
Elogio della zitella. Quando la scrittrice di “Piccole donne” si inventò il “new journalism”
Letterature
Fabrizia Sabbatini
In un paio di brevi saggi pubblicati nel 1915 sulla sua fanzine, “The Conservative” (nomen omen), Howard Phillips Lovecraft denunciava le proprie convinzioni liriche. Nel primo articolo, Metrical Regularity (uscito nel luglio del ’15), difendeva il genio della poesia classica, canonica, contro i fautori del verso libero, della grossolana ‘libertà’ dalle forme metriche, mercenari dall’istinto brutale. Il risultato, a suo dire, era una cacofonia verbale: mero rumore. Per Lovecraft l’ispirazione, proprio perché selvaggia, deve essere ingabbiata in forme stabili. Insomma, era liricamente un reazionario. Grosso modo le stesse idee vengono avanzate nell’articolo gemello, The Allowable Rhyme (October, 1915), in cui H.P. si erge a paladino della rima. L’attacco del pezzo suona così:
“La tendenza poetica del secolo presente e di quello che lo ha preceduto, è singolarmente divisa in due fazioni. Da un lato ci sono i rumorosi ed eccentrici bardi che cedono alle corrotte spire di una cultura in decadenza, che ha abbandonato l’incanto del verso per una folla corse verso il sensazionalismo lirico, la ‘novità’; dall’altra, vi è una scuola silente, che si sviluppa dalla logica della poesia georgiana, elaborando un’accuratezza metrica e ritmica sconosciuta perfino ai più raffinati artisti dell’epoca di Poe”.
Lovecraft aveva cominciato a scrivere poesie fin da bambino, sedotto dall’Odissea e dalle Mille e una notta; nel 1912 uscì la sua prima poesia su rivista, s’intitolava Providence in 2000 A.D. Lovecraft continuerà a scrivere versi per tutta la vita: l’edizione dei “Complete Poetical Works”, editi nel 2001 come The Ancient Track a cura di S.T. Joshi, conta oltre cinquecento testi; la sezione “Juvenilia” raccoglie prove di H.P. che risalgono a quando aveva dieci anni. Gli piacevano le rovine e le divinità pagane, già ragionava On the Vanity of Human Ambition. Una delle ultime poesie, pubblicata nel 1936, è dedicata al suo mito, Edgar Allan Poe (l’abbiamo tradotta in calce all’articolo, insieme a una stretta silloge di altri testi). Con i versi, H.P. mirava a costruire solidi perfetti, cristalli dal lucore enigmatico.
Di norma, le poesie di H.P. ricalcano i temi orrorifici dei suoi ben più noti racconti. Dilagano gatti demoni, arcani segni, astri intrisi d’odio. Tutto il cosmo pare lacerato dall’agonia. Secondo la propria poetica, Lovecraft narra il caos in metri armonici: mette la museruola ritmica al demone. Questo conferisce ai suoi versi – poco noti in Italia: segnaliamo la traduzione del ciclo di sonetti Fungi from Yuggoth a cura di Sebastiano Fusco e Gianfranco De Turris per Barbera nel 2007 – un’allure da salotto, da gioco d’ombre mentre fuori infuria il fortunale. Insomma: H.P. rischia di essere un simbolista fuori tempo, pare affiliato ai nostri Scapigliati, che giocavano con i cadaveri, le mummie, i veleni fittizi del tempo presente, fittavoli di Baudelaire, in perpetuo pallore. Riesce, invece, H.P., quando doma la materia inquietante in toni narrativi o atrocemente apodittici.
In una poesia occasionale, Lovecraft canta con brio la venuta del Natale. I campanili squillano, il focolare crepita. Anche l’oscuro creatore di Cthulhu sapeva essere felice.
La vena satirica di H.P. è invece esuberante in Waste Paper (“Carta straccia”), “Un Poema di Profonda Insignificanza”, che fa il verso alla Waste Land dell’odiatissimo T.S. Eliot. Lovecraft dileggia i colloquialismi spacciati in poesia, i concetti fumosi, l’albeggiare di frasi oracolari che si rivelano meri nonsense, l’insensatezza stessa della poetica di Mister Eliot. Alcuni versi sono ferocissimi: Lovecraft osteggia quei “noiosi libri, più banali degli inferi/ i ripetuti pensieri divenuti ormai una piaga”, mima il linguaggio jazz di Eliot, ne contorce i toni (così il finale: “Henry Fielding ha scritto Tom Jones/ e sia maledetto chi smuove le mie ossa./ Buona notte, buona notte, le stelle brillano/ vidi combattere Benny Leonard contro Lew Tendler./ Addio, addio, vai all’inferno./ Nessuno in casa/ Shantih è una baracca”). Poi, lo azzanna:
“Non hai un po’ di T.S. Eliot in casa?
Il cervo della sera ha bevuto a sufficienza
Il cornuto cervide è assetato sul colle
allunga il collo come un’antenna
e pubblicizza quel doppiogiochista”.
Una bordata contro l’incipiente ‘modernismo’. Lovecraft, lirico reazionario, era fiero di essere fuori dal coro, fuori dal proprio tempo. Eliot non accusò la sua presenza.
Per lo più alieno al circo poetico del suo tempo, tuttavia, tramite Samuel E. Loveman, poeta di incerto valore, traduttore di Baudelaire e di Verlaine, H.P. conobbe Hart Crane, tra i grandi, tragici poeti del secolo. Si incontrarono nel 1922, a Cleveland, a casa di Loveman; Lovecraft, a quell’epoca, viaggiava con Sonia Greene, l’amica amante che avrebbe sposato due anni dopo, pur con scarsa fortuna. Hart Crane stava lavorando a White Buildings; H.P. non poteva capire quella ricerca nel carisma del verso, ma restò affascinato dal poeta che tentava, con estro esorbitante, di fondere la tensione classica al tempo della metropoli, Arcadia e Brooklyn. Il 24 maggio del 1930, raccontando a Lilian D. Clark una serata newyorchese con Crane, H.P. ne stende un ritratto cangiante, supremo:
“Saranno state le otto, suonò il campanello, apparve quell’amico di Loveman, il tragicamente ubriaco ma ora eminente poeta Hart Crane, il cui ultimo libro, The Bridge, lo ha reso una delle figure più celebrate e chiacchierate della letteratura americana contemporanea… Cominciò a discettare della giusta quantità di whisky che si dovrebbe bere per parlare bene in pubblico, ma appena la discussione virò sulla poesia, quel lato sordido della sua strana sdoppiata personalità scivolò via come un mantello e Crane si rivelò per ciò che era, un uomo di grande cultura, intelligenza e gusto estetico, capace di una profondità, nel discorrere, che non ho mai udito prima. Povero diavolo, ora che è ‘arrivato’ come poeta americano standard, considerato da recensori e critici, è sull’orlo della disintegrazione psicologica, fisica, finanziaria, certo di non riuscire più a scrivere nulla di importante. Dopo circa tre ore di discussione arguta, Crane si è dileguato alla ricerca di whisky, per bandire da sé la realtà almeno per il resto della notte… Ha soltanto 33 anni ma i suoi capelli sono del tutto bianchi. Il suo caso ricorda, in scala, quello di Baudelaire. The Bridge è davvero un testo dal valore straordinario”.
Lovecraft aveva i capelli impomatati e neri, il volto indefettibile; la notte era il suo regno. Sognava di diventare un grande poeta – gli incubi lo hanno sopraffatto. Se nei versi il mostro restava in teca, in un barattolo sott’acido, nei racconti scorrazzava, libero di insidiare il lettore. Così, per reazione, si fa una rivoluzione.
***
Astrofobia
Bruciano i cieli di mezzanotte:
tre le eteree profondità
mirai, roso da desideri inquieti
una stella aurea, seducente:
lo sguardo a lei tornava
vagava verso il carro Artico.
Onde mistiche di bellezza splendono
con magnetici raggi dorati;
fantasie di beltà si fondono
a una violacea foschia elisa;
lungo gli accordi della lira
si distende l’armonia di Lidia.
Lì – pensai – scene di lussuria
dove dimorano i liberi e i beati
ogni istante è un tesoro
pieno dell’incanto del loto
lì fluttua la liquida misura
del corno di Israfil.
Lì – pensai – mondi di sconosciuta
felicità baluginano, Pace
e Innocenza intrecciate
al trono della Virtù Incoronata
Uomini di luce dai raffinati pensieri
più puri e mirabili dei nostri.
Così pensavo quando la visione
fu corrotta da rosso delirio;
la speranza muta in derisione
la bellezza in cupa rivolta
accordi collusi al crollo
ombre spettrali in infinita schiera.
Ardeva così la stella del dolore
mentre ne scrutavo i raggi;
la felicità si fece sofferenza
i miei occhi inceneriti dalla verità;
cacodemoni lordati dalla follia
si sbriciolavano in febbrile tremore.
Ora so la diabolica fiaba
celata da dorati squarci;
ora non miro più la maculata
stella che amavo un attimo fa;
ma l’orrore è la sola cosa stabile
perseguiterà per sempre la mia anima.
*
Il mistero della vita
Vita, vita?
Qual è il senso di questa fluorescente messa in scena?
Chi può spiegare un tema tanto evanescente?
Chi muore è la chiave della Vita –
Il simbolo ci sfugge, un abisso il sepolcro.
L’uomo è un respiro, la Vita il fuoco;
Nascere è morire, il silenzio chiacchiera.
Strappa il cuore d’oro dagli eoni!
Lacera dal tessuto i fili troppo vecchi!
Vita, vita!
*
Concedimi la vita di provincia
disinibita, libera e dolce;
un luogo dove possano
prosperare le arti.
Sono stufo delle vecchie convenzioni
dei critici che non conoscono candore.
Voglio cantare negli aperti spazi
tra esteti dai modi gentili.
Un luogo in cui ogni bardo è un genio
ogni artista è un Raffaello:
sopra i tetti di Greenwich
si accuccia la Musa del Talento.
*
Natale
Il focolare è luminoso, irradia
calore, le candele brillano di gioia;
le stelle hanno una luce gentile
sopra i cumuli di neve.
Dal cielo una magia si insinua
per affascinare l’anno che passa:
i campanili gridano felici
perché Natale sta arrivando!
*
I gatti
Babele di ombre che svetta verso gli alti cieli
fiamme di futilità che turbinano a terra;
velenosi funghi che sbocciano dai mattoni
lanterne che tremano, smorte luci che brillano.
Ponti neri e mostruosi su fiumi d’olio
ragnatele di cavi ideati da cose innominate
catacombe abissali il cui caos fa dilagare
flussi di vivo fetore, che si snoda al sole.
Colore e splendore, sconfitta e malattia,
urla, strepiti, squilli, esotiche
folle inseguono divinità straniere
disastrosi odori che annientano il cervello.
Legioni di gatti nei cunicoli notturni
ululano magri al bagliore della luna
ringhiano il futuro con bocche infernali
urlano il fardello della rossa runa di Plutone.
Torri e piramidi ricoperte di edera, in rovina,
pipistrelli che piombano in picchiata su vie
lorde d’erba, tetri ponti su rivi il cui rombo
penetra roco nella marea che arretra.
Campanili azzoppati, neri, contro la luna,
caverne dai pertugi cancellati dal muschio
turbe di vivi che resistono all’acqua e al vento:
soltanto i gatti randagi urlano nella terra desolata!
*
Il Messaggero
La cosa, disse, sarebbe arrivata di notte, alle tre
dal vecchio cimitero, nella collina sottostante.
Accovacciato di fianco al bagliore del fuoco di quercia
mi convinsi che così non poteva essere.
Di certo, meditai, è uno scherzo
ideato da uno che non conosce
l’Antico Marchio, tramandato molto tempo fa
che sa sciogliere le forme fluttuanti dell’oscurità.
Forse non era vero – no – eppure accesi
la lampada mentre il Leone stellato marciava
oltre Seekonk: il campanile dettò
le tre, la luce del fuoco si spense.
Alla porta giunse il cauto ringhio –
quella folle verità mi divorò come fiamma.
*
In un appartato cimitero di Providence dove Poe, un tempo, era solito camminare
Eterne fluttuano le ombre sulla terra
Delirano dei passati secoli;
Grandi olmi svettano solenni sui tumuli, formano
Archi sopra un mondo nascosto, ormai scomparso.
Rapida, la gemma della memoria irradia la scena:
Allucinate le foglie sussurrano di giorni trascorsi
Lampeggiano volti e suoni di chi non è più.
Lacero e triste uno spettro scivola proprio lì, dove
Arpionava le sue viventi orme;
Nessuno sguardo lo scopre, benché il canto
Protegga la notte in un misterioso incantesimo:
Ormai sono pochi gli edotti nelle arti della stregoneria
Esperti nel riconoscere tra queste tombe l’ombra di Poe.
H. P. Lovecraft