Anche Eugenio Montale si occupò di Cina. Lo fece, pare, distrattamente, per dovere editoriale; era il 1963, scrisse l’introduzione alle Liriche cinesi curate da Giorgia Valensin per la Nuova Universale Einaudi. In questo caso, a poco agio tra draghi, taoisti e paraventi, lo sguardo di Montale non è da poeta – dunque, da visionario –; si limita a ricamare tra le poetiche: “Limpidissime come sono, [queste poesie] sfuggono al metro nuovo che l’età cristiana ha regalato al mondo occidentale, e forse non solo a questo. Non è solo che manchi in esse quell’umanizzarsi del tempo e della natura e quella divinizzazione della donna che son proprie della lirica europea; è piuttosto che qui, come nel miracolo della scultura egizia e, in minor grado, in quello dell’arte greca, l’uomo e l’arte tendevano alla natura, erano natura; mentre da noi, e da molti secoli, natura ed arte tendono all’uomo, si fanno uomo”. Tutto bello, cristallino, disincarnato dalla vita, dalla storia, come se la poesia fosse extramondana, in teca, roba per poeti in estinzione: nella Repubblica Popolare Cinese, intanto, si era alle soglie della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria. Fu devastante.
Eppure, di fianco a Montale, rientrato in Italia da qualche anno, agiva Ezra Pound. Rispetto alla quasi totalità degli intellettuali e dei poeti del suo tempo, Pound aveva un’ossessione per la Cina. Certo, era un’ossessione, al principio, primariamente formale: Pound nasce poeta, in sostanza, con Cathay (1915), rivoluzionario attraversamento della poesia classica cinese, scoperta, qualche anno prima, insieme a William B. Yeats, trafficando tra ruderi letterari asiatici.
Col disgelo le acque rompono il ghiaccio
nel centro di Shoku, orgogliosa città.
È già segnato il destino degli uomini
Inutile consultare indovini.
Pound prosegue le sue ricerche studiando Ernest Fenollosa, insigne sinologo e – eccellenza non secondaria – professore di politica economica all’Università imperiale di Tokyo: L’ideogramma cinese come mezzo di poesia (Scheiwiller 1960; 1987) è maneggiato da ‘Ez’ come un trattato estetico (la dottrina dell’Imagismo, per dire, deriva da lì: rapidità ideogrammatica di immagine/senso/sensazione). La storia, la cultura, la poesia cinese irrompono nei Cantos ovunque, in particolare nella sezione “Rock-Drill”; quando, il 3 maggio del 1945, i partigiani lo prelevano a Sant’Ambrogio, il poeta “si mette in tasca il volume di Confucio che stava traducendo e li segue”: sarà la sua unica lettura nell’atroce gabbia pisana, il solo conforto negli anni abominevoli della prigionia, quasi l’estro di una disciplina, l’estratto. Presso le Edizioni Popolari di Venezia, quello stesso anno, Pound aveva pubblicato un testo di Confucio, L’asse che non vacilla, “che fu dato quasi interamente alle fiamme subito dopo la Liberazione perché sospetto di propaganda in favore dell’‘Asse’ Berlino-Roma-Tokio”. In un Postscriptum a Guide to Kulchur, Pound consiglia di usare “come sestante”, cioè come orientamento elementare, sufficiente, Omero, “i tragediografi greci”, la Divina Commedia; ma prima di tutti, su tutti, bisogna leggere “Confucio e Mencio”, perché “contengono le soluzioni di tutti i problemi di condotta che possono sorgere”.
Oggi – s’intende: da qualche anno – che la Cina fa paura, che Xi Jinping pare il dragone in grado di annientare i draghetti europei e di sbadigliare in faccia agli Usa, è bene ricordare che da più di un secolo il poeta ci intimava di guardare a Est; che da più di un secolo Pound ha indicato la via: guardate la Cina, studiatene i testi sacri, traducete Confucio, il pilastro dell’etica e della politica cinese. Cosa gli importava? La fusione, paradigmatica, tra governo di sé e governo di uno Stato, di un popolo; la concezione del rito e della tradizione; la poesia come atto puro, gesto che concilia la Terra al Cielo; la postura aristocratica – perfino spietata – nel rincorrere l’armonia; il ren, la “qualità umana”, il “senso dell’umanità”.
“L’uomo vero cerca tutto in se stesso, l’uomo meschino cerca di ottenere tutto da qualcun altro”.
“Il furbo non riconosce i decreti del cielo, è impertinente con i grandi uomini e disprezza le parole dei sapienti”.
“Non conoscere le parole significa non possedere il fluido necessario per conoscere gli uomini”.
Questi sono alcuni frammenti dagli Analecta, raccolti da Pound nel 1951 e tradotti da Scheiwiller – a cura della figlia, Mary de Rachewiltz – nel 1995: un compendio straordinario per capire la Cina di adesso più che quella di allora. In The Classic Anthology defined by Confucio (Harvard University Press, 1954), invece, Pound lavora nell’immane repertorio di poesie classiche, canonizzate da Confucio. Il libro fu pubblicato come L’antologia classica cinese, ovviamente, da Scheiwiller; a curarlo, Carlo Scarfoglio, già direttore de “La Nazione” e de “Il Mattino”, figlio di Matilde Serao, autore, in quel contesto, tra l’altro, di una Apologia del traduttore piuttosto appassionata:
“Io tradussi una ventina circa di Odi parecchi anni or sono, quando, avendo visto, assieme con Mary, la figliuola del poeta, fallire tutti gli sforzi immaginati per creare un’atmosfera di miglior giustizia intorno al poeta, vittima di accuse la cui falsità non ha ormai più bisogno di esser dimostrata, proposi di cercare almeno di confortarlo nella sua prigionia, traducendo alcune delle Odi, cercando di pubblicarle in qualche rivista, e quindi mandandogliene gli estratti, affinché dal mondo esterno gli giungesse prova che egli era ancora amato e ammirato per il suo lavoro umanistico più bello e più puro”.
Capì perfino, Pound, che la pratica etica può essere coercitiva: che si uccide col sorriso, per un bene superiore. Capì tutto, in effetti. Naturalmente, questi libri, come gli studi di Pound sulla cultura cinese, sono svaniti dal convegno editoriale.
Eppure, nel 1974, poco dopo la morte di ‘Ez’, Feltrinelli (Feltrinelli) pubblicava uno studio di Girolamo Mancuso – traduttore, tra l’altro, di Tagore e di Tutte le poesie di Mao Tse Tung – su Pound e la Cina, inteso a sviscerare “la via poundiana alla Cina… ma anche una rigorosa ricostruzione dell’itinerario ideologico che porta da Confucio a Mussolini”. Scomparso pure questo. Non ci resta, allora, che annaspare, speculando intorno a Xi, al ‘gigante cinese’ e al bla bla irritato dalla cronaca; continuiamo a perpetuare l’‘attualismo’ nei riguardi di un paese che ragiona per piani secolari, sull’obice dei millenni.
“Se le nostre università valessero un soldo di cacio, avrebbero fatto qualcosa… Milioni sono stati spesi per incretinire l’educazione. Non c’è motivo, a parte usura e odio per le lettere, per privare alcune centinaia almeno di poesie e il Ta Hio di una edizione bilingue… L’infamia dell’attuale sistema monetario non si ferma alla cattiva nutrizione delle masse; si estende fino alle più remote fessure della vita intellettuale, anche dove i vigliacchi si sentono al sicuro, anche se gli uomini di scarsa vitalità credono che di noia non si muore. Lo stato degli studi cinesi in Occidente è vomitosamente squallido… i professori inglesi e americane sono talpe”:
così scriveva Pound, molti anni fa. Abbiamo preferito, ancora una volta, non crede al veggente, al poeta.