisivo suo accavallato, e aveva ripetuto solo-sopra e avevo sentito un odore acidulo entrare di biancore decomposto. quella notte si era impiccata all’olmo bianco. ché suo padre la ammirasse intera; per farla scendere avrebbe dovuto abbracciarla.
I got you, Dad.
discernere gli odori è un’arte di sacrificio. si accetta di sedersi sull’autobus accanto a sconosciuti e di farsi baciare dallo spurgo. è il patto con nostra signora; mercanteggiare dalla trincea quanto assorbire e quanto rifiutare; calibrare la dose di veleno che salva. ogni giorno strappare alle sue unghie laccate un lembo rossiccio di carne propria, lasciare qualche tomba senza nome. la donna alla drogheria di Bob Sullivan le era passata davanti come si sfoglia una blatta sovrappensiero. nel 1962. Jeanne aveva sentito nel naso il pizzicore di canfora e aveva sussurrato 1977. il 2 marzo 1977 Mary Walker morì in un incidente stradale a Suddle Brook con la testa aperta. e la conta delle poltrone al Fabian Theater, la balena in cui risuonava il Wurlitzer Mamooth, prima del cinema per famiglie. rettangolo e sipario sono organi incompatibili. le matinées con la platea scarsa, ma a volte andava la sera con le poltrone piene, per baciare l’insana notte che sferza il tepore viziato dell’ultimo spettacolo. lì tempestava la mitraglia luminosa dei giorni di giudizio.
il bagno delle donne, per esempio. dal modo in cui aprivano la porta capivo se erano un segno d’acqua o uno di fuoco, se slogavano il cambio della macchina, se sfilavano spesso le calze. ma non potevo fare distinzioni. mentre mi sfioravano per andare a strofinarsi le mani sotto al rubinetto il pallottoliere svelava la combinazione. 1969. 1975. 1980. 2002. le vedevo curve sul lavandino; impegnate, la schiena piatta disinvolta senza ali. alcune sarebbero state strappate al torpore durante la settimana. una vertigine di onnipotenza, scegliere di tacere o di annunciare. una volta presa la postazione dimenticavo tutti quei numeri; per non dare tempo alla canfora di penetrarmi, di farmi arruolare. con gli anni avevo imparato ad alzare le paratìe, a mantenere la posizione: guardarsi intorno e ripetere i nomi comuni di cosa, concentrarsi sui volumi che nostrasignora non aveva ancora accarezzato; i sostantivi compatti. gli aggettivi sono volubili, transitori. i sostantivi no; danno lo stampo, allontanano l’odore acre. la coda dell’odore di grazia è odore di spurgo; la coda dell’odore di spurgo è odore di grazia.
Hank secerneva l’unguento nelle giunture delle ali. il ragazzino poteva solo imparare a impregnarsi, un caffè dopo l’altro, un ritardo dopo l’altro; in ritardo. pensava ancora la grazia una commissione per adepti della buona volontà. invece serve passività; non prendere iniziative, ravanare nello spurgo fino a quando non si diventa autonomi nel distinguere tra difficoltà e disperazione. serve tempo, cadute di femore; e lui odorava ancora di sano, privo di olfatto. non lo sentiva il fetore di giunture cariate, lui oliato dalle cordialità. Hank gli stava passando la lezione della vita: imbeversi da infermi affinché la grazia possa colare; non ritenersi più aggraziati della sedia o della tazza del caffè; farsi rene del creato. quando fissava la parete parlava con lei. gratia plena.
l’avevo seguito, sgretolarsi, a piccoli sputi di calce; i movimenti banali diventare impegnativi, lenti, e più lenti gli inverni. gli avevo attribuito una canizie, una carenza. da quando Rose e Gwendaline erano entrate nell’acqua era stato un muto esercizio di perfezione di cui l’apprendimento dei miei giorni di turno era parte. un addomesticamento, una disciplina. ripetere impercettibilmente. un’opera di degenerescenza libera dal rimpianto. splendere di rovina compiuta.
Jeanne lo sentì che quella mattina sarebbe stata l’ultima; che non l’avrebbe più visto aspettare in piedi, gli occhi due cicatrici, parati allo squarcio. da qualche giorno la chiamava al tavolo per lasciarle i soldi del caffè. per avere dei ricordi con lei. ogni mattina cercava di mettersi qualcosa di diverso. anche una tonalità di rossetto fa la differenza. accanirsi con pudore. immaginava Hank con le dita che inciampano sui bottoni. l’euforia del sogno appena fuggito: se lei avrebbe portato pendenti, l’ombretto azzurro o smeraldo. ogni mattina dipingeva lo spettacolo nuovo. sapeva dalla prima volta che l’aveva visto entrare che gli sarebbero rimasti pochi anni. aveva coperto subito la data con la mano, ma ormai l’aveva vista. per questo non si soffermava ai tavoli. prendeva le ordinazioni; rapidamente; le portava, rapidamente. prima che la visione prendesse i contorni. guardava in viso soltanto i suoi angeli di carta, in un territorio lontano. sapeva di avere una responsabilità verso ognuna delle persone che entravano. le accoglieva ricacciando in un posto oscuro il barbaglio affilato della data di chi era uscito senza pagare, di chi si era lamentato della qualità del caffè. intenta nel rilascio, nella purificazione. occupata a cancellare le tracce, gli odori; in penitenza. la piegavano, tutte quelle morti incombenti. in altri tempi le era piaciuto, guardare le schiene curve sui lavandini, indifferenti al disastro. una volta Sarah James le aveva chiesto se le succedesse mai di vedere esplodere la gente alla fermata dell’autobus; se avesse mai voluto che qualcuno esplodesse davanti a lei. Sarah premeva sul detonatore ogni giorno per fare la crosta; quella dedizione costante alla vendetta l’aveva indebolita. lei invece sapeva aspettare, preservarsi. eppure ora il senso di onnipotenza del cuore fresco era sfumato. nostra signora si era presa gioco di lei; le aveva fatto credere di avere un giudizio autonomo, di essere autosufficiente mentre le caricava i lombi con le bisacce di pietre delle ultime chiamate, senza sporcarsi la vernice delle unghie. annunciare significava dare ai listati la possibilità di riconoscere il tempo che rimaneva; di non rimandare, di non abdicare alla gioia, di non consumarsi a infilare i tacchi in ascensore, andare in pausa pranzo col timore di trovare gli scatoloni impilati nell’ufficio vuoto e un coccodrillo della direzione sulla scrivania. e allo stesso tempo significava precipitarli, scippare loro con quattro numeri anche quella vita ignara di sprechi. per nostra signora lei era manovalanza per sgomberare le scorie. con Hank era già successo tutto sulla porta, la prima volta. aveva sorvolato con lo sguardo tutti i tavoli senza muoversi, e lei aveva avuto il responso. in quegli anni aveva cercato di nutrirlo, senza annunciare. Hank l’aveva capito che era incaricata. l’aveva vista, la data.
quell’ultimo giorno Jonathan arrivò prima; molto prima.
non era neanche andato a sedersi. era venuto verso di me e mi aveva chiesto se fosse successo qualcosa. era l’ultimo dono di Hank, temprarlo all’assenza. lo vidi seduto per quasi un’ora; poi si alzò e uscì in strada, prima di sedersi di nuovo al suo posto. Hank entrò verso le undici. rimase in piedi davanti a Jonathan e tenendo il braccio in alto svuotò sul tavolo una busta piena di biglie. un’armata di occhi di vetro che sciamavano a terra e rotololavano sotto i tavoli come una collana spaccata. trasparenti, opache bianche a spruzzi verdi o celesti, blu a pagliuzze dorate. qualche cliente si chinò a raccoglierle, altri le spazzarono col piede per farle scontrare e schizzare via. sentii nella testa lo choc ossessivo delle clackers. polsi lividi e tutto scoppia e rimbalza.
qualcuno provò a restituirgliele ma Hank si schernì. uscivano con le tasche gonfie, come furti attempati di biscotti.
così Hank gridò il nome di Gwendaline.
poi ripiegò la busta, mise una mano sulla spalla di Jonathan e si diresse verso l’uscita. alcuni clienti erano ancora sotto i tavoli. bambini finti a rastrellare rossicci quelle incastrate negli angoli, quelle che non volevano avvicinarsi. non volevano. corsi fuori; per dire a Hank di tornare, domani. lo vidi camminare lentamente sul marciapiede, e non aveva più il cappotto. il montarozzo doloroso, scoperto, era una vescica slabbrata da due pale vellose grigio-azzurre. sfiorava i passanti, e loro non si accorgevano di essere raccolti nell’immensa culla. dove avrebbe mangiato? gli orecchini, il rossetto arancio, i braccialetti fosforescenti: cibo scaduto. tornai dentro. Jonathan era ancora seduto in mezzo al cumulo di rovine. lo sbrego nel muro giallo senape scendeva sul pavimento fino alla commissura delle natiche screpolate di chi raspava le ultime biglie. la scriminatura unta di Joe dietro al bancone sempre dalla stessa parte nessuna sorpresa nessuna sorpresa. come sostenere, ora?
dopo ognuno fa con mezzi propri: la meditazione, i miracoli, la matematica.
ma in principio è la grazia.
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Alcuni anni fa ho lavorato come editor al romanzo di Gilles Farcet La joie qui avance chancelante le long de la rue. Fragments d’une parole Beat inconnue (Edizioni maelstrÖm ReEvolution, Bruxelles, 2017): la storia del vecchio Hank, «poeta senza bibliografia», uno di quegli angeli di carne che a volte passano sul marciapiede ignorati barcollando di grazia. Nel 1988 Hank si aggirava nella cucina della casa newyorkese di Allen Ginsberg. Per una settimana incontrò in un diner di Manhattan un giornalista francese venuto per intervistare Ginsberg e i resti del cerchio magico, quei «miti riacciuffati sul secolo calante», parlando a bassa voce di « fattori invisibili », di «vascelli improbabili», di «come i primi uomini chiamano la pioggia». Lentamente il giovane giornalista capisce che il vecchio è malato, che gli sta lasciando in eredità gli snodi fetenti della sua vita, gli strumenti fondamentali. L’ultima mattina, dopo che Hank sparisce su Prince Street affidandogli l’onore del conto, il giornalista, ancora stordito, chiede un refill alla cameriera, «Holly, secondo il suo badge». Questa presenza familiare e sconosciuta, che aveva vegliato sul passaggio di consegne guardandoli sedersi e aspettarsi, è racchiusa in poche lettere della terzultima riga. Ho cercato di immaginare chi fosse, Holly. Per me è sempre stata Jeanne, con quel nome da eternità.
Ringrazio Gilles Farcet e David Giannoni, editore di maelstrÖm ReEvolution, per aver accolto questo racconto di fantasia, ispirato al romanzo di Gilles; e Leonardo Luccone, per averlo letto e apprezzato quando era ancora una peregrinazione nel bozzolo. Le espressioni riportate sopra, presenti nel romanzo, sono state tradotte dal francese dall’autrice. I testi musicali sono tratti da The river e Phantasmagoria in Two, di Tim Buckley. Le illustrazioni raffigurano «L’angelo» di Mikalojus Konstantinas Ĉiurlonis (1905), «Interno dell’East Side» (1922) e «Le ombre della notte» (1921) di Edward Hopper.
Cristiana Panella
*Cristiana Panella (Roma, 1968) è senior researcher in antropologia sociale e culturale. Vive e lavora in Belgio. Dopo la laurea in Lettere Moderne in Sapienza, a Roma, si è trasferita a Parigi, dove ha ottenuto un master (DEA) in Storia dell’Arte Africana alla Sorbona per poi conseguire un dottorato in co-tutela europea (Paris 1 Panthéon-Sorbonne, University College London, Universiteit Leiden) in Scienze Sociali all’Università di Leiden, nei Paesi Bassi. Ha effettuato lunghi soggiorni di ricerca in Mali sul commercio clandestino di antiche terrecotte e sui cercatori d’oro, prima di dedicarsi allo studio del commercio informale a Roma. Attualmente la sua ricerca, multidisciplinare, è orientata sulle implicazioni etiche della corporeità. I risultati delle sue ricerche sono stati presentati in decine di pubblicazioni e convegni internazionali in Europa, in Canada e negli Stati Uniti. Di recente pubblicazione, il volume Norms and Illegality. Intimate Ethnographies and Politics (C. Panella & W. Little eds, Lexington Books, 2021). Parallelamente alla sua attività di ricerca, ha collaborato come editor e lettrice con la casa editrice di Bruxelles maelstrÖm ReEvolution, orientata sulla poesia performativa e la prosa poetica. Suoi testi di poesia e prosa, note critiche e traduzione di poesia inedita francofona sono stati pubblicati su retabloid e Atomi (Oblique Studio), Carte nel Vento, Pangea, La dimora del tempo sospeso (La foce e la sorgente), Scritture (blog di Marco Ercolani). Nel 2019 ha pubblicato per proprio conto il non-romanzo in cielo e in terra. Nel 2019 e nel 2021 si è classificata finalista per la sezione « una prosa inedita » del Premio di poesia e prosa Lorenzo Montano, di cui è stata membro della giuria critica nel 2020. Una sua raccolta inedita ha ricevuto la menzione speciale al Premio nazionale di poesia Arcipelago Itaca (2020).