“Baciando l’Ape Regina, la Vita!”. Piccolo discorso su Edgar Lee Masters
Poesia
Massimo Triolo
Esercizi di ammirazione: René Char, Julien Gracq, Saint-John Perse
Cultura generale
Per celebrare l’anniversario di questa nascita, bisogna partire dalla fine, dalla morte. Il 13 luglio del 1929 il figlio di Hugo von Hofmannsthal, Franz, si ammazza. Si spara un colpo in testa nel palazzotto di Rodaun, la dimora di famiglia, in campagna, appena fuori Vienna, dove il padre aveva ospitato, tra gli altri, Rainer Maria Rilke – incoraggiandone il talento –, il conte Keyersling, Franz Werfel, Thomas Mann. Il titolo nobiliare era stato conferito al bisnonno di Hugo von Hofmannsthal, Isaak Löb Hofmann, ebreo di Praga che aveva fondato in Austria un piccolo impero di fabbriche per la lavorazione della seta. Lo stemma recava inciso il baco sopra una foglia di gelso e le tavole della Legge. Nel sangue del poeta scorreva anche sangue italiano: il nonno, August, convertitosi al cristianesimo, aveva sposato a Milano Petronilla da Rho, nobile lombarda. Al poeta, da ragazzo, piaceva vagabondare nei dintorni di Varese in bicicletta.
Con la consueta, cristallina levità, Hugo von Hofmannsthal scrive della morte del figlio all’amico Carl Jacob Burckhardt. Gli occhi del poeta erano posseduti da una profondità terrificante.
“Avevamo fatto colazione insieme – in pace e armonia. C’è qualcosa di infinitamente triste e di infinitamente nobile nel modo in cui il ragazzo ha lasciato la vita. Non aveva mai saputo comunicare se stesso agli altri. Anche la sua dipartita è stata silenziosa”.
È sconcertante la nitida freddezza, la cura formale, con cui il poeta narra la morte del figlio. Il giorno dopo, il 15 luglio, Hugo von Hofmannsthal prende la porta di casa: deve presiedere al funerale del figlio. Fa per afferrare il cappello, lo coglie un malore. “Il cappello gli sfuggiva. Egli fece un gemito, vacillò, cadde, morì. Un ictus al cervello!”. Tre giorni dopo, il 18 luglio, scortato da migliaia di persone, Hugo von Hofmannsthal è sepolto nel cimitero di Kalksburg, di fianco al figlio.
L’episodio diventò leggenda: “una tragedia nel grande stile dell’antichità”, chiosa Klaus Mann nel romanzo autobiografico La svolta. Secondo lo scrittore, Hofmannsthal era stato visitato da un sogno profetico non molto prima della morte del figlio. Nel sogno, il poeta tenta, come tutte le mattine, di indossare il cappello – ma non ne è in grado. “Non che fosse appeso più alto del solito o che l’uomo fosse rimpicciolito; semplicemente il copricapo non si lasciava prendere. L’uomo, colto da un’ansia mortale saltava, balzava, tendeva le braccia; il cappello gli sfuggiva… Hugo von Hofmannsthal fu ucciso dal suo sogno e dal suo dolore”. Qualche riga prima, Klaus Mann scrive una frase lapidaria, pari a un cecchino. “Non è facile essere il figlio d’un genio”. Verità dal truce presagio. Il figlio di Thomas Mann, lo scrittore di Mephisto, si ammazza, a Cannes, nel maggio del 1949. Vent’anni dopo il suicidio del figlio di Hofmannsthal.
Prendiamo l’episodio di lato. Secondo Harold Bloom, la morte del “canone occidentale” accadrà quando non capiremo più i libri di Thomas Mann, quando sarà impossibile, per deficit linguistico e d’intelletto, confrontarsi con romanzi-mondo come La montagna incantata e Doctor Faustus. Secondo me, la fine della tradizione letteraria occidentale è cominciata quando abbiamo smesso di leggere Hugo von Hofmannsthal.
Nato centocinquant’anni fa, il primo febbraio del 1874, a Vienna, Hofmannsthal ha inaugurato la nuova era della letteratura europea. Precocissimo, firmava le prime prove liriche “Loris”: parvero, ai più, straordinarie. Hugo von Hofmannsthal era il ragazzo d’oro che con suprema leggerezza veniva a mozzare il capo al secolo, era l’icona del fatale puer evocato da Virgilio. Al giovane liceale si avvicinò il patriarca Stefan George, Stefan Zweig “parlerà di un miracolo irripetibile” (Giovanna Bemporad), Karl Kraus mise in armistizio il cinismo, omaggiando il poeta.
Nella Lettera di Lord Chandos (pubblicata nel 1902), Hofmannsthal prefigura la fine del rapporto tra le parole e le cose, la fine della possibilità, per l’uomo, di dare un nome alle creature del mondo, la fine del linguaggio fino ad allora noto:
“la lingua in cui mi sarebbe forse dato non solo di scrivere, ma anche di pensare, non è la lingua latina né l’inglese né l’italiana o la spagnola, ma una lingua di cui non una parola mi è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute”.
Il monito imposto da Hofmannsthal – la rinuncia all’impostura letteraria o la fondazione di una lingua nuova – sarà raccolto da James Joyce, Samuel Beckett, Hermann Broch e Louis-Ferdinand Céline, autori che hanno portato la letteratura sulla soglia del nulla.
Amava D’Annunzio – “la più grande forza poetica dei nostri tempi” – riservando critiche ai suoi romanzi; per Eleonora Duse scrisse la sua tragedia più bella, Elettra. La figlia di Agamennone, virginea e virile, sorretta dallo stigma della vendetta, “tremenda”, che “giace in cenci” (cito dalla bella traduzione della Bemporad edita da Garzanti), è indimenticabile. Votata al culto dei morti – memorabile la scena che narra l’amplesso con lo spettro del padre: “mi costrinse a sapere ciò che avviene/ tra uomo e donna” –, Elettra, implacabile menade, conosce il nulla, la vita violenta, l’andare delle bestie; osa “fissare il buio”. L’atto unico andò in scena il 30 ottobre del 1903, a Berlino, nel teatro di Max Reinhardt, dove, poco prima, era stata presentata la Salomé di Oscar Wilde. Fu un successo clamoroso – e l’inizio della collaborazione del poeta con Richard Strauss.
In Italia, Hofmannsthal ha avuto un capace discepolo in Alessandro Spina: che il più raffinato scrittore in italiano del secondo dopoguerra sia un siriano nato a Bengasi, la cui opera è oggi introvabile, è lo sdegnoso segno dello stato attuale della nostra letteratura. “Dei grandi del Novecento, Hugo von Hofmannsthal è quello in Italia più trascurato, forse perché estraneo al gusto della chiacchiera”, congetturava Spina in un articolo, diversi anni fa. In effetti, Hofmannsthal è edito, da noi, con rigorosa distrazione: il ‘Meridiano’ Mondadori che lo riguarda, curato da Giorgio Zampa, è lì dal 1972.
Cristina Campo recava un culto privato all’opera di Hofmannsthal, poi trapiantato nell’epopea editoriale Adelphi. La Ballata della vita apparente (“Che giova il tutto a noi…/ se siamo grandi ed in eterno soli/ e non poniamo segno al nostro andare?”) ha riverberi di cui sono impregnati le Elegie duinesi di Rilke, i Quattro quartetti di Eliot, i poemi di Saint-John Perse.
Di Hofmannsthal, forse, fa paura la figura eremitica, ieratica, eletta. In una conferenza del 1927, La letteratura come spazio spirituale della nazione (riproposta da Aragno nel 2019), Hofmannsthal parlava dell’“Antichità” come fondamento dell’“intelletto europeo”. Platone e Agostino, Aristotele e Tommaso d’Aquino
“rappresentano il mito della nostra ragion d’essere europea, la creazione del nostro mondo spirituale, il trionfo del cosmo sul caos, che racchiude eroe e vittima, ordine e trasformazione, misura e iniziazione”.
Credeva che il poeta, che “nessuno nota”, “battuto dall’ultima delle sguattere e additato ai cani”, è colui che “in grazia della lingua occultamente governa un mondo i cui singoli membri possono rinnegarlo… e tuttavia è lui che domina e regge la loro fantasia”.
Bollarono il dire di Hofmannsthal con l’etichetta “Rivoluzione conservatrice”, le sue altezze come le fole di un mistico infoiato. Piuttosto, la sua opera incarna il senso della regalità, parola negletta in questo tempo avvitato nel vile; e Hofmannsthal resta una presenza statuaria, a cui è bene consegnare le chiavi del proprio cuore.
*In copertina: Max Klinger, Secondo futuro, 1898