10 Gennaio 2021

“Nella storia del romanzo Henry James è da solo come lo è Shakespeare nella storia della poesia”

Difficile, al limite del temerario, dire qualcosa a proposito di Henry James, simply The Master. Leggerlo, e ancora di più rileggerlo, vuol dire restare annichiliti dalla meraviglia che sprigiona dalle pagine che ha scritto. Ogni volta che chiudo uno dei suoi libri resto in una fase di ottundimento, come ipnotizzato da quei bizzarri arabeschi disegnati dalla sua scrittura e ci metto un bel po’ a riprendermi. E poi parliamoci chiaro, come si fa a non essere innamorati di quelle figure femminili: dalla Catherine di Washington Square alla Isabel Archer di Ritratto di signora, dalla Milly Theale de Le ali della colomba alla Maggie Verver de La coppa d’oro. E su tutte lei, la straordinaria May Bartram del racconto La bestia nella giungla. Dovunque metti le mani peschi oro zecchino. Chissà dove sono nella vita vera donne del genere?

Meglio ricomporsi e fare finta di occuparsi di cose serie. E allora andiamo alla grande domanda. Qual è il nocciolo duro della narrativa di Henry James, la sua grandezza più grande? Se devo dire la mia, io mi sono fatto l’idea che James sia l’insuperato e insuperabile maestro dell’indefinito. Quella zona magica che sta sul confine tra il bene e il male, il vero e il falso, il certo e l’incerto. Là dove le ragioni del cuore e della mente si intersecano e diventano indistinguibili. Là dove non c’è spazio per chi ha le idee troppo chiare. Là dove regna Lambert Strether che nel cuor mi sta. Sto parlando del protagonista del romanzo Gli ambasciatori, che per molti versi è la Bibbia dell’indefinito jamesiano. Lui stesso lo ha definito: «Il romanzo migliore nella totalità della mia produzione» e non era un uomo che parlava a vanvera. Un capolavoro assoluto, dove l’ossimoro regna sovrano e tutto è limpidamente opaco, intensamente sfumato, esplicitamente involuto. Il punto G del romanzo sta nell’esortazione che Strether fa a un giovane conoscente di vivere comunque la propria vita. Come dire, la conclusione è nota, ma almeno diamo un senso al percorso che ci porta lì. O almeno proviamoci. Ma detto così risulta riduttivo e quasi offensivo per un libro del genere. In realtà c’è molto di più. Posso dare un suggerimento. Come in quelle scene di alcuni film di Fellini dove gli attori si lasciano andare su dei lunghissimi scivoli, anche chi legge Gli ambasciatori deve abbandonarsi al toboga del flusso narrativo di James e agli infiniti ghirigori cerebrali di Strether.

Graham Greene in una sua acuta riflessione sembra confermare la mia teoria di un Henry James perennemente in equilibrio tra i due piatti della bilancia:

«…James credeva nel soprannaturale ma vedeva il male come una forza pari al bene. L’umanità era carne da macello in una guerra troppo equilibrata perché potesse venir conclusa…».

Insomma, dopo avere preso atto della tragicidità del destino umano James ha deciso di soffermarsi sull’orlo dell’abisso. Al fondo di tutta la sua opera c’è senza dubbio il male, o, per essere più precisi, la consapevolezza e la presa di coscienza del male, ma i personaggi dei suoi libri sono descritti prima della fatale presa d’atto, quando si muovono, per dirla alla Nabokov, «sbattendo debolmente le ali qua e là come farfalle disorientate, lasciate libere in una regione a loro estranea, a un’altitudine inadatta, in mezzo a una flora sconosciuta» cercando un barlume di speranza, forse una possibilità di riscatto. È quello che all’autore interessa raccontare. Ed è qui che vedo un filo rosso che parte da Leopardi e arriva ad Henry James. Tutti e due sembrano dire che una volta appurata l’inutilità della religione, della politica e di ogni altra falsa consolazione, non rimane altro che lasciarsi andare alle illusioni, alla fantasia e all’immaginazione della mente e, permettetemi la licenza, “naufragar in questo mare”.

Bisogna sempre ricordare che James è uno scrittore di domande non di risposte. I suoi libri sono pieni di spiegazioni che non spiegano niente, di sottintesi, di allusioni. Tutti artifici che consentono ai protagonisti, e a noi lettori, di rinviare il momento della verità, quello della piena consapevolezza del male e di restare in quella zona grigia dove James, grande estimatore dei grigi vedi alla voce A Londra, dà il meglio di sé. Penso al bellissimo Quel che sapeva Maisie tutto costruito sul sapere e non sapere della bambina protagonista, sul fare finta di sapere per non volere sapere in un gioco che sembra non finire mai.

Lo stile di James non è che la logica conseguenza di quanto detto fin qui. Quelle sue frasi interminabili ricche di incisi, subordinate e digressioni sono avvolgenti come ragnatele e sinuose come onde del mare. Sembrano fatte apposta per non fare andare avanti la storia che raccontano e prolungare all’infinito lo spazio dell’indagine su ogni minima sfumatura del pensiero dei personaggi. Una sorta di surplace narrativo a cui è impossibile resistere per un lettore degno di questo nome. Quando sembra il momento di procedere nel racconto c’è sempre una nuova circonvoluzione cerebrale da seguire e indagare. Non mi ha stupito scoprire che molte delle sue opere in realtà non sono state scritte di pugno dall’autore, ma dettate a voce alla dattilografa. Il ritmo delle frasi ricorda proprio il passo lento e cadenzato di chi compone oralmente camminando avanti e indietro per la stanza.

Uno scrittore che rifugge dai fatti, dai clamori. È allusivo, sfuggente, tutto fruscii e scricchiolii. Per molti versi la sua narrativa assomiglia alla vita stessa di James, che era un uomo di segreti e in quanto tale ha sempre mantenuto un velo di riserbo sugli avvenimenti che hanno segnato la sua personalità, trincerandosi dietro una fitta serie di abitudini e consuetudini. Quando non era in viaggio le sue giornate a Londra erano scandite dalla colazione del mattino in stanza, il lavoro nello studio, il pranzo al Reform Club, le uscite serali in società. Uno di quegli uomini che tutti frequentano per anni, ma che poi in realtà nessuno conosce veramente. Non vorrei essere irriguardoso verso un genio come James, ma in fin dei conti la sua vita non è così diversa da quella che fanno molti di noi.

Dice ancora bene Greene quando afferma che:

«…la bellezza dei suoi libri è la stessa degli ultimi dipinti di Turner, tutti aria e luce, e dovete osservarli a lungo, quei bagliori, prima di distinguere nettamente la linea di contorno degli argomenti».

Proprio così. Anche nei libri di James bisogna farsi largo nell’intrico di reale e immaginario e trovare una via nella giungla delle apparenze per non essere tratti in inganno. Il tema del contrasto tra l’innocenza dell’America, il Nuovo Mondo, e l’ambiguità dell’Europa, il Vecchio Mondo, così spesso presente nella sua opera, solo a uno sguardo superficiale può essere considerato il focus della sua ricerca letteraria. In realtà quello che interessa James è seguire i suoi personaggi nel loro viaggio verso la scoperta della verità e per farlo si immerge in quello che lui stesso definisce: «l’illimitato potere della coscienza» e nelle infinite possibilità dell’animo umano. La prova provata che Henry James più che l’ultimo grande scrittore dell’Ottocento è il primo grande scrittore del Novecento la si può trovare nel suo racconto più bello La bestia nella giungla, dove il protagonista, John Marcher, con tutta la sua incapacità di vivere è uno che «con assoluta precisione, aveva fallito tutto ciò che doveva fallire». Il prototipo fatto e sputato dei tanti non-eroi che segneranno la letteratura novecentesca più grande.

Quella di James è una narrativa terapeutica fatta di segreti, di allusioni, di non detti, di bugie, di riflessioni, di tutto quell’armamentario che aiuta anche noi poveri lettori a tergiversare, a guadagnare tempo, prima di arrivare faccia a faccia con il vuoto e con l’orrore. I romanzi, i racconti e tutte le storie che ha scritto hanno un termine solo per ragioni pratiche, ma in realtà non finiscono mai perché nascono e vivono su una sensibilità infinita. A un certo punto di Ritratto di signora Henry James scrive: «Chiamo ricca la gente ch’è in grado di realizzare gl’impulsi della propria immaginazione». E allora leggetelo e arricchitevi.

Silvano Calzini

***

Henry James. L’universo privato

Qui vorrei rintracciare l’Henry James scrittore istintivo e poetico risalendo all’origine delle sue fantasie. Ma non è facile trovare la sua cristallizzazione dentro i suoi lavori dal momento che il suo scopo principale era drammatizzare. James era estremamente attento, più di altri, ad escludere ogni considerazione personale, ma penso che possiamo guardare nel dettaglio una sua frase ne “La torre d’avorio” laddove parla delle cose nere e impietose che stanno dietro alle grandi rendite: si tratta della fantasia che detta legge e che lo spinse a scrivere, un senso del male religioso quanto a intensità.

Come scrisse Conrad: “L’arte di per sé si può definire come il tentativo di una mente solitaria di rendere il più alto grado di giustizia all’universo visibile” e non c’è altra definizione, nelle sue prefazioni, che meglio descriva l’oggetto che Henry James perseguì così appassionatamente – sempre che la parola “visibile” non escluda la sua visione privata. Se ci sono momenti in cui avvertiamo, ne “La fonte sacra” o ne “La coppa d’oro”, che il giudice sta prendendo in considerazione troppi fatti, che potrebbe anche basare la sua sentenza su meno prove, dovremo però sempre ammettere, mentre si dipana il lungo nastro della corruzione umana, che James non ci ha mai messo in condizione di perder di vista il caso principale; e siccome la sua mente è legata alla resa del male (persino del male) quale “più alto genere di giustizia”, la simmetria del suo pensiero predispone a sistema l’intero corpo delle sue opere.

Nessuno scrittore ha lasciato una serie di romanzi di un solo pezzo di morale. La differenza tra i primi libri di James e gli ultimi è una mera differenza di arte secondo la definizione di Conrad. Nei suoi primi lavori, forse, rese un po’ meno quanto al “più alto grado di giustizia”; il progresso da “L’americano” a “La coppa d’oro” riguarda un percorso che va da una simbolizzazione di verità abbastanza cruda e inesperta verso la verità in se stessa: un progresso dal male rappresentato, abbastanza ovviamente, nei termini del delitto, che diventa poi il male incarnato, il male che va a spasso su Bond Street: ricco di charme, acculturato, sensibile – il male che si riesce a distinguere dal bene principalmente per il completo egotismo del suo aspetto. Questi ultimi personaggi di James sono anarchici fatti e finiti e formano il background immorale di quel periodo straordinario fatto di violenza disorganizzata che anticipò la Prima guerra mondiale: l’attentato all’osservatorio di Greenwich, l’accerchiamento di Sidney Street. Tutto dava il tono, la sensazione che rese possibile le più crude manifestazioni presentate da Conrad ne “L’agente segreto”. E allora abbiamo Merton Densher che pianifica di sposare la morente Milly Theale per soldi congiurando contro la sua amante che era la migliore amica di lei; il Principe Amerigo che tradisce sua moglie insieme a una sua amica che è moglie di suo padre; Horton che svaligia la cassa del suo amico Gray: l’ultima svolta  è sempre quella dell’amico, dell’intimo che tradisce – sono studi di corruzione morale che rappresentano un’attitudine che fu di James fin dall’inizio, non sono il tardo frutto maturato con dolore dall’esperienza. L’attitudine non variò mai dal tempo de “L’americano” in poi. Mme de Bellegarde che assassina suo marito e mette all’asta la figlia è solo la prima cruda presentazione di una donna che gradualmente si fa più sottile, di modo che avrete Mme Merle in “Ritratto di signora” e quelle figure malvagie, non etichettabili, le varie Kate Croy e Charlotte Stant.

“L’americano”, più che “Gli europei”, rappresenta l’esperienza arresa davanti alla fantasia. James non aveva trovato un suo metodo ma aveva finalmente un suo tema. Possiamo anche lamentarci che i suoi libri più superficiali abbiano avuto così pochi successori, ma la letteratura inglese ha davvero poco che sia leggero, lucido e spiritoso – eppure non riusciamo a sorprenderci se James ha poi scartato molti di quei romanzi dalla raccolta completa, conservando invece quella finzione de “L’americano”. E pensare che mise da parte pure “Washington Square”, così delicato, quasi felino, l’unico romanzo – forse – in cui un uomo sia riuscito a invadere il campo femminile producendo qualcosa di paragonabile a Jane Austen. E come avrebbe potuto fare altrimenti? Era rimasto fedele alla sua più profonda, personale fantasia. Diede del “povero” a Flaubert perché si era fermato troppo presto. Mentre James rimase sempre in aria davanti al portone d’ingresso che gli sembrava così incantevole – e ancora sembra di vederlo lì davanti, quasi una sentinella in forma di statua.

I suoi primi romanzi, fatta eccezione per “L’americano”, certo sono frutto di quell’attesa davanti al gran pubblico che non apriva la porta. Gli servirono per il suo scopo: migliorò le sue maschere e il suo humour non riuscì mai migliore; ma quando poi emerse da quelle prime opere per riprendere il suo studio della corruzione ne “Le ali della colomba” era straordinariamente migliorato: invece del delitto avete la violenza mentale, agonizzante, invece di Mme de Bellegarde, Kate Croy; invece dell’eroina melodrammatica, Mme de Cintre, lo studio sentito in modo così personale di Milly Theale. Perché per fare “la giustizia al più alto grado” alla corruzione dovete mantenere la vostra innocenza: dovete esser consapevoli in ogni istante dentro di voi del tradimento a cui sono esposte tutte le cose che abbiano un qualche valore. Se Peter Quint vuol radicarsi in voi, dovete lasciare che si corrompa il bambino, che diventi un fantasma. E al centro di questa di innocenza, queste vittime del tradimento sono quasi sempre donne.

L’attitudine mentale che dettava queste situazioni era stabile. Henry James aveva una facilità straordinaria a ricoprire le sue tracce (possiamo venir biasimati se supponiamo che aveva ragione a fare così?). Nelle sue magnifiche prefazioni descrive la genesi delle sue storie, dice dove le ha scritte, il metodo adottato, i problemi affrontati: sembra come un congiurato che mostri tutto davanti alle colonne di carta processuale. Ma dovete andare un po’ più indietro rispetto all’aneddoto raccontato a cena se volete rintracciare l’origine di queste fantasie così urgenti. Se volete fare questa esplorazione, prefazioni e autobiografie vi aiutano molto poco. Certamente vi danno il suo modello per far le cose bene; è meno abile però nel cancellare il sentiero che, se adocchiato, porta alla sua giovinezza (sempre che si possa parlare di “abilità” relativamente a un costrutto che probabilmente era semi consapevole, quando non inconsapevole del tutto).

Sembra davvero insoddisfacente quel poco che dice nei suoi volumi di ricordi, “Un ragazzino e altro” e “Note di un figlio e di un fratello”. Henry James tocca poco l’argomento famiglia. Il suo stile è al massimo della complessità: la bellezza dei suoi libri è la stessa degli ultimi dipinti di Turner, tutti aria e luce, e dovete osservarli a lungo, quei bagliori, prima di distinguere nettamente la linea di contorno degli argomenti. Certo scoprirete nulla di quello che risultava doloroso alle due figure principali, Henry James Senior e William James: il loro senso di possessione demoniaca, il tentato suicidio.

James ha raccontato di quando una volta mentre da piccolo stava facendo un acquisto insieme ai genitori e vide l’immagine di un ragazzo idiota, epilettico. Questo ragazzo è la sua spinta alla morte, l’immagine dannata che è molto più importante per i suoi romanzi di tutta Grosvenor House e tutta quanta la società vittoriana. È vero che l’anarchia morale dell’epoca gli diede i suoi materiali ma non sarebbe riuscito a trattarli se non avessero corrisposto con la sua fantasia privata. Si trattava di gente materialista, ma non potete leggere i suoi romanzi senza rendervi conto che il suo creatore non era come loro. Se mai ci fu un autore tutto “coperto da buchi” questo fu Henry James. Quando tocca questo nervo, la paura del male spirituale, tratta il suo lettore senza la sua consueta franchezza: sarebbe pretenzioso dire che “Giro di vite” è una storia di fate pura e semplice, roba adatta per la stagione natalizia. Non si può fare a meno di esser persuasi che lì aveva toccato la sua più grande inibizione, attingendovi.

Per un biografo i primi anni formativi devono sempre avere un fascino particolare: c’è l’occhio innocente che si aggira tranquillo su un nuovo mondo non ancora esplorato, ci sono le tacche dell’esperienza futura su quell’alloro in fondo al viale, dopo la passeggiata, ci sono le voci di gente antica, i visir delle “Mille e una notte” che scuotono il capo, gli strani incidenti che sembrano decidere non solo che questo bambino sarà uno scrittore ma che sarà un genere di scrittore di un certo tipo e non di un altro. E non si tratta di “far giustizia alla poesia”. James progettava le sue storie non come moralista ma da realista. Il suo background familiare, il suo fallimento personale determinarono la sua visuale sull’universo sensibile quando incominciava a scrivere e non c’era nulla nella società del suo tempo che potesse fargli considerare le cose da un altro angolo. Era sempre stato vicino alla verità per come la vedeva e tutto questo approfondimento dell’esperienza aveva soltanto modificato un omicidio che ora diventava un adulterio. Ma mentre ne “L’americano” non aveva avuto pietà per l’assassino, ne “La coppa d’oro” aveva certo imparato a compatire gli adulteri. Non c’era pietà per gli umani, questa la sua conclusione; eravate puniti tutti in modo diverso, sia che foste del partito di Dio, sia che foste nelle file del Diavolo. James credeva nel soprannaturale ma vedeva il male come una forza pari al bene. L’umanità era carne da macello in una guerra troppo equilibrata perché potesse venir conclusa. Se era stato colpevole di supremo egotismo nel preservare la sua propria esistenza, aveva lasciato però del materiale, nella sua profonda analisi, per rendere anche a questo egotismo la giustizia “più alta”, dando al male quel che gli spettava.

James non aveva mai avuto grande interesse per la passione del padre che era un seguace di Swedenborg, ma aveva accumulato quanto bastava per rafforzare la sua eresia personale, certo più tradizionale. Perché suo padre credeva, stando alle sue parole, che “il male o l’elemento infernale anche quando non sia di natura divina è non solo non meno vigoroso, ma persino più insinuante e produttivo ai fini dell’eminente produttività mondana” (e così si potrebbe descrivere l’acquisizione di denaro fatta da Milly Theale). La differenza tra lui e il padre, certo, era più grande di quel che potrebbe sembrare. Il figlio non era un ottimista, non condivideva le speranze paterne riguardo all’elemento infernale, solo aveva pietà per quelli che vi erano immersi; ed è per questa giustizia resa all’ultimo dalla pietà, per questa completezza di analisi che gli consentiva di compatire gli attori umani più usurati, più corrotti, che si installa tra i maggiori scrittori creativi. Nella storia del romanzo James è da solo come lo è Shakespeare nella storia della poesia. (1936)

Graham Greene

* traduzione italiana di Andrea Bianchi

Gruppo MAGOG