La rivista “El País” l’ha definita maestra dell’impossibile con un titolo un po’ altisonante ma che si accorda bene ai contenuti delle poesie di Ida Vitale. A 95 anni, nel 2018, ha ottenuto il prestigioso Premio Cervantes (dopo aver già avuto, negli ultimi anni, una carrellata di premi non da poco come il Garcia Lorca nel 2015 e il Reina Sofia nel 2016), la quinta donna a vincere il prestigioso premio (istituito nel 1976). Dopo aver ricevuto la telefonata in cui le si annunciava di essere stata giudicata vincitrice, ha risposto: “Los españoles están igual de locos que en la época de la conquista”.
Ida Vitale nasce nel 1923 in Uruguay, a Montevideo, e avvicinandosi (furtiva, come forse sempredev’essere) alla poesia entra a far parte della ‘Generación del ’45’. La dittatura militare che siverificò negli anni ’74-’84 la obbligò a esiliarsi in Messico per poi far ritorno a Montevideo dove ritrova la sua amata libreria. È traduttrice e giornalista, ma soprattutto poeta, poeta fino al midollo, come lo sono tutti i veri poeti, che non smettono mai di essere tali anche quando fanno i giornalisti, i traduttori, mentre sistemano casa o si lavano i denti. Bompiani ci ha fatto un bel regalo quest’anno pubblicando la prima traduzione della poetessa in lingua italiana in un volume, Pellegrino in ascolto, che racchiude le più significative tappe del suo percorso poetico e una selezione di poesie da quasi tutte le sue raccolte.
L’antologia si apre con la prima pubblicazione della poetessa: La luz de esta memoria (1949) e già dal titolo si impone forte una delle tematiche che percorreranno tutta la sua attività poetica: la memoria è intricata, potente e fallibile. Ida Vitale lo sa bene fin dagli albori della sua produzione. Il tema della memoria se ne porta dietro altri due: limite e impossibile, che saranno le cifre più stringenti delle poesie di Ida Vitale, indagate in tutte le loro sfaccettature. Raccolta dopo raccolta il tema viene sempre più studiato, percepito e si fa più persistente, come un’ostinazione; se all’inizio si tratta di viuzze intricate, andando avanti si fa labirinto, buchi delle faccende quotidiane:
E sempre in mano tua un gomitolo
Senza mai smettere si avvolge
Come nei giri d’altro labirinto.
Ma non pensare,
non sforzarti,
tessi.
A poco vale ricordare,
cercare appoggio dentro i miti.
Arianna tu non hai riscatto
Né una costellazione per corona.
È lo scorrere del tempo in cui niente si trattiene che impedisce il formarsi di cose esatte, di un ricordo saldo e convinto dei suoi oggetti. E una capacità d’attenzione fuori del comune di cui la Vitale sembra essere fortemente dotata fornisce la possibilità di una meta-esperienza del quotidiano: lei si scansa per un attimo dall’istante per osservarlo, si fa pellegrino in ascolto, appunto, delle faccende d’ogni giorno per vederne chiaramente le aporie, le incrinature in cui la coscienza deborda, si disorienta e tenta di cercare “qualcosa d’intatto, esatto, affidabile/ per affrontare l’ombra”. Non a caso il tema del labirinto è centrale.
Il giorno un labirinto
dove pochi minuti soli
hai la luce.
Ti affacci allo scrittoio che beccheggia,
Guardi i fogli,
mari in disfatta
Lettere sghembe,
foglie d’un altro autunno,
L’agenda del giorno,
il labirinto
Dove hai avuto luce
pochi minuti.
Ma nella cecità, nella contraddizione: la parola. Parola che appunto permette di avere luce anche solo per pochi minuti e che Ida Vitale cerca incessantemente, come unico filo del gomitolo da dover riavvolgere: un imperativo per salvarsi. Nelle incomprensioni e contraddizioni in cui il giorno si sussegue solo la parola salva e per un attimo concede precisione.
Dalla memoria solo sale
Vago pulviscolo e profumo.
È forse la poesia?
Bianca Cesari